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Fotografi emergenti: un nuovo spazio a Milano
milano bis
Accanto al Duomo, nel museo Zucchi, per la direzione artistica di Enrica Viganò inaugura ClicArt. Apertura con la mostra 'Cupo Incanto' di Marianna Cappelli. Nell’articolo la presentazione della nuova galleria fotografica e un’intervista all’artista…
di redazione
E’ un’iniziativa promossa dall’agenzia fotografica Marka e da Zucchi per offrire alle/ai giovani artisti la possibilità di presentare il proprio lavoro fotografico al mercato. Non soltanto quello di chi già acquista e colleziona opere fotografiche ma allargato a un nuovo collezionismo, che l’iniziativa ha l’ambizione di sollecitare. Le quattro mostre monografiche annuali dedicate ad esordienti avranno cioè le caratteristiche delle esposizioni di autori già affermati, con opere in numero limitato (max 10 copie numerate) in pass-partout museali, corredate da catalogo, ma saranno in vendita a prezzi che dovrebbero invogliare chi acquista per la prima volta un’opera fotografica. ClicArt non sarà però una galleria commerciale, nel senso che non tratterrà percentuali sulle eventuali vendite dell’autore in mostra. Quindi investire in creatività esulando dalle logiche del mercato delle clientele, esaltando e ricercando le qualità delle immagini. Da qui l’idea di fissare un prezzo politico € 250 per le opere di piccolo formato e € 500 per le stampe di grande formato. Un’altra idea, sempre nella direzione del creare nuovi collezionisti, è quella di produrre cartelle d’autore, con quattro immagini a tiratura limitatissima, da vendere a un prezzo leggermente inferiore alla somma delle opere se comprate singolarmente. Così Roberto Ferri, Maurizio Zucchi, Cristina Bertè Zucchi: vogliamo che questa sia a tutti gli effetti un’operazione culturale. Un nostro modo per creare ‘movimento’ nel panorama dell’offerta artistica cittadina. Con una scelta di fondo: artisti e opere in grado di suscitare emozioni e di parlare a un pubblico allargato. Enrica Viganò, curatrice del progetto, spiega: Una fotografia in grado di parlare a tutti, privilegiando la ricerca di quelle immagini che possano comunicare con forza le storie della vita e le forme del sentire per differenziare l’orientamento artistico di ClicArt da quella fotografia contemporanea che si avvale al contrario di argomenti di ordine concettuale, difficilmente leggibili.
La giovane fotografa napoletana Marianna Cappelli presenta per la prima volta a clicArt un lavoro sull’infanzia e sui suoi linguaggi. Sono scatti in b/n in cui i movimenti fisici, dei volti, dei corpi, si costruiscono su fondali neoreal; gli sfondi e/o i primi di città, strade, interni fermano le corse dei bambini nel Campo Terremotati Licola (Na),1993, il gioco delle mani di una bambina con un sottile raggio di luce, Novara 1994, le espressioni di una bambina appoggiata ad un muretto che guarda su Posillipo 1994, neorealizzano magie, paure, ansie di cambiamento, di crescita.
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Informazioni
Inagurazione martedì 29 gennaio 2002 – ore 18.00 inaugurazione – c/o Zucchi Duomo – Via Ugo Foscolo 4 – piano inferiore – Milano.
Nuovo spazio per la fotografia – clicArt – con la mostra Cupo Incanto di Marianna Cappelli.
La mostra dura fino al 16/III/2002
Orari: lunedì 15.30-19.30, da martedì a sabato 10.30-19.30
Ingresso libero
Ufficio Stampa G. Braidotti
348-3152102 fax 011-534311 – e-mail:
threesixty@infinito.it
Pubblicazione monografica Marka – Milano – tel. 02-439221
Il catalogo della mostra ha un formato particolare (cm 30×42), una sorta di magazine patinato, il cui formato permette una piena valorizzazione delle immagini, nonché la realizzazione di un vero e proprio poster interno.
La selezione degli artisti avverrà su semplice presentazione di un portfolio alla direttrice artistica del progetto, Enrica Viganò. Tale metodologia permetterà a ClicArt di programmare con continuità e professionalità mostre dedicate alla creatività giovane e non ancora affermata, spesso ricca di stimoli sorprendenti.
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Come è iniziata la tua passione per la fotografia?
Era da poco nata mia figlia e ho cominciato a fotografarla come una mamma fotografa la sua bambina, senza alcuna ambizione, e poi ho pensato che potevo fare un corso per imparare a usare meglio la macchina fotografica, una necessità molto banale. Ho frequentato la scuola Donna Fotografa al Diaframma.
Per aver iniziato senza ambizioni mi sembra che sei arrivata lontano….
Lì ho scoperto che la fotografia andava oltre le immagini di mia figlia. Ho cominciato a essere curiosa, ho cominciato a guardare un sacco di libri di fotografia. E poi ho visto una mostra che mi ha fatto scattare dentro una molla: c’erano le fotografie di Antonio Biasiucci. Il suo sguardo così riservato, però così forte, quel suo modo di guardare dei frammenti di vita, che poi fanno parte di un discorso che riguarda le sue radici, l’organizzazione dello spazio, tutti elementi che lui rendeva straordinari.
Ma come è scattata la molla?
Non so, lui parla sempre di qualcosa che conosce e riesce a rendermi partecipe. Io stessa non posso fotografare qualcosa che non conosco, che non mi appartiene, in qualche modo devo entrare in relazione.
Qual è stato il tuo primo progetto fotografico?
Proprio questo sull’infanzia, ho incominciato con mia figlia e poi ho allargato ai suoi compagni. E’ una ricerca che è durata nel tempo. Almeno otto anni di lavoro.
Cosa è cambiato nell’arco di otto anni nel tuo modo di vedere i bambini.
All’inizio vedevo solo il lato fantastico, questa cosa della scoperta del mondo, questa cosa del meraviglioso, lo stupore. Osservavo il loro rapporto con lo spazio, loro stanno in basso e vedono tutto da una prospettiva diversa. Poi ho iniziato a vedere anche l’altro lato. Perché il fantastico presuppone sempre qualcosa di misterioso, le due cose entrano l’una nell’altra, sempre.
Da qui viene il titolo della mostra Cupo Incanto?
Sì, leggendo un’intervista a Anna Maria Ortese (lei è romana però ha vissuto tanti anni a Napoli e i suoi libri più belli sono quelli scritti a Napoli parlando di Napoli) ho trovato una definizione di Napoli che mi ha colpito molto. L’ha chiamata la città de Cupo Incanto e ha colto la sua duplice entità: una città solare dove però si sente forte anche la parte “sotterranea”, quella buia. Io sono di Napoli, ho vissuto lì fino ai vent’anni, e ho riconosciuto questa polarità. Così guardando il mio lavoro sull’infanzia ho voluto cercare un titolo che evidenziasse le due facce della medaglia: da un lato l’area solare che appartiene al gioco e al controllo della realtà da parte del bambino e dall’altro, invece, la difficoltà del crescere che gli pone comunque delle prove da superare. Nelle favole c’è sempre un bosco che per quanto incantato nasconde sempre delle insidie.
Non ti senti invadente quando fotografi i bambini?
Di solito no, anche perchè o li conosco oppure se li vedo per la prima volta cerco di entrare in rapporto con loro. Di solito viene molto naturale. La mia presenza non disturba. Forse ho iniziato a fotografare proprio i bambini anche per un problema mio di timidezza, andare a fotografare gli adulti sarebbe stato più difficile per me.
Ma per esempio con i ragazzini di strada, come è andata?
Con gli scugnizzi di Napoli è andata così: era una banda di queste che vivono sempre per strada, ho iniziato a fotografarli nel primo pomeriggio e nella prima fase prevaleva il loro esibizionismo. Cercavano di provocarmi, per esempio facendo la pipì da sopra un muretto, poi seguendoli nei loro giri fino a tarda sera si sono sciolti e hanno fatto vedere il loro lato più fragile. Pensa che quando si mettevano in posa spesso allargavano le braccia, un gesto che non vedi mai fare ai bambini cosiddetti normali. Sembrava quasi che volessero sollecitare un abbraccio. Invece a Barcellona, in questo quartiere di immigrati arabi ho fatto le foto in una comunità alloggio che accoglieva bambini in difficoltà. La loro preoccupazione era su dove andavano a finire le foto, se c’entrava la polizia, ma poi si sono tranquillizzati; erano più diffidenti gli assistenti, temevano la mia intrusione. L’inizio è sempre un po’ difficile, c’è sempre quell’impatto, perché tu con la macchina fotografica sei invadente, non si può negare
I bambini che ritrai hanno alle spalle storie anche molto diverse tra loro?
C’è di tutto , c’è l’infanzia che ho incontrato sul mio cammino
Però ti interessa di più il momento del gioco
Si perché nel gioco è dove il bambino crea, dove è padrone del suo spazio e del suo tempo, non ha costrizioni.
Tu dai degli input, degli oggetti o degli stimoli?
Qualche volta si, ma raramente. Per esempio nella foto del velo da sposa io ho solo fornito l’oggetto, gli ho proposto se volevano giocare con il velo da sposa e loro felici si sono inventate di tutto, mentre io le fotografavo.
Sul piano professionale invece cosa ti piacerebbe fare?
Vorrei che la fotografia diventasse un lavoro. E vedo nella fotografia di moda la possibilità di esprimermi e di poterci campare. Ma non è ancora il mio caso. Sono costretta a mantenere il mio lavoro di impiegata e a fare fotografia nel tempo libero.
Hai già fatto qualche lavoro importante?
Per me sì. Ho lavorato per lo stilista Midali e la rivista Vogue Pelle.
E ti è piaciuta l’esperienza?
La moda all’inizio è molto difficile perché c’è un intero staff di persone che ti guarda mentre lavori e se sei alle prime armi ti mette soggezione. Però poi quando cominci a conoscere tutti e lavori con le stesse persone diventa più facile, è come fare un piccolo film. E’ una cosa divertente la moda, e comunque presuppone una progettualità. Perseguo sempre il tentativo di proporre un modello di donna che non sia quella stereotipata, quella seduttiva, aggressiva, supersicura, perché comunque le donne non sono solo così. Sono molto più complesse.
Nel tuo lavoro la post-produzione è importante?
Sì, elaboro in fase di stampa oppure utilizzo il digitale.
Stampi tu le foto?
Sicuramente le prime foto le stampo io sempre, le stampe in cui eventualmente intervengo. Poi le successive, soprattutto se devo fare degli ingrandimenti, le do da fare a uno stampatore che usa la mia prima stampa come riferimento. In fase di stampa dai un sentire diverso secondo le tonalità e altri accorgimenti che completano il lavoro di ripresa..
Come si integrano la tua ricerca personale con queste occasioni di lavoro su commissione?
Le costanti tra il mio lavoro personale e quello professionale sono la ricerca della leggerezza e dell’emozione. Una foto nasce sempre da un’emozione. Quando io riconosco quell’emozione scatto la fotografia. E’ un’emozione che mi appartiene, quando riconosci delle cose che hai dentro, allora scatti.
E le idee come ti vengono?
Nella fotografia di moda c’è una forte componente teatrale e io sono stata per anni coinvolta dal teatro, giusto prima di scoprire la fotografia. Facevo io stessa teatro e andavo a vedere tutti gli spettacoli possibili. Era una maniera per affrontare la mia timidezza. Adesso si è aggiunta la passione per il cinema. Amo Kusturitza per la sua capacità di dire con leggerezza anche delle cose tremende e mi piace Greenaway perché è un visionario straordinario.
Ma per te cos’è la fotografia?
Per me la fotografia deve essere qualcosa che colpisce i sensi. Tu non mi puoi fare una fotografia e poi mi scrivi sotto un papiro perché io possa capire quella fotografia. Io non lo accetto, allora non fare il fotografo, scrivi un trattato, così non mi interessa. Poi è importantissimo anche il linguaggio, come trasmettere l’emozione. La composizione per me è fondamentale. Io lavoro molto sulla composizione, però non è una cosa che organizzo a priori perché nel reportage non lo puoi fare, è una cosa che impari, impari a riconoscere gli elementi nello spazio e poi ti viene naturale. E credo che anche le tecniche devono essere utilizzate in funzione di quello che vuoi dire o far sentire. Per esempio il mosso e lo sfocato sono necessari se tu fai le foto ai bambini, che per loro natura non stanno mai fermi, non è che puoi fare delle foto statiche.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Uno dei primi che ho scoperto era William Klein, è un maestro della composizione, ma è tutto un’emozione. Questo suo “sparare” sulle persone così forte, ti fa entrare in una vertigine. Poi mi piace molto Robert Frank, e poi Mario Giacomelli e tanti altri.
E tra quelli che come te hanno lavorato sull’infanzia?
Doisneau sicuramente, quella straordinaria leggerezza che ha è bellissima. Mi è piaciuto tantissimo anche il lavoro che ha fatto Sally Mann sulle dodicenni, secondo me lì lei ha centrato in pieno, è riuscita a raccontare tutte le difficoltà di quell’età.
[exibart]
speriamo che non siano troppo….commerciali!
Belle foto,sentite e fatte con intelligenza.
Ho sempre pensato che le foto per essere artistiche devono essere frutto della mente e del cuore.
In tutte le espressioni dell’anima c’è bellezza.
Trovo molto interessante l’idea di uno spazio dedicato al mondo di coloro che hanno tante emozioni da comunicare ma pochi spazi per poterlo fare. Vi prego di farmi sapere cosa devo fare per la presentazione del mio portfolio (posso inviarlo tramite e-mail o cd? quante immagini?, che formati? ecc.)
Grazie