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exibinterviste la giovane arte – Pennacchio Argentato
parola d'artista
Sono giovanissimi eppure sin dai primi esordi a Via Farini sembrano destinati a calcare la scena artistica italiana con successo: una personale alla T293 di Napoli, selezionati alla Fondazione Ratti di Como e, oggi stesso, una collettiva al Macro di Roma…
di Paola Capata
Parlatemi della vostra formazione. Quando nasce il duo Pennacchio Argentato e quali sono gli artisti che hanno inciso (se ci sono) nel vostro percorso?
Il nostro umore è molto variabile come le passioni per questo o quell’artista.
Diciamo che le esperienze personali determinano man mano decisioni di vario tipo, che possono avere più o meno a che fare con l’arte. Le suggestioni alla base della nostra ricerca arrivano dall’esterno… Cerchiamo un’apertura che implichi linguaggi apparentemente indipendenti. Abbiamo cominciato a lavorare insieme circa tre anni fa quando frequentavamo l’Accademia di Belle Arti di Napoli.
Per la vostra prima mostra presso lo spazio Via Farini a Milano avevate realizzato un’opera decisamente complessa: un manichino a grandezza naturale, TheRunner, teso nello sforzo di percorrere i muri della grande stanza, era affiancato a dei lightbox che ponevano una serie di domande…
Vorrei conoscere il reale significato che questo lavoro ha per voi.
A Milano The Runner era parte di un’installazione più ampia che comprendeva 28 lightbox a parete.
I lightbox apparivano come schermi ultrapiatti contenenti degli psico-test, il cui argomento centrale era la percezione del proprio corpo e della propria immagine. Il test come forma di linguaggio utilizzato dai mass media esige solo una risposta immediata e già prevista da un modello di simulazione, quindi abbiamo usato questo linguaggio per comunicare una condizione di “interazione controllata” tra noi e i media, e di come questo rapporto cambia la nostra stessa percezione.
The Runner con la sua corsa assurda diventava emblema di questa situazione, sfidando le regole della gravità, costretto a correre all’interno di un circuito chiuso disegnato sulle quattro pareti dello spazio della galleria. The Runner può infine essere interpretato come la metafora di una condizione di saturazione della comunicazione che gira a vuoto su se stessa, priva di senso.
Nei vostri lavori si respira un’atmosfera incantata e misteriosa, quasi sospesa ai margini del tempo reale. I manichini in realtà sembrano possedere una storia di cui non ci è dato di conoscere nulla se non l’attimo immortalato nell’opera, qualche semplice frammento ai margini del racconto. Come in Umore blu, presentato alla T293 di Napoli, in cui una giovane coppia è immersa nel verde di un immenso bosco. Che significato hanno queste presenze?
In umore blu tutto sembra chiaro a prima vista: una finestra che si apre su un paesaggio dove ci sono un uomo e una donna che ci osservano. La scena è serena e piacevole, ma dopo un attimo si avverte un silenzio inquietante e impenetrabile. Le due presenze immobili sembrano volerci interrogare con i loro sguardi assenti, sembra cerchino da noi un senso della propria esistenza. Si tratta di un lavoro sull’incomunicabilità, sul dubbio e sull’incertezza, sul vuoto che sta dietro tutte le cose e dietro noi stessi.
Ho avuto modo di vedere alcune immagini del backstage della mostra alla T293, in particolare quelle che vi ritraggono al lavoro nel vostro studio. Dietro ogni cosa c’è una cura meticolosa, l’attenzione per il dettaglio, il particolare. Quanto conta per voi la componente manuale? Per la realizzazione delle opere vi avvalete di collaborazioni esterne o seguite personalmente tutte le fasi delle operazioni?
Finora abbiamo sempre eseguito personalmente tutte le fasi del lavoro, non potevamo delegare niente ad altri. Nel caso dei due personaggi dovevamo dare una certa intensità ai volti e abbiamo usato tutte le possibilità tecniche in nostro possesso.
Per il futuro potremmo anche avvalerci di competenze specifiche esterne, ma dipenderà dal progetto.
Sia per Via Farini che per la T293 vi siete trovati a realizzare dei lavori appositamente per lo spazio espositivo, dei veri e propri site-specific. Che rapporto avete con lo spazio, quanto conta o incide nella progettazione delle opere?
Lo spazio per noi è fondamentale perché, se ben articolato, ci permette di concentrare l’attenzione dello spettatore e di attirarlo in un punto anziché in un altro. Questo tipo di gestione dello spazio ci permette soprattutto di controllarne la fruizione.
Parlatemi del lavoro permanente che avete realizzato per una delle nuove stazioni della metropolitana di Napoli. In cosa consiste?
Il lavoro della metropolitana, che si trova nella stazione di Rione Alto, è un ingrandimento dei volti di Umore blu. Il taglio è decisamente fotografico, di primissimo piano ed insiste sulla personalità “impossibile” delle figure. Concentrando l’attenzione di chi guarda su un dettaglio, portiamo la narrazione ad uno stato frammentato e solo col tempo sarà possibile ricostruirne la storia.
Siete giovanissimi eppure il vostro lavoro sta già riscotendo ottime critiche. Quali sono i vostri programmi per il futuro? A cosa state lavorando attualmente?
Stiamo lavorando a un progetto che forse riusciremo a realizzare entro un anno, ma è ancora presto per parlarne.
Bio
Pasquale Pennacchio (Caserta, 1979) e Marisa Argentato (Napoli, 1977) lavorano insieme dai tempi –recentissimi- dell’Accademia di Napoli. Vivono tra Caserta e Napoli.
Il duo Pennacchio Argentato ha esordito con Blind Date, Via Farini, Milano 2002, a cura di Alessandra Galletta e la doppia personale Francesco Carone-Pennacchio Argentato, T293, Napoli 2002, a cura di Massimiliano Tonelli e Paola Guadagnino.
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Paola Capata
Exibinterviste-la giovane arte è un progetto editoriale a cura di Paola Capata
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