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Eccher e Politi da un capo all’altro di Bologna
altrecittà
E dai e dai Politi ha fatto mandar via Eccher, così potrebbe intitolarsi una butade di ferragosto. Eh già, perché l’illustre direttore-editore della prestigiosa rivista Flash Art non aveva certo risparmiato al suo mezzo pari Eccher, in qualità di direttore della G.A.M. di Bologna, notevoli critiche dal pulpito della rubrica “Lettere al direttore”
di redazione
Ora, nel numero estivo, Flash Art si occupa di quella che ormai da tempo non era più solo una voce di corridoio, l’avvicendamento di Peter Wiermeier alla guida della galleria bolognese. Le critiche di Politi al lavoro di Eccher si erano intensificate soprattutto in occasione della mostra curata da Achille Bonito Oliva dal titolo Appearance, giudicato, in sintesi, evento condotto all’insegna di una politica espositiva poco coraggiosa, priva di originalità, invece votata al sensazionalismo con opere di artisti troppo affermati, troppo noti, inadatti a rappresentare in modo convincente le istanze dell’arte e della società attuali. “Qualche bella opera non fa una mostra” dice Politi commentando le mostre di Eccher, a cui viene imputata una eccessiva dedizione al modello critico di A.B.O. e la complicità con il suo predecessore Castagnoli nel portare avanti una strategia che nelle intenzioni vorrebbe collocare lo spazio espositivo bolognese nel circuito delle più moderne e attrezzate gallerie europee, di fatto non sfrutta le cospicue potenzialità e finanziamenti per promuovere il ricco e sotterraneo patrimonio di arte giovanile presente sul territorio italiano, a cominciare dal sempre fertile e vivace sottobosco bolognese legato alle frequentazioni universitarie.
Weiermeier, dal canto suo, non parte certo con i favori di Flash Art che gli ricorda una carriera poco brillante dalle parti di Francoforte e Salisburgo, pur non negandogli gli auguri del caso e l’invito a circondarsi di forze giovani.
Ma in realtà la notizia della partenza di Eccher è anche un pretesto per dire che, nel complesso, l’opinione di Politi circa la recente politica espositiva della G.A.M. è in molte parti condivisibile. E’ infatti vero che la G.A.M. non è ancora divenuta quella officina che in molti ameremmo poter vedere in una città che può contare sulla maggiore fiera dell’arte italiana (le fiere d’arte sono oggi, nonostante i detrattori, sintomi della vivacità di una città in campo artistico, basta vedere Basilea e forse ancor più Berlino) e sul fervente scenario artistico giovanile.
Tuttavia si è forse trascurato un lato importante dell’opera di Eccher, la volontà cioè di assolvere ad una funzione didattica nei confronti del visitatore; le mostre da lui curate hanno sempre dimostrato un’attenzione proprio per quel pubblico cosiddetto “domenicale”, con l’intenzione di riavvicinarlo all’arte contemporanea insegnandogli a capirla. Allora si spiegano operazioni come quella dell’”Arte iconica e aniconica” di un paio d’anni fa, e per certi versi si spiega anche la stessa “Appearance”. Non è cosa nuova che il pubblico italiano, per una serie di motivi, tra cui citiamo la scadente o nulla formazione scolare e l’opportunità di fruire (malamente peraltro) del maggiore bacino d’arte antica e moderna del mondo, non è mai stato particolarmente sensibile alle vicende dell’arte contemporanea; tale tendenza si è amplificata negli ultimi trent’anni.
Qualche cosa sembra muoversi negli ultimi tempi (operazione “Musei aperti”, “Bambini al museo”), ma ancora resta molto da fare, con il rischio di dilatare il margine di ritardo che paghiamo nei confronti degli altri paesi europei. Quella di Eccher è stata una scelta, una sorta di “ricominciamo da capo partendo dalle basi” (di qui Kiefer, art ico-aniconica, ecc.) che, forse, aveva bisogno di troppo tempo. La verità sta forse nel fatto che sono troppe le falle da chiudere, e solo una politica globale ispirata dalla reale consapevolezza che l’arte in Italia può e deve diventare una risorsa fondamentale per lo sviluppo del paese potrà aiutare a colmare il gap.
C’è poi la questione del mancato sfruttamento delle potenzialità che eroicamente si maturano nei pur disastrati atenei italiani, in tutti i campi dell’arte, e questa è un’altra triste realtà, giustamente sottolineata spesso da Flash Art. Ma quando si pensa che, ad esempio, nessuno ha mai pensato che proprio dai giovani potrebbero essere pescate le risorse umane per tutelare, conservare e promuovere i più importanti depositi dell’arte italiana, le chiese, mi viene il sospetto che più che un sentimento di prevenzione nei confronti dei giovani, ci sia proprio un totale disinteresse da parte delle cosiddette persone “che contano”: eppure molte di esse sono le stesse che hanno fatto il ’68. Che facciamo? Un altro ’68?
Vorrei concludere dove ho cominciato, con Eccher. In una parte di questo articolo ho spezzato una lancia a suo favore, sottolineando la lodevole missione didattica del suo operare. Non posso chiudere senza però manifestare una certa perplessità sull’esposizione in corso attualmente alla G.A.M., dal titolo “L’ombra della ragione. L’idea di spirito nell’identità europea nel XX secolo”. Stando tutte le intenzioni di cui sopra, stavolta mi pare che Eccher abbia proprio esagerato.
Una mostra annunciata con quel titolo se, di primo acchito, proclama un’intenzione quanto mai stimolante e interessante, subito dopo insinua nel potenziale spettatore il dubbio sul livello qualitativo e scientifico dell’operazione. E che vorrà mai dire quel titolo costruito sulle parole “Ragione” “Idea” “Spirito”, termini che “fanno tremar le vene ai polsi” rimandando a “dialoghi sui massimi sistemi” dell’estetica antica e moderna? Per citare un esempio, Panofski dedicò un libro al solo concetto di “Idea” partendo da Platone e Aristotele. Come si penserà di affrontare esaurientemente questo argomento così impegnativo? Ecco pronta la risposta: pescando qua e là tra i soliti noti e istruendo una sorta di lacunoso Bignami del ‘900. Ma quel titolo scopre in verità la vera di un pozzo senza fondo. Come un enorme buco nero attirerebbe inesorabilmente verso di sé tutti gli artisti del secolo scorso. E chi potrà mai dimostrare che uno solo di essi non si sia confrontato mai su almeno uno di quei temi (se non con tutti)? La scelta di un pugno d’artisti come esempio, la scontata incapacità di ogni evento espositivo di essere esaustivo rispetto al proprio tema, non possono e non debbono mai essere gli alibi per mostre che abbiano l’intento di blandire il pubblico con l’illusione creata da un programma roboante e dal richiamo di nomi sacri dell’arte, non quando questi nascondano un approccio fin troppo generalista. Trattando l’arte “per sommi capi” si rischia fortemente di cadere nell’inconsistenza, nella superficialità e, in questo caso con Politi, nell’inattualità.
Una mostra che si annuncia, nella presentazione, come una lettura inedita dell’arte del ‘900 finisce per confermare in ogni angolo scontate interpretazioni manualistiche: dalla drammaticità di Munch, allo “spazio interiore” di Morandi (e dove altro si collocherebbero gli oggetti di Morandi?), alla prospettiva irrazionale della metafisica De Chirichiana (!), e via dicendo, fino all’angoscia di Gilbert e George. Da una mostra di illustrazione (piuttosto una collezione, diremo) si è tentato di cavare una lettura inedita dell’arte del secolo scorso: vada per l’intento didattico ma non si faccia credere allo spettatore di visitare qualcosa di più che una selezione di grandi artisti. E da ultimo: è veramente possibile riconoscere un’identità all’Europa del ‘900?
Meglio allora la coeva mostra del Santuario di Oropa a Biella (“La spiritualità nell’arte. Da Boccioni a Serrano”) che tenta (più o meno con successo) un’indagine sull’identità cristiana. Meglio l’odierna esposizione veronese dedicata a Malevic e al suo rapporto con le icone russe. Entrambe dimostrano, almeno, il retaggio della spiritualità cristiana nell’arte del novecento.
Alfredo Sigolo
[exibart]