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La coscienza di William Intervista a William Kentridge
torino
Se la storia del Sudafrica incontra quella di un artista bianco di Johannesburg, può capitare che l’apartheid trovi un testimone capace di unire il cinema e il teatro in un disegno inquieto e tragico. Dai tratti graffianti e dalle metamorfosi continue. Al Castello di Rivoli, la prima retrospettiva europea del pittore William Kentridge. Exibart l’ha intervistato…
Dopo gli studi universitari di storia e politica, William Kentridge (1955) si dedica al teatro, al cinema e alla pubblicità, che sintetizza in una originale tecnica di animazione del disegno a carboncino. Le molteplici riscritture sullo stesso fotogramma mostrano la sedimentazione del lavoro d’artista ma soprattutto la sedimentazione, il lavorio, della sua memoria. I suoi film sono uno sguardo profondo e sofferto sulla condizione di un paese ma anche sul proprio ruolo di testimone impotente e privilegiato. Goya, Hogart e Grosz i principali riferimenti.
Perché l’animazione?
Quando ho iniziato era uno strumento per registrare le varie fasi di fattura del disegno. Solo dopo mi sono reso conto che mi permetteva di visualizzare lo stratificarsi degli eventi, il che mi sembrava una descrizione del modo in cui funziona la mente. Quando disegno non so bene dove mi porterà quello che faccio. Non uso storyboard, il principio è che nulla è fissato a priori. E’ come pensare, o forse qualcosa di ancora più complesso.
Anche l’uso dell’autoritratto per il volto di Felix Teitlebaum, il poeta nudo dei suoi film, è casuale?
Ho iniziato con l’autoritratto perché era più facile. L’animazione richiede tempo e un modello non può stare sei mesi in studio per concludere un film. Così ho iniziato a lavorare allo specchio. Stranamente, una volta fatto, l’autoritratto mi ha fatto sentire in dovere di assumere la responsabilità delle sue azioni.
Perché ha dedicato un’opera a un personaggio come Italo Svevo, così apparentemente distante dalle questioni sudafricane?
Quando ho letto il suo libro avevo 18 anni e mi sono chiesto: ma come fa questo uomo che scrive a Trieste nel 1920 a sapere come ci si sente a Johannesburg cinquant’anni dopo? Mi riconoscevo nella sue continue promesse disattese e nelle sue inutili idee sul mondo.
Le sue opere ritraggono il mondo in bianco e nero…
Agli inizi dipinsi, ma facevo cose terribili. Quando pensavo ai colori mi confondevo. Inoltre Johannesburg è una città sbiancata, il suo paesaggio è piatto, brullo, senza i colori della vegetazione….
Molti suoi lavori usano i quotidiani come elemento iconico o come supporto…
Le mie opere grafiche e i collage su libri e giornali riflettono sul modo in cui ci rapportiamo in generale con i testi scritti e come funziona la nostra conoscenza, che non avviene in maniera univoca e assoluta. La lettura è una proiezione stratificata, dove ogni testo poggia sopra le tracce di un altro testo.
Da Johannesburg che rapporti ha mantenuto con l’arte occidentale?
Alla fine dei miei studi, l’arte occidentale sembrava offrire solo modelli astratti e minimali. La situazione sudafricana non poteva assimilare questi linguaggi. Anche l’arte povera e Beuys visti da là, con tutti i nostri problemi politici, risultavano astratti. Scelsi quindi Goya e gli espressionisti per la loro forza critica.
Quale rapporto ha con il disegno italiano?
Tutto il disegno italiano, dal Rinascimento in poi, mi ha influenzato. Giorgio Morandi è stato un pensiero cosciente mentre disegnavo per Medicine Cest.
Cosa pensa della relazione tra etica, estetica e mercato?
Vorrei mostrare l’etica attraverso l’estetica. Il mercato c’è sempre stato, mi auguro soltanto che l’arte resti qualcosa di non completamente spiegabile. Credo che quando un’immagine ti parla diviene più forte di qualsiasi logica commerciale.
Come sta l’arte contemporanea africana?
Non la conosco molto, ma credo che uno degli elementi più interessanti sia il suo sforzo di sopravvivere.
Il rapporto con la sofferenza caratterizza la sua arte…
Gran parte di quanto succede nel mondo ci chiede di dargli un senso, specie la sofferenza umana. L’arte è un tentativo. Le mie opere accolgono l’esperienza quotidiana, la vita e gli oggetti domestici, la sensualità e le notizie drammatiche. Per me l’opera è più una domanda che una consolazione.
Con i film dedicati a Melies si torna agli esordi del cinema. Perché ha scelto di far rivivere quegli antichi effetti speciali?
La nostra epoca è caratterizzata dall’elettronica uno strumento invisibile. Le fonti delle mie immagini sono invece molto visibili. Voglio rendere visibile qualcosa che non è visibile. Georges Meliés manteneva visibile quello che oggi è ormai invisibile, come l’animazione in 3d.
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http://www.museums.org.za/sang/exhib/kentridge
nicola angerame
[exibart]