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17
giugno 2009
biennale 2009_eventi collaterali Rebecca Horn Venezia, Fondazione Bevilacqua La Masa
biennale 2009
Incontri improbabili su un tavolo operatorio, paralizzati da un moto perpetuo. Arnesi impossibili. Metamorfosi sensuali. Alla Bevilacqua La Masa, Rebecca Horn mette in scena un repertorio di visioni illusorie. Per parlarci dell'amore...
di Santa Nastro
Il miraggio di un amore cercato, ma non per questo sempre possibile, congelato nella fissità del tempo, attraversa con passo felpato le opere di Rebecca Horn (Michelstadt, 1944; vive a New York e Berlino) esposte presso la Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia.
Il suo sguardo imperturbabile studia – talvolta dal di fuori, a volte con la pancia – le ricerche infinite della vita. La passione, l’equilibrio, la salute sono, infatti, tra gli obiettivi delle creature elementari che abitano la mostra, simulacri delle visioni più intime dell’artista. Sono immagini poetiche, dall’apparenza fragile, ma con l’anima di mercurio, proiettate nella realtà in appuntamenti al buio sul tavolo operatorio che Isidore Ducasse programmava tra ombrelli e macchine da cucire, ma che per Rebecca Horn assumono i contorni di una natura cullata dal flusso continuo del tempo.
Il moto perpetuo che scuote le macchine celibi progettate dall’artista tedesca è complice, ad esempio, di un ménage tra ingranaggi meccanici e piume di pappagallo (Parrot Wings Blue, 2009); un fremito le coglie e le trasforma da oggetti inanimati ad ali pronte a spiccare il volo. Nello stesso tempo, una macchina da scrivere (Amore Continental, 2008) batte con cadenza regolare sulla parete dello spazio espositivo le lettere che compongono la parola “amore”: per osservarne il movimento bisogna alzare lo sguardo, allungare le mani per toccarla, pensarla su un altare che ce la rende raggiungibile, ma comunque lontana.
Ma i sentimenti possono nascondere trabocchetti. Ed ecco che l’eterno agonismo tra uomo e donna si risolve in un amplesso in cui a trionfare è la femminilità, riassunta da una conchiglia iridescente per la quale il coito con un enorme fallo in bronzo è un atto dovuto e inevitabile.
Un punteruolo increspa a intervalli la superficie dell’acqua contenuta in un bacile (Heartshadow for Pessoa – Cinéma Vérité, 2009). È una manovra lieve, ma decisa a turbare lo stato di quiete in cui permane. Il contrasto fra la luce che investe l’oggetto e la penombra trasforma immediatamente questo gesto in pittura, andando a riflettere sulla parete bianca gli effetti dell’interazione.
Densa di forza ma evocativa, la pittura – sia che documenti, con fittizie concessioni al realismo, le ombre dell’eteronimia del poeta Fernando Pessoa, sia che insanguini meteoriti trafitti da coltelli (Broken Landscape, 2008), zigzagando tra un corpo e l’altro – è un raffinatissimo filo d’Arianna che guida lo spettatore tra le sirene messe in scena da Horn.
Non ultima la rivisitazione della performance Feather Fingers (1972), in cui l’artista assume infine su di sé le conseguenze di questi incroci improbabili, guantando la propria mano sinistra di piume e incoraggiandola a uno scambio di effusioni in video con la mano “umana”. Le due metà, fuse insieme in un unico essere, la leggerezza quasi sensuale di un rapporto che non ha nulla di rapace, fa dell’incontro tra l’uomo e il suo doppio uno degli amori possibili, nella sua bizzarria, forse l’unica fata morgana che l’artista non ha escogitato.
Il suo sguardo imperturbabile studia – talvolta dal di fuori, a volte con la pancia – le ricerche infinite della vita. La passione, l’equilibrio, la salute sono, infatti, tra gli obiettivi delle creature elementari che abitano la mostra, simulacri delle visioni più intime dell’artista. Sono immagini poetiche, dall’apparenza fragile, ma con l’anima di mercurio, proiettate nella realtà in appuntamenti al buio sul tavolo operatorio che Isidore Ducasse programmava tra ombrelli e macchine da cucire, ma che per Rebecca Horn assumono i contorni di una natura cullata dal flusso continuo del tempo.
Il moto perpetuo che scuote le macchine celibi progettate dall’artista tedesca è complice, ad esempio, di un ménage tra ingranaggi meccanici e piume di pappagallo (Parrot Wings Blue, 2009); un fremito le coglie e le trasforma da oggetti inanimati ad ali pronte a spiccare il volo. Nello stesso tempo, una macchina da scrivere (Amore Continental, 2008) batte con cadenza regolare sulla parete dello spazio espositivo le lettere che compongono la parola “amore”: per osservarne il movimento bisogna alzare lo sguardo, allungare le mani per toccarla, pensarla su un altare che ce la rende raggiungibile, ma comunque lontana.
Ma i sentimenti possono nascondere trabocchetti. Ed ecco che l’eterno agonismo tra uomo e donna si risolve in un amplesso in cui a trionfare è la femminilità, riassunta da una conchiglia iridescente per la quale il coito con un enorme fallo in bronzo è un atto dovuto e inevitabile.
Un punteruolo increspa a intervalli la superficie dell’acqua contenuta in un bacile (Heartshadow for Pessoa – Cinéma Vérité, 2009). È una manovra lieve, ma decisa a turbare lo stato di quiete in cui permane. Il contrasto fra la luce che investe l’oggetto e la penombra trasforma immediatamente questo gesto in pittura, andando a riflettere sulla parete bianca gli effetti dell’interazione.
Densa di forza ma evocativa, la pittura – sia che documenti, con fittizie concessioni al realismo, le ombre dell’eteronimia del poeta Fernando Pessoa, sia che insanguini meteoriti trafitti da coltelli (Broken Landscape, 2008), zigzagando tra un corpo e l’altro – è un raffinatissimo filo d’Arianna che guida lo spettatore tra le sirene messe in scena da Horn.
Non ultima la rivisitazione della performance Feather Fingers (1972), in cui l’artista assume infine su di sé le conseguenze di questi incroci improbabili, guantando la propria mano sinistra di piume e incoraggiandola a uno scambio di effusioni in video con la mano “umana”. Le due metà, fuse insieme in un unico essere, la leggerezza quasi sensuale di un rapporto che non ha nulla di rapace, fa dell’incontro tra l’uomo e il suo doppio uno degli amori possibili, nella sua bizzarria, forse l’unica fata morgana che l’artista non ha escogitato.
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a cura di Angela Vettese
Fondazione Bevilacqua La Masa – Galleria di Piazza San Marco
Piazza San Marco 71/c – 30124 Venezia
Orario: da mercoledì a domenica ore 10.30-17.30
Ingresso libero
Catalogo Charta
Info: tel. +39 0415237819; info@bevilacqualamasa.it; www.bevilacqualamasa.it
[exibart]