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02
maggio 2018
L’esproprio dell’Archivio Vasari
Politica e opinioni
Da anni un contenzioso fra Ministero e privati arriva a una svolta. Quale futuro (e in che modalità) si prospetta per il tesoro che lasciò il biografo delle "Vite di artisti illustri"?
Senza entrare nei dettagli giuridici, l’esproprio mosso dal MIBACT all’Archivio Vasari rappresenta un’azione probabilmente evitabile, la cui ragione ultima potrebbe essere imputata più ad impostazioni di carattere ideologico che di natura concreta.
In linea di principio, lo strumento dell’esproprio è disciplinato dal Codice dei Beni Culturali e in altre fonti di diritto (anche quando non direttamente applicabili al caso specifico), e ha come ragione primaria della sua esistenza il perseguimento, da parte dello Stato, di un interesse collettivo.
È questo il punto su cui vale la pena riflettere: siamo sicuri che lo Stato (e il MIBACT) riesca ad assicurare alla collettività un servizio migliore di quanto facessero i proprietari dell’Archivio Vasari?
Più in generale, date le mutate condizioni di equilibrio socio-economico, siamo davvero sicuri che il settore pubblico possa garantire in modo più equo ed efficiente il perseguimento di un interesse collettivo?
Cerchiamo di ragionare con ordine: in cosa si manifesta l’interesse pubblico?
La condizione è piuttosto facile quando si tratta di casi di natura infrastrutturale, come ad esempio, il caso di un esproprio di proprietà privata per la costruzione di una strada o di qualsiasi altra infrastruttura che possa giovare la collettività. Anche se in questo caso di certo non mancano visioni discordanti, la linea di principio è palese: lo Stato toglie ad un privato un proprio bene per fare in modo che altre persone ne possano godere.
Lettera di Michelangelo a Giorgio Vasari
Meno evidente è invece la questione su un Archivio, come quello Vasari. Quali sono le concrete modalità attraverso le quali lo Stato può assicurare una migliore fruizione dei beni in esso contenuti?
Uno dei principi basilari è costituito dalla fruizione pubblica, ma questa (oltre ad essere già garantita dai proprietari dell’Archivio) può essere imposta nel momento in cui un bene viene riconosciuto di interesse culturale. Ulteriore elemento di confronto può essere rappresentato dagli standard di conservazione: in questo caso lo Stato può regolamentare gli standard qualitativi di conservazione e il privato può decidere di adeguarsi. Sempre in linea di principio lo Stato può e deve garantire un progetto di valorizzazione del bene culturale, ma anche in questo caso tale azione potrebbe essere richiesta al cittadino privato che è proprietario del bene, il quale ha tutto l’interesse a che il proprio patrimonio (culturale, ma anche economico) possa essere valorizzato.
In linea di principio, dunque, non sembra che la natura di proprietà privata possa davvero collidere con l’interesse collettivo, anzi. I privati che hanno deciso di conservare e di non alienare un patrimonio culturale sono, evidentemente, interessati a che tale patrimonio non subisca danni, e che al contrario possa essere valorizzato. Se così non fosse, se il soggetto privato fosse disinteressato a questo tipo di approccio, avrebbe già alienato tale bene.
La questione riguarda un concetto di giustizia sociale: sottrarre ad un singolo un bene perché ne possano godere più persone è equo. Ma se la condizione di interesse collettivo è già assicurata o è almeno assicurabile, allora l’intervento di esproprio diventa semplicemente una lotta sulla proprietà. Lo Stato usa il proprio potere coercitivo per garantire che un determinato bene sia di proprietà non-privata, punto.
Archivio Giorgio Vasari
A questa privazione (che di fatto genera una perdita sociale netta) va aggiunto il costo aggiuntivo che lo Stato (e in questo caso, sì, inteso come collettività) deve sostenere per adeguare quegli standard che regolano la tutela, la conservazione e la valorizzazione del bene culturale.
Costi aggiuntivi per un Ministero che, è indubbio, non brilla per efficienza. Costi aggiuntivi per la collettività con il rischio che le condizioni in cui tale bene culturale peggiorino, anziché migliorare.
Visto da questa prospettiva, l’esproprio rischia di costituire un mero costo sociale, che non apporta nulla (se non maggiore dispendio di risorse) alla condizione di partenza.
La validità di questo strumento giuridico, in linea generale, è sicuramente ancora attuale, ma ci sono probabilmente altre strade che possono essere percorse.
Si può, ad esempio, ragionare su un modello di proprietà congiunta: una sorta di proprietà privata di interesse collettivo. Un profilo giuridico di questo tipo permetterebbe al privato di continuare ad essere proprietario del proprio bene, purché ne siano soddisfatte delle condizioni essenziali, i cui costi di implementazione sarebbero condivisi tra il privato e il pubblico. In poche parole, il settore pubblico, a fronte del non esproprio sarebbe chiamato a coprire soltanto in parte i costi che invece dovrebbe sostenere se fosse l’unico proprietario del bene, generando una condizione di certo più vantaggiosa rispetto a quanto si prospetta invece mediante l’esproprio.
In questo modo guadagneremmo tutti. È questo che significa interesse collettivo. Perché la deriva non è l’interesse privato ma l’interesse personale. E questo è vero sia nel settore privato che in quello pubblico.
Stefano Monti