13 dicembre 2009

La lista di Bonami. Ecco gli eletti della Whitney Biennial 2010

 

di

Francesco BonamiArtisti che testimoniano le diverse risposte fornite all’ansia e all’ottimismo che hanno caratterizzato i due anni trascorsi”. È questo il commento che Francesco Bonami fa della lista degli artisti invitati alla Whitney Biennial del 2010, di cui è curatore – dal 25 febbraio al 30 maggio prossimi – con il Whitney senior curatorial assistant Gary Carrion-Murayari.
Opere che vanno dal video alla fotografia, pittura, scultura, disegno, installazione, architettura. Per un totale di 55 artisti, in sensibile calo rispetto al 2008 (quando furono 81) e al 2006 (100). Artisti equamente suddivisi fra emergenti o già established, ognuno dei quail esporrà una sola opera.
I nomi? Si va da David Adamo a Richard Aldrich, Michael Asher, Tauba Auerbach, Nina Berman, Huma Bhabha, Josh Brand, The Bruce High Quality Foundation, James Casebere, Edgar Cleijne and Ellen Gallagher, Dawn Clements, George Condo, Sarah Crowner, Verne Dawson, Julia Fish, Roland Flexner, Suzan Frecon, Maureen Gallace, Theaster Gates, Kate Gilmore, Hannah Greely, Jesse Aron Green, Robert Grosvenor, Sharon Hayes, Thomas Houseago, Alex Hubbard, Jessica Jackson Hutchins, Jeffrey Inaba, Martin Kersels, Jim Lutes, Babette Mangolte, Curtis Mann, Ari Marcopoulos, Daniel McDonald, Josephine Meckseper, Rashaad, ewsome, Kelly Nipper, Lorraine O’Grady, R.H. Quaytman, Charles Ray, Emily Roysdon, Aki Sasamoto, Aurel Schmidt, Scott Short, Stephanie Sinclair, Ania Soliman, Storm Tharp, Tam Tran, Kerry Tribe, Piotr Uklanski, Lesley Vance, Marianne Vitale, Erika Vogt, Pae White, Robert Williams.

[exibart]

8 Commenti

  1. Gli artisti sono tanti e dai nomi similari e intercambiabili. Sono colori su una tavolozza in mano ai due “curatori”. “Curatori” in senso sciamanico e propriamente artistico. In questo non c’è nulla di male, ma serve  consapevolezza . La sovraproduzione di opere ed artisti (unita alla saturazione, alla competizione serrata, alla crisi economica) ha portato un fisiologico appiattimento dei contenuti. Il contenitore e le figure che lo gestiscono diventano centrali, “prevaricano” e “curano”. Proprio perchè servono registi e connettori alla ricerca di un senso perduto. Di un significato perduto. I due curatori sono moderni indiana jones del senso. Hanno il compito di rivitalizzare una proposta che altrimenti sarebbe scontata e noiosetta. Devono curare una proposta che si ritrova linguisticamente ingabbiata e limitata. Ben vengano, allora, i grandi ripescaggi dal 1930 accostati a sbarbatelli newyorkesi, ben vengano questi video introduttivi…semplicemente gustosi. Ascoltando e vedendo questo video non si può non avere una sensazione di (anche benevola e ironica) prevaricazione. E allora ecco motivato il senso di Whitehouse. E quindi l’opportunità di giocare realmente con i pezzi. Creare un automa il cui ruolo è assolutamente indefinito tra l’essere artista, curatore, spettatore, osservatore distratto, collezionista, gallerista, critico, blogger eccetera eccetera. Un ruolo più “umano” e più fluido, che, oltre a divergere, possa meglio dialogare con la realtà esasperata e diversificata che c’è dato di vivere. Quello di whitehouse è stato un processo assolutamente “non programmatico” ma istintivo.

    E’ per questo che ci sono stanze vuote e congestionate. Il centro delle opere è altrove. Le opere sono variazioni sul tema, “stimolotti” pretenziosi e curiosi. Questo nel migliore delle ipotesi. Nella peggiore delle ipotesi sono scampoli di ikea evoluta e pretenziosa. La cosa interessante di questa whitney biennial è che i due artisti (Bonami e il giovane) hanno organizzato una grande installazione che inizia con questo brillante video introduttivo. Una grande installazione che interesserà opere dal 1930 fino ad arrivare al 2010. Gli artisti appaiono come ingranaggi  individualmente un po’ superflui.  Se ci pensate bene permangono solo i migliori valori del 1900. Sia del tardo 900 (anni 90) che del 900 in genere. Sia in termini diretti (nomi “storicizzati) che in termini di postproduzione (ripresa e remixaggio di ingredienti del 1900).

  2. … anche la biennale del Whitney letta come giustificazione al proprio blog… ma ti rendi conto di quanto sei egocentrico?

  3. E’ la apoteosi di nomi stranieri. Italiani pochi…eppure di bravi ce ne stanno eccome!
    Come mai?
    Ecco come la c.d. arte ufficiale butta giù i nostri artisti a differenza di altri paesi

  4. Dato che la Biennale di Whitney (come il museo di Whitney) è dedicato espressamente ed esplicitamente all’arte americana non ci dovrebbero essere artisti stranieri. Neanche italiani. Da qualche anno si è presa l’abitudine di invitare anche artisti che vivono in US, per cui a volte capita che ci sia qualche italiano che vive lì.
    Forse tutti i grilli e i pizzaioli dovrebbero anche capire quando è il caso di parlare e quando di tacere.

  5. che palle, è lo stesso linguaggio che si ripete e che sta a giustificare il vuoto nella testa (ma non nel portafoglio) dei curatori, gente inutile che non serve nemmeno a farsi una……..(non quella del falegname)….. sono solo degli artisti falliti che cercano di rifarsi,

  6. la biennale del whitney riguarda solo artisti americani, poi ci possono essere eccezioni per artisti “legati” agli USA per vari motivi. Ma non è questo il punto. Il dato rilevante è che questo evento è l’ennesimo sintomo di una situazione. E quindi un esercito di artisti tendenzialmente similari, e rifugiati in un linguaggio stereotipato. Questo porta verso una sorta di artigianato dell’arte contemporanea che bascula tra postproduzione (mix di cose già viste) e recupero di valori del 1900. Per rendere questo esercito interessante servono sepre di più dei “curatori” che agendo , a loro volta, in termini di postproduzione, cercano di imbastire una proposta interessante. Questa tendenza va assecondata ed estremizzata. Quindi non solo curatori che si confondono come artisti o autori ,ma curatori che diventano tutto contemporaneamente (osservatori, critici,artisti,galleristi, spettatori, ecc ecc). Ed ecco motivato whitehouse.

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