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Bill Beckley torna in Italia, a Bologna, per raccontarci del suo rapporto esclusivo con Umberto Eco. Succederà venerdì, 16 febbraio, all’Accademia di Belle Arti che ospiterà il semiologo e artista visivo americano nella sua Aula Magna a partire dalle 17. Un appuntamento imperdibile, una lectio magistralis che precede l’inaugurazione della sua personale alla Galleria Studio G7, “The Name of Rose” – rimanendo in connessione con il pensiero di Eco – prevista il giorno successivo.
Quello di Beckley è un ritorno nella città emiliana, a quarant’anni esatti dalla sua prima personale e quasi trenta dalla sua ultima, oggi come allora organizzata su invito di Ginevra Grigolo. Nato nel 1946 ad Hamburg, in Pennsylvania, Beckley si avvicinò fin dai suoi esordi alla fotografia, tant’è che oggi potremmo definirlo quasi come un pioniere dell’utilizzo di questo mezzo nelle arti visive, nella loro accezione più contemporanea. Fondatore della Narrative Art, l’interesse per la semiotica arrivò grazie all’incontro con Italo Scagna, già maestro di Bruce Nauman alla Tyler School of Art della Temple University, e con altri personaggi influenti come Sol LeWitt e Marcia Tucker, futura curatrice del Whitney Museum of Art, che lo introdussero alla lettura di Roland Barthes e di altri semiologi europei, tra cui proprio Umberto Eco. L’interesse per il segno è stato da subito funzionale alla sua pratica di fotografo, in cui immagine e testo, pur svincolati tra loro, svolgono una funzione complementare nel coinvolgere lo spettatore nell’opera. Tralasciata la scrittura, a partire dagli anni Ottanta, le sue immagini si autodeterminano come rapporti tra segni, icone e rimandi ipertestuali sulle orme del pensiero di Ferdinand de Saussure e Charles Sanders Pierce.
Oggi, Beckley è un punto imprescindibile per il pensiero critico e l’arte statunitense, riferimento e maestro per artisti più giovani come, per esempio, Keith Haring, che Beckley ricorda come un «tizio magro con le sopracciglia a mezzaluna» che seguiva le sue lezioni e che «non ha mai smesso di guardarmi con aria costantemente stupefatta».
E a proposito del suo rapporto con la semiotica e del prossimo evento a Bologna, Beckley ha dichiarato: «la semiotica continua a esistere nell’estetica postmoderna. I politici – che tu li ami o li odi (il che è semplice in entrambi i casi) – sono semiologi. Così i dottori (i sintomi, infatti, sono segni). Anche gli attori e i musicisti lo sono, e così gli artisti. Nonostante ciò, per essere un buon o ancor meglio un grande artista come fu Keith Haring senza alcun dubbio, non bisogna aver letto Wittgenstein o Barthes, o Saussure o Eco. Bisogna invece studiare, in un modo o in un altro. E poi forse avrai fortuna, e potrai andare a Bologna come ho fatto io. A meno che, ovviamente, tu non sia già lì». Consigli preziosi. (Leonardo Regano)
In alto: Bill Beckley, War of the Roses 1, 2017