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Sembra un luogo comune ma è un dato di fatto: le grandi opere sono quelle capaci di trascendere il tempo e la storia e mantenere la loro forza in epoche e contesti differenti da quelli che le hanno generate. Il 9 e l’11 novembre, al Teatro Verdi di Pisa, va in scena un’opera che appartiene di diritto a questa categoria: il Mosè in Egitto di Gioacchino Rossini. La nuova produzione, nell’ambito delle celebrazioni per il 150mo anniversario della morte del compositore, è stata affidata al regista Lorenzo Maria Mucci che per le scenografie ha voluto l’artista cubano Josè Yaque, insieme alla scenografa e costumista Valentina Bressan. Yaque e Bressan hanno lavorato sugli scarti industriali forniti da Officina SCART di Waste Recycling, la società toscana del Gruppo Herambiente specializzata nel trattamento e riciclo dei rifiuti industriali. Abbiamo parlato con Mucci della scelta di invitare un artista a confrontarsi per la prima volta con la scenografia partendo da uno dei grandi classici dell’opera lirica.
Come è nata l’idea di invitare Josè Yaque a realizzare queste scenografie?
«Nella drammaturgia del Mosè in Egitto di Rossini entrano in gioco argomenti che, da un certo punto di vista, hanno una componente politica molto forte, perché riguardano le migrazioni, la schiavitù, il potere di un popolo sopra a un altro e così via. Tutto ciò emerge soprattutto nella coralità, posta molto in evidenza da Rossini: il coro lirico è quasi il motore delle azioni e, a seconda delle scene, rappresenta il popolo egiziano che spinge all’azione il faraone o il popolo ebreo che crede fermamente nella propria guida. Mentre da un punto di vista registico stavo affrontando questa drammaturgia, nella mia mente si è verificata una specie di cortocircuito e tutto ciò si è sposato con una parte della poetica di Josè Yaque, artista che non conoscevo personalmente, ma di cui avevo visto una mostra e avevo approfondito la poetica attraverso cataloghi e alcuni lavori alla Galleria Continua di San Gimignano. La parte della sua ricerca che in quel momento mi interessava era quella relativa al flusso della storia: disegni e installazioni in cui ci sono segni grafici o materiali portati da un flusso e incagliati in strutture architettoniche o naturali, come alberi, o addirittura incagliati in uomini che cercano di andare in senso contrario alla corrente. Qui c’è un’idea dell’individuo interamente inserito nel flusso della storia e che, pur provandoci, non riesce né a contrastare né a controllare ciò che accade, se non momentaneamente. A volte questo flusso si modifica a causa di eventi, altre volte, invece, travolge totalmente gli individui: mi è sembrata una bellissima metafora da trasformare in un’immagine per lo spazio scenico dell’opera su cui stavo lavorando».
Come avete traslato la pratica installativa dell’artista in ambito scenografico?
«La straordinaria sensibilità di Yaque per l’elemento installativo è stato utilissima, perché una scenografia, per certi aspetti, è un’installazione che si muove, che prende vita, che viene abitata da persone, musica, luci, colori e costumi. Fin dal mio invito Yaque ha sottolineato di non aver mai lavorato per il teatro, così abbiamo invitato a collaborare Valentina Bressan, scenografa e costumista di professione, che con la sua esperienza ha fatto in modo che la visione di Yaque potesse essere amalgamata con le necessità tecniche della macchina scenica, come, ad esempio, gli strettissimi tempi dei cambi di scena».
Che rapporto c’è tra la scelta di affidare le scenografie a un artista contemporaneo e la volontà di attualizzare un’opera di inizio Ottocento?
«La questione dell’attualizzazione dell’opera e della drammaturgia musicale è un problema che un regista affronta costantemente quando lavora e che impone delle scelte. La mia scelta ha mantenuto un’impostazione abbastanza “classica”: in Rossini e nella sua musica c’è un’idea politica così forte che ho preferito non sovraccaricarla con altri segni. Un fortissimo legame con la contemporaneità è già insita nel segno di Yaque, che porta in scena degli elementi architettonici molto precisi che includono scarti industriali e un’idea di riciclo, che va oltre il lavoro legato all’opera. C’è poi l’interessante scontro/incontro tra lo stile contemporaneo della scenografia e quello più classico dei costumi, che pur rivisti stilisticamente, si muovono in una direzione rivolta alla filologia. La vera attualizzazione, tuttavia, risiede nel rendere visibile la parte politica della drammaturgia musicale del Mosè in Egitto». (Silvia Conta)