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05
febbraio 2008
fiere_resoconti Arte Fiera – Art First 3
fiere e mercato
Dunque Artefiera, la più vecchia d’Italia con le sue trentadue edizioni. Inossidabile, un po’ mamma e un po’ mammona. Con disinvoltura la Bononia Felix si tiene stretta la maggiore kermesse d’arte del nostro Paese. Che basta a se stessa e lascia agli altri vivere le ansie del momento...
Rispetto ai megashow internazionali si orienta, ma non rincorre la rivoluzione. Avrebbe potuto puntare facilmente sull’intero piatto del moderno e invece persegue l’anacronistica formula generalista pur concedendosi al contemporaneo modaiolo. A quest’ultimo ha dato spazio, senza però sposarlo mai completamente: non s’è inchinata alla logica dei big stranieri a ogni costo né a quella del brodo globale. S’è c’è un pregio di Bologna, sta forse nell’esser riuscita a chiamarsi fuori dalla mischia.
Il nostro non è il tempo del boom dell’arte, come si crede, ma del suo mercato. E se si produce tanta arte quanta non se n’è mai fatta, la ragione, il motore stanno nell’economia, non nel genio o nell’ispirazione che, quando ci sono, si piegano a servizio della quantità più della qualità, della logistica più della logica, dell’imminente contro l’immanente, del transeunte contro il trascendente. Precarietà, manierismo e formalismo si fanno sostanza e il fac-simile è l’orizzonte simbolico. Si dice che il discorso critico sull’opera è assente, in realtà è il merito del dibattito che si è spostato fuori dall’opera. Il concetto è il sistema. E arte si fa per il contenitore non per il contenuto.
La mostra inaugurale del New Museum di New York (Unmonumental) ha messo in scena la frammentarietà dell’arte al cospetto della caduta dei simboli e delle icone, definendo un’inedita dimensione antieroica dell’arte. Un antieroismo che appare risposta critica dell’arte alla sua democratizzazione e massificazione, che dichiara il fallimento del sogno globalizzante e di un processo che ha reso l’arte pervasiva ma anemica, prolifera ma orfana di sé.
L’edizione 2008 di Art First si può sintetizzare così: spiccata connotazione nazionale (209 gallerie, solo il 29% straniere, di cui più della metà dall’Europa continentale e solo 11 extraeuropee), deciso orientamento verso un target di collezionismo medio. Negli ultimi anni Bologna, per alterne vicende, ha via via perso nomi come Annina Nosei, Max Wigram, Podnar, Max Protech, Karsten Greeve, Ernst Hilger, Lisson, The Breeder, Contemporary Fine Arts e gli italiani Soffiantino e Mazzoli. Sono arrivati buoni emergenti, specie italiani, è vero ed è un segno di vitalità. Ma il risultato è che, almeno stando agli umori degli interessati, le vendite ne hanno risentito. E i più penalizzati sono stati proprio i big, mentre meglio sono andate complessivamente le gallerie che rappresentavano artisti dai prezzi più abbordabili.
IL CONTEMPORANEO: PADIGLIONE 22
Si parte con Enrico Fornello che ospita una tappa del Progettosettanta di Elena Re che, con coraggio, s’è messa in testa di riscrivere la storia della sperimentazione italiana con la fotografia degli anni ’70. Anselmo, Ciam, Costa, Cresci, Desiato, Ghirri, Zaza & co. non ci mettono molto a mostrare il loro fondamentale contributo e, quanto a freschezza, si bevono larga parte delle nuove generazioni.
Lectio magistralis: i recenti lightbox di Marzia Migliora presentati da Lia Rumma sembrano un tributo a Boetti. Là le frasi erano sugli arazzi, qui si compongono su asettiche tavole ottotipiche. Da segnalare per la galleria anche i nuovi lavori di Tessa Manon den Uyl e i due grandi arazzi di Kentridge all’esterno.
Per la serie “a volte ritornano” ci sono artisti che rimangono sotto traccia e che quando li rivedi ti chiedi cosa gli manchi per fare il fatidico salto di qualità. Da Peola i paesaggi di Paola De Pietri non sfigurano a fianco di Crewdson o Louise Lawler, che continua nel suo progetto di rifotografare le opere contemporanee nei magazzini o nelle casse. Sulla stessa linea d’onda, da Vistamare Claudio Abate ritraeva Mario Merz e Pino Pascali con le loro creazioni nell’ultimo scorcio dei ’60. E alla Galleria 42 la giovane promessa milanese Luca Pozzi (1983) fa il parcour nei musei saltando negli antichi teleri.
Marella dopo il business cinese ci riprova con gli indiani. Intendiamoci, l’occhio è sempre buono e l’intraprendenza notevole. Tra i cinesi ci sono i camouflage di Bai Yiluo e il fotografatissimo passeggino d’assalto di Shi Jingsong. Tra gli indiani Baba Anand crea incrostazioni pop su manifesti vintage di tema religioso o cinematografico. Piace vedere tutto questo esotismo a confronto della ricerca popolare tutta italica di Luca Francesconi, alle prese con il nuovo progetto editoriale “Brown”, in combutta con Presicce e Gonzato.
Augurandogli di non fermarsi sul più bello, i lavori di Andrea Facco visti alla galleria Biagiotti sono i migliori di sempre. Prima era solo una buona pittura che si confrontava con i media, ora la riflessione s’è fatta più colta, rivolgendosi alla comunicazione dell’arte. Non originalissima la riproduzione dei manifesti delle mostre visti sui treni ma concettualmente è un ottimo punto di partenza. Dentro lo stand anche buone chine di Toffolini, fuori l’installazione di Ericailcane, decisamente ridondante.
La Scuola di Lipsia non cessa di alimentare il mercato. I “Treppen” di Petra Ottkowski visti da Binz & Kraemer sono piccoli acrilici geometrici di sapore passatista ma di squisita raffinatezza.
Ci sono Bianco – Valente, Alterazioni Video e nuovi Thorsten Kirchhoff per VM21, Lucy + Jorge Orta e molti buoni lavori della Mezzaqui da Continua. Alison Jacques dà spazio all’eclettismo di un maestro dell’avanguardia brasiliana, Hélio Oiticica, scomparso nel 1980 e celebrato l’estate scorsa alla Tate.
En passant, un cenno di lode va ad Analix per essere riuscita, una volta tanto, a non sbagliare l’allestimento dello stand. Ed ora, largo ai giovani.
PADIGLIONE 22: SEZIONE GIOVANI GALLERIE
Buona la selezione delle 26 gallerie aperte negli ultimi 5 anni. Gli spunti di interesse e di riflessione non mancano. In larga parte è loro la colpa se il 22 è stato definito il Padiglione più interessante.
Si comincia dalle vecchie scarpe tirate a lucido del tedesco Nasan Tur e dell’installazione DecodedLove del coreano Shin Il Kim, che nasconde l’immagine televisiva lasciandole l’aura e il suono. Tra le nuove leve convincono le proposte della milanese Riccardo Crespi, peccato che l’allestimento comprometta un po’ il tutto.
Il troppo stroppia: quella di Magda Danysz è uno degli spazi parigini più vivaci e attivi, ma la scelta di puntare sul pop d ogni costo rischia di ritorcersi contro. Mike Giant sarà pure un artista interessante, ma di tatoo artist c’è già in giro Dr. Lakra. E tra i due non c’è partita.
Da Carasi la star è Michael Bevilacqua, eppure le sculturine in resina di Carl D’Alvia non soffrono del cono d’ombra. Un pop elegante e ottuso che si disfa in una concrezione colorata.
Il contesto bolognese nazionalpopolare sconsiglierebbe le estremizzazioni minimaliste, ma T293 se ne infischia e si conferma ai suoi livelli. Lo stand tiene bene grazie alle bandiere del collettivo Claire Fontaine (biennali di Istanbul, Lione, Tate e New Museum). E le sculture con oggetti di recupero del messicano Martin Soto Climent sono quantomeno interessanti.
Agli amanti della pittura figurativa non dev’essere sfuggita la mano disinvolta del romeno Radu Comsa, da Citric, mentre tra le emergenti romane ha buon occhio per la fotografia Extraspazio: l’accoppiata sudafricana Pieter Hugo e Guy Tillim mette in piedi un affresco delle contraddizioni del continente africano del nostro tempo.
Low tech: riflessi, sovrapposizioni e una costante aria vintage. I paesaggi fotografici di Nicu Ilfoveanu, dalla romena Posibila, ammiccano al tipico immaginario dell’est europa post socialista. Ma nei dettagli si scoprono vere raffinatezze che creano un contrasto molto interessante.
Sull’impermeabile piazza milanese la giovane galleria Luger si sta giocando carte importanti. Non brilla nell’allestimento degli stand ma è forse l’emergente meneghina più intraprendente. La scuderia cresce, tra artisti di livello internazionale (Diango Hernandez, alla vigilia della personale in galleria), artisti creati da zero e dalle ottime prospettive (Igor Eskinja), mid career di grande spessore dagli ampi margini (MP & Rosado, Louis Molina Pantin). Luger piace soprattutto per la capacità di lavorare trasversalmente tra mercato e pubbliche istituzioni.
Fabio Tiboni, costola della riminese Fabjbasaglia, è la prima galleria ad aprire nel distretto bolognese in Zona Mambo. E non sbaglia l’uscita in fiera. Sono buoni sia i collage di Neil Gall che i dipinti geometrici di Jost Munster. E Sergio Breviario ha in De Dominicis il miglior riferimento. Aspettando le prossime mosse, c’è da dire che a Bologna qualcosa si muove, anche per colpa di Agenzia 04 (da segnalare l’ingresso di Stefano Calligaro e Riccardo Baruzzi).
Galica conferma il genio di Alicia Martin con una nuova installazione di libri a terra. A essa si aggiunge il classicismo fotografico di Brigitte Niedermair. Sul resto meglio stendere il classico velo pietoso.
Inaccessibile è lo stand di Monitor, che riprende la performance londinese di Hudson, Sculpture Wars. L’idea è buona e temeraria ma pone alcuni interrogativi: l’idea di connotare la ricerca in modo decisamente identitario è certamente opportuna, ma farlo troppo può essere un boomerang: la qualità delle opere è alta ma gli artisti (Velonis, Hudson, Ochardson, Avikainen, Vascellari) si rassomigliano in modo disarmante e finiscono per inscenare una sorta di brick a brack. Così alla fine a emergere è la figura che non ti aspetti: gli oggetti di lavoro da cui s’emana la divina grazia di un raggio metallico mutuato dall’iconografia religiosa e popolare sono di una bellezza cristallina. E il merito è tutto di Francesco Arena.
IL CONTEMPORANEO: PADIGLIONE 21
Segnalazione d’obbligo per il Concerto invisibile di Gino De Dominicis di Cardelli e Fontana, grande installazione di Vettor Pisani. Allo stand di Pack va un tributo per aver saputo dosare le temperature in un mix azzeccato.
Da Cannaviello sono esposti i recenti lavori di Karin Andersen, l’accoppiata Arruzzo e Presicce da Colombo, da S.A.L.E.S. le ataviche tavole nere dell’iraniana Avish Khebrehzadeh, in mostra al Macro, e un bello scatto di Tillmans che sintetizza il senso effimero del nuovo turismo culturale.
Alta tensione si respira per tutto lo stand Raffaella Cortese, grazie soprattutto ai paesaggi fotografici di Zoe Leonard, alla grande scultura e ai disegni di Kiki Smith: le sue pantegane hanno un qualcosa di mistico e ancestrale. Serviva decisamente uno spazio più ampio per fare respirare tanti lavori di qualità.
Alle radici dell’Impressionismo si rivolge il virtuosismo dell’artista di origine giapponese Hirouki Masuyama. Studio la Città l’aveva mostrato spesso ma nei nuovi lavori il gioco delle sovrapposizioni con la fotografia sorprende, ottenendo effetti di suggestione tipici del paesaggismo di Turner.
Decisamente più astratto è il lavoro della fotografa romana Beatrice Pediconi (Bonomo e Photo & Contemporary), che da qualche tempo ha accantonato la fotografia d’architettura per indagare le volute dell’inchiostro nero immerso in un liquido. Il risultato è convincente.
Difficile per il collezionista occidentale addentrarsi nel labirinto dei nomi, per lo più misconosciuti, dei nuovi scenari globali. Diventa così determinante studiare il contesto in cui gli artisti si collocano. I dipinti di Jitish Kallat presentati da Bodhi Art di Mumbai sono un giusto mix tra arte popolare e monumentale, tra vissuto privato e comunicazione globale, tra narrazione e rappresentazione. Se poi si scopre che il nostro ha avuto la certificazione d.o.c. nel Triumph of Painting di Saatchi il cerchio si chiude.
Si scorrono lo stand di Lelong che ospita Kiki Smith e le tecniche miste di Rebecca Horn, quello di Artiaco per i lavori di Penone, si rivede l’affascinante disegno di Juul Kraijer da De Cardenas e l’ispirato ciclo delle utopie di Sergio Vega di Di Marino; infine si giunge alla bolognese Marabini, dove si compie la terza tappa del minitour riservato a Candida Höfer. Dopo la Pescheria di Pesaro e la personale in galleria, le classiche biblioteche cominciano persino ad annoiare.
Con il traino della grande retrospettiva al Mambo, Luigi Ontani non poteva certo mancare in fiera. Lo si poteva trovare da De Foscherari, Gian Ferrari, Ariete, Raffaelli e Lorcan O’Neil. Quest’ultima gli affiancava i nevrotici disegni di Tracey Emin visti in Biennale al Padiglione britannico.
La poca attitudine della galleria De Carlo nell’allestimento degli stand è quasi un classico. Stavolta non fa eccezione. Cala gli assi, grandi opere di Pivi, Armleder, Stingel e Airò, e intasa uno spazio troppo piccolo e tortuoso.
Da Friedrich Petzel si inscena una vera retrospettiva per Philippe Parreno, film di Zidane compreso. Ma la chicca sono le silhouette ritagliate nel tek di Seth Price, recentemente all’inaugurazione del New Museum e nominato per la prossima Biennale del Whitney.
Complessivamente un buono stand per Minini, nel quale spiccano i contesi disegni di Nedko Solakov della serie Beautiful relations, mentre Jablonka mostra i recenti lavori di Francesco Clemente e Bonelli si tiene compatto sui suoi classici Di Piazza e Verlato, si gode la crescita dei giovani Vinci e Bergamasco. Ma l’iniezione di novità dalla nuova sede losangelena si fa attendere.
IL MODERNO: PADIGLIONE 18
Interessante il giovane tedesco Philp Wiegard pescato da Image Furini. I suoi Falten, materiali e oggetti piegati, sono certamente da tenere d’occhio. Da segnalare qui i progressi della carriera di Andrea Bianconi, ormai stabilmente impegnato sul fronte americano, tra Houston (Barbara Davis) e New York (Pierogi).
Stand istituzionale senza clamori da Sperone. Ma non passano inosservati un piccolo olio su tavola del ’42 di Francis Picabia (Portrait de Susanne) e la mano tatuata in marmo di Fabio Viale, sottovalutato giovane scultore nostrano. È vero che a tratti ha sbagliato mira tentando di assecondare il gusto per l’antinomia tra forma e contenuto senza esserne capace, leggi la serie degli aeroplanini o la barca della Biennale. Ma quando è stato nel suo classicismo non ha mai sbagliato, come quando riproduceva pneumatici e putrelle o quando fintamente vandalizzava la Pietà e il David. Ora che s’e accasato da un big straniero potrà mostrare il suo valore pensando solo a se stesso.
Per un giovane che promette ecco un big che si reinventa. Stephan Balkenhol tradisce la scultura a tutto tondo, da Ropac, per il rilievo del lavoro appeso. I suoi paesaggi non perdono di intensità.
Erica Fiorentini riunisce il gruppo dell’Arte Povera con Uncini, Paolini e Zorio, di cui espone una bella Linea di confine in cuoio del ’70. Un altare domestico con frigorifero di Calzolari campeggia invece allo stand de Il Ponte.A guardar bene, tra le opportunità offerte da Bologna c’è quella di riscoprire la vivacità e la complessità del periodo a cavallo tra Ottocento e primo Novecento, spesso relegato nelle fiere d’antiquariato. Antologia di Monza espone un fiabesco Studio per l’estate e un castello incantato di Leonardo Dudreville del 1908. Ma soprattutto, di Anselmo Bucci, l’opera Odeon (1919-20), un affresco storico della Parigi dell’epoca, con gli artisti amici, più in voga del momento, ritratti a teatro.
Hachmeister concede i disegni e i grattage di Le Corbousier dal ’22 al ’57 e nell’atmosfera da salottino commerciale della veneziana Contini si scova un Nu assis di Tamara de Lampicka del ’23.
Sono imponenti i rilievi per l’Arengario di Milano di Marino Marini montati da Studio Guastalla e soffrono invece la location storica i neopop Luo Brothers della cinese Xin Dong Cheng. Alcuni big come Ben Brown si sforzano poco limitandosi a piazzare dei classici contemporanei, Ruff, Muniz, Höfer, oppure ammiccando al pubblico italiano, magari con le viste dei saloni dei palazzi veneziani di Matthias Schaller. Della personale di Jan Fabre di Arte e Arte, infine, sono intriganti soprattutto le sanguigne e tecniche miste.
IL MODERNO: PADIGLIONE 16
Compaiono i rari lavori di Mark Tobey degli anni ’50 da Torbandena (anche da Hacmeister) mentre L’Elefante rende omaggio a Bruno Munari, a cento anni dalla nascita e a dieci dalla morte. Articolato lo stand Rizziero: piccoli lavori di Francis Alys e poi tanti classici della fotografia, da Giacomelli a Ghirri.
A proposito di chicche, si trovano un bel ritratto di Campigli del ’38 da Frediano Farsetti e un curioso inchiostro rosso su conciglia del ’67 di Alexander Calder dalla parigina Di Meo.
Wunderkammern di disegni del Novecento da Gianferrari: belli non quanto i siparietti della gallerista, in baruffa costante con i collezionisti armati di fotocamere tascabili.
A quelli che dicono che in fiera si trovano solo fondi di magazzino sarebbe bastato vedere il lavoro di Richter del ’71 di Stefan Roepke per cambiare idea. Invece le fiere possono riservare anche sorprese, come Galileo Chini (1873-1956), protagonista del Liberty in Italia, o Duilio Cambellotti (1876-1960), tra i maggiori interpreti dell’art nouveau. Il primo è qui rappresentato con un enorme lavoro dal titolo Bolscevismo dall’Archivio Cirulli (un punto di riferimento per le opere d’arte pubblicitaria e della propaganda del Novecento con doppia sede a Bologna e New York), mentre il secondo lo mostrano F. Russo e Galleria dell’Incisione. Che gli affianca anche lavori di qualità di Grosz, Carol Rama, e gli attualissimi collage su incisioni xilografiche di Franz Roh (1890-1965).
James Cohan è uno dei pochi big stranieri a presentarsi sempre con lavori realmente impegnativi: è vero che molto spazio è dato a Manfredi Beninati ma c’è anche il lavoro biennalesco di Bill Viola a San Gallo, una chicca di Acconci del ’71 (Seconda mano) e uno dei migliori scatti Sugimoto.
Campeggia un piedone nero di 4×2 metri di Cucchi da Curti, La Scaletta punta sul disegno italiano moderno e contemporaneo, Emmeotto ha una buona selezione di Ceroli, sicuro protagonista del mercato a venire, e Tucci Russo associa i nostri giovani Gennari e Caravaggio alle star internazionali Tony Cragg e Robin Rhode. Per finire, Giò Marconi: stavolta sceglie Emilio Tadini per la sua classica retrospettiva storica.
Il nostro non è il tempo del boom dell’arte, come si crede, ma del suo mercato. E se si produce tanta arte quanta non se n’è mai fatta, la ragione, il motore stanno nell’economia, non nel genio o nell’ispirazione che, quando ci sono, si piegano a servizio della quantità più della qualità, della logistica più della logica, dell’imminente contro l’immanente, del transeunte contro il trascendente. Precarietà, manierismo e formalismo si fanno sostanza e il fac-simile è l’orizzonte simbolico. Si dice che il discorso critico sull’opera è assente, in realtà è il merito del dibattito che si è spostato fuori dall’opera. Il concetto è il sistema. E arte si fa per il contenitore non per il contenuto.
La mostra inaugurale del New Museum di New York (Unmonumental) ha messo in scena la frammentarietà dell’arte al cospetto della caduta dei simboli e delle icone, definendo un’inedita dimensione antieroica dell’arte. Un antieroismo che appare risposta critica dell’arte alla sua democratizzazione e massificazione, che dichiara il fallimento del sogno globalizzante e di un processo che ha reso l’arte pervasiva ma anemica, prolifera ma orfana di sé.
L’edizione 2008 di Art First si può sintetizzare così: spiccata connotazione nazionale (209 gallerie, solo il 29% straniere, di cui più della metà dall’Europa continentale e solo 11 extraeuropee), deciso orientamento verso un target di collezionismo medio. Negli ultimi anni Bologna, per alterne vicende, ha via via perso nomi come Annina Nosei, Max Wigram, Podnar, Max Protech, Karsten Greeve, Ernst Hilger, Lisson, The Breeder, Contemporary Fine Arts e gli italiani Soffiantino e Mazzoli. Sono arrivati buoni emergenti, specie italiani, è vero ed è un segno di vitalità. Ma il risultato è che, almeno stando agli umori degli interessati, le vendite ne hanno risentito. E i più penalizzati sono stati proprio i big, mentre meglio sono andate complessivamente le gallerie che rappresentavano artisti dai prezzi più abbordabili.
IL CONTEMPORANEO: PADIGLIONE 22
Si parte con Enrico Fornello che ospita una tappa del Progettosettanta di Elena Re che, con coraggio, s’è messa in testa di riscrivere la storia della sperimentazione italiana con la fotografia degli anni ’70. Anselmo, Ciam, Costa, Cresci, Desiato, Ghirri, Zaza & co. non ci mettono molto a mostrare il loro fondamentale contributo e, quanto a freschezza, si bevono larga parte delle nuove generazioni.
Lectio magistralis: i recenti lightbox di Marzia Migliora presentati da Lia Rumma sembrano un tributo a Boetti. Là le frasi erano sugli arazzi, qui si compongono su asettiche tavole ottotipiche. Da segnalare per la galleria anche i nuovi lavori di Tessa Manon den Uyl e i due grandi arazzi di Kentridge all’esterno.
Per la serie “a volte ritornano” ci sono artisti che rimangono sotto traccia e che quando li rivedi ti chiedi cosa gli manchi per fare il fatidico salto di qualità. Da Peola i paesaggi di Paola De Pietri non sfigurano a fianco di Crewdson o Louise Lawler, che continua nel suo progetto di rifotografare le opere contemporanee nei magazzini o nelle casse. Sulla stessa linea d’onda, da Vistamare Claudio Abate ritraeva Mario Merz e Pino Pascali con le loro creazioni nell’ultimo scorcio dei ’60. E alla Galleria 42 la giovane promessa milanese Luca Pozzi (1983) fa il parcour nei musei saltando negli antichi teleri.
Marella dopo il business cinese ci riprova con gli indiani. Intendiamoci, l’occhio è sempre buono e l’intraprendenza notevole. Tra i cinesi ci sono i camouflage di Bai Yiluo e il fotografatissimo passeggino d’assalto di Shi Jingsong. Tra gli indiani Baba Anand crea incrostazioni pop su manifesti vintage di tema religioso o cinematografico. Piace vedere tutto questo esotismo a confronto della ricerca popolare tutta italica di Luca Francesconi, alle prese con il nuovo progetto editoriale “Brown”, in combutta con Presicce e Gonzato.
Augurandogli di non fermarsi sul più bello, i lavori di Andrea Facco visti alla galleria Biagiotti sono i migliori di sempre. Prima era solo una buona pittura che si confrontava con i media, ora la riflessione s’è fatta più colta, rivolgendosi alla comunicazione dell’arte. Non originalissima la riproduzione dei manifesti delle mostre visti sui treni ma concettualmente è un ottimo punto di partenza. Dentro lo stand anche buone chine di Toffolini, fuori l’installazione di Ericailcane, decisamente ridondante.
La Scuola di Lipsia non cessa di alimentare il mercato. I “Treppen” di Petra Ottkowski visti da Binz & Kraemer sono piccoli acrilici geometrici di sapore passatista ma di squisita raffinatezza.
Ci sono Bianco – Valente, Alterazioni Video e nuovi Thorsten Kirchhoff per VM21, Lucy + Jorge Orta e molti buoni lavori della Mezzaqui da Continua. Alison Jacques dà spazio all’eclettismo di un maestro dell’avanguardia brasiliana, Hélio Oiticica, scomparso nel 1980 e celebrato l’estate scorsa alla Tate.
En passant, un cenno di lode va ad Analix per essere riuscita, una volta tanto, a non sbagliare l’allestimento dello stand. Ed ora, largo ai giovani.
PADIGLIONE 22: SEZIONE GIOVANI GALLERIE
Buona la selezione delle 26 gallerie aperte negli ultimi 5 anni. Gli spunti di interesse e di riflessione non mancano. In larga parte è loro la colpa se il 22 è stato definito il Padiglione più interessante.
Si comincia dalle vecchie scarpe tirate a lucido del tedesco Nasan Tur e dell’installazione DecodedLove del coreano Shin Il Kim, che nasconde l’immagine televisiva lasciandole l’aura e il suono. Tra le nuove leve convincono le proposte della milanese Riccardo Crespi, peccato che l’allestimento comprometta un po’ il tutto.
Il troppo stroppia: quella di Magda Danysz è uno degli spazi parigini più vivaci e attivi, ma la scelta di puntare sul pop d ogni costo rischia di ritorcersi contro. Mike Giant sarà pure un artista interessante, ma di tatoo artist c’è già in giro Dr. Lakra. E tra i due non c’è partita.
Da Carasi la star è Michael Bevilacqua, eppure le sculturine in resina di Carl D’Alvia non soffrono del cono d’ombra. Un pop elegante e ottuso che si disfa in una concrezione colorata.
Il contesto bolognese nazionalpopolare sconsiglierebbe le estremizzazioni minimaliste, ma T293 se ne infischia e si conferma ai suoi livelli. Lo stand tiene bene grazie alle bandiere del collettivo Claire Fontaine (biennali di Istanbul, Lione, Tate e New Museum). E le sculture con oggetti di recupero del messicano Martin Soto Climent sono quantomeno interessanti.
Agli amanti della pittura figurativa non dev’essere sfuggita la mano disinvolta del romeno Radu Comsa, da Citric, mentre tra le emergenti romane ha buon occhio per la fotografia Extraspazio: l’accoppiata sudafricana Pieter Hugo e Guy Tillim mette in piedi un affresco delle contraddizioni del continente africano del nostro tempo.
Low tech: riflessi, sovrapposizioni e una costante aria vintage. I paesaggi fotografici di Nicu Ilfoveanu, dalla romena Posibila, ammiccano al tipico immaginario dell’est europa post socialista. Ma nei dettagli si scoprono vere raffinatezze che creano un contrasto molto interessante.
Sull’impermeabile piazza milanese la giovane galleria Luger si sta giocando carte importanti. Non brilla nell’allestimento degli stand ma è forse l’emergente meneghina più intraprendente. La scuderia cresce, tra artisti di livello internazionale (Diango Hernandez, alla vigilia della personale in galleria), artisti creati da zero e dalle ottime prospettive (Igor Eskinja), mid career di grande spessore dagli ampi margini (MP & Rosado, Louis Molina Pantin). Luger piace soprattutto per la capacità di lavorare trasversalmente tra mercato e pubbliche istituzioni.
Fabio Tiboni, costola della riminese Fabjbasaglia, è la prima galleria ad aprire nel distretto bolognese in Zona Mambo. E non sbaglia l’uscita in fiera. Sono buoni sia i collage di Neil Gall che i dipinti geometrici di Jost Munster. E Sergio Breviario ha in De Dominicis il miglior riferimento. Aspettando le prossime mosse, c’è da dire che a Bologna qualcosa si muove, anche per colpa di Agenzia 04 (da segnalare l’ingresso di Stefano Calligaro e Riccardo Baruzzi).
Galica conferma il genio di Alicia Martin con una nuova installazione di libri a terra. A essa si aggiunge il classicismo fotografico di Brigitte Niedermair. Sul resto meglio stendere il classico velo pietoso.
Inaccessibile è lo stand di Monitor, che riprende la performance londinese di Hudson, Sculpture Wars. L’idea è buona e temeraria ma pone alcuni interrogativi: l’idea di connotare la ricerca in modo decisamente identitario è certamente opportuna, ma farlo troppo può essere un boomerang: la qualità delle opere è alta ma gli artisti (Velonis, Hudson, Ochardson, Avikainen, Vascellari) si rassomigliano in modo disarmante e finiscono per inscenare una sorta di brick a brack. Così alla fine a emergere è la figura che non ti aspetti: gli oggetti di lavoro da cui s’emana la divina grazia di un raggio metallico mutuato dall’iconografia religiosa e popolare sono di una bellezza cristallina. E il merito è tutto di Francesco Arena.
IL CONTEMPORANEO: PADIGLIONE 21
Segnalazione d’obbligo per il Concerto invisibile di Gino De Dominicis di Cardelli e Fontana, grande installazione di Vettor Pisani. Allo stand di Pack va un tributo per aver saputo dosare le temperature in un mix azzeccato.
Da Cannaviello sono esposti i recenti lavori di Karin Andersen, l’accoppiata Arruzzo e Presicce da Colombo, da S.A.L.E.S. le ataviche tavole nere dell’iraniana Avish Khebrehzadeh, in mostra al Macro, e un bello scatto di Tillmans che sintetizza il senso effimero del nuovo turismo culturale.
Alta tensione si respira per tutto lo stand Raffaella Cortese, grazie soprattutto ai paesaggi fotografici di Zoe Leonard, alla grande scultura e ai disegni di Kiki Smith: le sue pantegane hanno un qualcosa di mistico e ancestrale. Serviva decisamente uno spazio più ampio per fare respirare tanti lavori di qualità.
Alle radici dell’Impressionismo si rivolge il virtuosismo dell’artista di origine giapponese Hirouki Masuyama. Studio la Città l’aveva mostrato spesso ma nei nuovi lavori il gioco delle sovrapposizioni con la fotografia sorprende, ottenendo effetti di suggestione tipici del paesaggismo di Turner.
Decisamente più astratto è il lavoro della fotografa romana Beatrice Pediconi (Bonomo e Photo & Contemporary), che da qualche tempo ha accantonato la fotografia d’architettura per indagare le volute dell’inchiostro nero immerso in un liquido. Il risultato è convincente.
Difficile per il collezionista occidentale addentrarsi nel labirinto dei nomi, per lo più misconosciuti, dei nuovi scenari globali. Diventa così determinante studiare il contesto in cui gli artisti si collocano. I dipinti di Jitish Kallat presentati da Bodhi Art di Mumbai sono un giusto mix tra arte popolare e monumentale, tra vissuto privato e comunicazione globale, tra narrazione e rappresentazione. Se poi si scopre che il nostro ha avuto la certificazione d.o.c. nel Triumph of Painting di Saatchi il cerchio si chiude.
Si scorrono lo stand di Lelong che ospita Kiki Smith e le tecniche miste di Rebecca Horn, quello di Artiaco per i lavori di Penone, si rivede l’affascinante disegno di Juul Kraijer da De Cardenas e l’ispirato ciclo delle utopie di Sergio Vega di Di Marino; infine si giunge alla bolognese Marabini, dove si compie la terza tappa del minitour riservato a Candida Höfer. Dopo la Pescheria di Pesaro e la personale in galleria, le classiche biblioteche cominciano persino ad annoiare.
Con il traino della grande retrospettiva al Mambo, Luigi Ontani non poteva certo mancare in fiera. Lo si poteva trovare da De Foscherari, Gian Ferrari, Ariete, Raffaelli e Lorcan O’Neil. Quest’ultima gli affiancava i nevrotici disegni di Tracey Emin visti in Biennale al Padiglione britannico.
La poca attitudine della galleria De Carlo nell’allestimento degli stand è quasi un classico. Stavolta non fa eccezione. Cala gli assi, grandi opere di Pivi, Armleder, Stingel e Airò, e intasa uno spazio troppo piccolo e tortuoso.
Da Friedrich Petzel si inscena una vera retrospettiva per Philippe Parreno, film di Zidane compreso. Ma la chicca sono le silhouette ritagliate nel tek di Seth Price, recentemente all’inaugurazione del New Museum e nominato per la prossima Biennale del Whitney.
Complessivamente un buono stand per Minini, nel quale spiccano i contesi disegni di Nedko Solakov della serie Beautiful relations, mentre Jablonka mostra i recenti lavori di Francesco Clemente e Bonelli si tiene compatto sui suoi classici Di Piazza e Verlato, si gode la crescita dei giovani Vinci e Bergamasco. Ma l’iniezione di novità dalla nuova sede losangelena si fa attendere.
IL MODERNO: PADIGLIONE 18
Interessante il giovane tedesco Philp Wiegard pescato da Image Furini. I suoi Falten, materiali e oggetti piegati, sono certamente da tenere d’occhio. Da segnalare qui i progressi della carriera di Andrea Bianconi, ormai stabilmente impegnato sul fronte americano, tra Houston (Barbara Davis) e New York (Pierogi).
Stand istituzionale senza clamori da Sperone. Ma non passano inosservati un piccolo olio su tavola del ’42 di Francis Picabia (Portrait de Susanne) e la mano tatuata in marmo di Fabio Viale, sottovalutato giovane scultore nostrano. È vero che a tratti ha sbagliato mira tentando di assecondare il gusto per l’antinomia tra forma e contenuto senza esserne capace, leggi la serie degli aeroplanini o la barca della Biennale. Ma quando è stato nel suo classicismo non ha mai sbagliato, come quando riproduceva pneumatici e putrelle o quando fintamente vandalizzava la Pietà e il David. Ora che s’e accasato da un big straniero potrà mostrare il suo valore pensando solo a se stesso.
Per un giovane che promette ecco un big che si reinventa. Stephan Balkenhol tradisce la scultura a tutto tondo, da Ropac, per il rilievo del lavoro appeso. I suoi paesaggi non perdono di intensità.
Erica Fiorentini riunisce il gruppo dell’Arte Povera con Uncini, Paolini e Zorio, di cui espone una bella Linea di confine in cuoio del ’70. Un altare domestico con frigorifero di Calzolari campeggia invece allo stand de Il Ponte.A guardar bene, tra le opportunità offerte da Bologna c’è quella di riscoprire la vivacità e la complessità del periodo a cavallo tra Ottocento e primo Novecento, spesso relegato nelle fiere d’antiquariato. Antologia di Monza espone un fiabesco Studio per l’estate e un castello incantato di Leonardo Dudreville del 1908. Ma soprattutto, di Anselmo Bucci, l’opera Odeon (1919-20), un affresco storico della Parigi dell’epoca, con gli artisti amici, più in voga del momento, ritratti a teatro.
Hachmeister concede i disegni e i grattage di Le Corbousier dal ’22 al ’57 e nell’atmosfera da salottino commerciale della veneziana Contini si scova un Nu assis di Tamara de Lampicka del ’23.
Sono imponenti i rilievi per l’Arengario di Milano di Marino Marini montati da Studio Guastalla e soffrono invece la location storica i neopop Luo Brothers della cinese Xin Dong Cheng. Alcuni big come Ben Brown si sforzano poco limitandosi a piazzare dei classici contemporanei, Ruff, Muniz, Höfer, oppure ammiccando al pubblico italiano, magari con le viste dei saloni dei palazzi veneziani di Matthias Schaller. Della personale di Jan Fabre di Arte e Arte, infine, sono intriganti soprattutto le sanguigne e tecniche miste.
IL MODERNO: PADIGLIONE 16
Compaiono i rari lavori di Mark Tobey degli anni ’50 da Torbandena (anche da Hacmeister) mentre L’Elefante rende omaggio a Bruno Munari, a cento anni dalla nascita e a dieci dalla morte. Articolato lo stand Rizziero: piccoli lavori di Francis Alys e poi tanti classici della fotografia, da Giacomelli a Ghirri.
A proposito di chicche, si trovano un bel ritratto di Campigli del ’38 da Frediano Farsetti e un curioso inchiostro rosso su conciglia del ’67 di Alexander Calder dalla parigina Di Meo.
Wunderkammern di disegni del Novecento da Gianferrari: belli non quanto i siparietti della gallerista, in baruffa costante con i collezionisti armati di fotocamere tascabili.
A quelli che dicono che in fiera si trovano solo fondi di magazzino sarebbe bastato vedere il lavoro di Richter del ’71 di Stefan Roepke per cambiare idea. Invece le fiere possono riservare anche sorprese, come Galileo Chini (1873-1956), protagonista del Liberty in Italia, o Duilio Cambellotti (1876-1960), tra i maggiori interpreti dell’art nouveau. Il primo è qui rappresentato con un enorme lavoro dal titolo Bolscevismo dall’Archivio Cirulli (un punto di riferimento per le opere d’arte pubblicitaria e della propaganda del Novecento con doppia sede a Bologna e New York), mentre il secondo lo mostrano F. Russo e Galleria dell’Incisione. Che gli affianca anche lavori di qualità di Grosz, Carol Rama, e gli attualissimi collage su incisioni xilografiche di Franz Roh (1890-1965).
James Cohan è uno dei pochi big stranieri a presentarsi sempre con lavori realmente impegnativi: è vero che molto spazio è dato a Manfredi Beninati ma c’è anche il lavoro biennalesco di Bill Viola a San Gallo, una chicca di Acconci del ’71 (Seconda mano) e uno dei migliori scatti Sugimoto.
Campeggia un piedone nero di 4×2 metri di Cucchi da Curti, La Scaletta punta sul disegno italiano moderno e contemporaneo, Emmeotto ha una buona selezione di Ceroli, sicuro protagonista del mercato a venire, e Tucci Russo associa i nostri giovani Gennari e Caravaggio alle star internazionali Tony Cragg e Robin Rhode. Per finire, Giò Marconi: stavolta sceglie Emilio Tadini per la sua classica retrospettiva storica.
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alfredo sigolo
[exibart]
ma non va mai bene niente.
Il prossimo anno curala tu, vediamo se conta più la teoria o la pratica.
La fiera non è un posto per fare innovazione, bisogna battere cassa.
Il lavoro di un artista finisce in fiera per essere venduto, come il cantante che fa il pezzo a posta per Sanremo. Parla con un vero gallerista e ti dirà la stessa cosa, poi ci puoi ricamare su quello che vuoi, ma sono chiacchere e distintivo.
grande silvio!!!
perchè se si cerca di fare una cosa innovativa non si vende….? non lo sapevo….
nel padiglione 16 (ed in tutta la fiera) spiccava l’astro nascente della figurazione contemporanea, forse il nuovo Bacon, forse un virtuoso del pennello che ha umiliato i clichè del contemporaneo più trash con la PITTURA.
Il suo nome è GIOVANNI GASPARRO, artista di 24 anni che ha esposto l’olio su tela dal titolo “Al limite” con la galleria fabrizio Russo di Roma. Sul web è presente il suo sito personale: http://www.giogasparro.blogspot.com/
peccato che il recensore di Exibart non ne abbia parlato…