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fiere_resoconti Art Basel 40
fiere e mercato
Art Basel? Regge, eccome. Perché la crisi non la vuol sentire. All’insegna del motto “squadra che vince non si cambia”, mette a segno un’altra edizione da re. Anche se l’Unlimited qualche segno di sofferenza lo mostra...
Oltre 300 gallerie da 29 Paesi, 61mila visitatori, 2.800 giornalisti, più di 2.500 artisti in mostra: la mossa vincente della fiera di Basilea è stata… non fare alcuna mossa, ovvero infischiarsene di strategie di riposizionamento, conservative e ispirate alla cautela. Art Basel 40 ha confermato tutte le sue prerogative, affermando un modello inossidabile. E lo ha fatto a dispetto di un programma di eventi museali, in giro per la Svizzera, non all’altezza di altri anni e a dispetto anche delle fiere satellite – Liste, Volta, Scope, Hot Art Fair, Solo Show -, semplici comprimarie che hanno finito per annullarsi a vicenda. Con l’eccezione, forse, solo della padrona di casa Liste.
PADIGLIONE 2.0
Si parte con il colosso newyorkese Matthew Marks, che affianca Robert Gober, Death Mask (2008), a una splendida incisione di Lucian Freud, Pluto Aged Twelve (2000), mentre a terra ingombra il totem In the Studio II (2007), cassa-studio di Fischli & Weiss.
Cheim & Read rischia il confronto tra Jack Pierson e William Eggleston, un ping-pong che Pierson non perde, grazie alla sua versatilità tra fotografia e scultura (Sin, 2009 e Faith, 2007). Il gioco degli equilibri premia la napoletana Artiaco, che ai collage cruenti di Thomas Hirschorn (La Série des Antalgiques – Doliphrane) oppone il rigore classico di Tremlett e la spiritualità di Wolfgang Laib (Rice House 2007-08), artista presente anche alla galleria Kelly.
Sul fronte dello storico del Novecento si fronteggiano Richard Nagy di Londra, con ammiratissimi lavori di Grosz, Schiele e Klimt, ma anche con i meno noti e intensi ritratti di Christian Schad, e Krugier & Cie, che invece si permette il lusso di proporre una serie di lavori museali di un Picasso maturo (anni ’30) ma ancora ispirato.
Un grande varco ottagonale intaccatato dalla tipica schiuma poliuretanica (Hpuedb Eclipse 2009) è posto all’ingresso dello stand di Hufkens; tra le opere di Sterling Ruby è simile a quelle monumentali esposte da Metro Pictures nel 2007. Al di là di essa stanno interessanti dipinti surreali di Cris Brodahl (anche da The Approach) e le gettonate sculture “monumentali” di Thomas Houseago (in Italia da Zero).
Decisamente intrigante il video di Pierre Huyghe presentato da Marian Goodman: è quello che documenta il progetto per la Biennale di Sidney del 2008, quando trasformò la Concert Hall in una foresta pluviale (A forest of Lines); gli fanno compagnia anche le opere del nostro Penone.
Da Frankel un beffardo Beckett, nel doppio e intenso ritratto di Avedon, sembra prendersi gioco della siuazione; poco più in là lo stand di Bischofberger è interamente dedicato al monumentale Big Retrospective Painting di Andy Warhol, una specie di autoricapitolazione firmata nel ’79 di oltre dieci metri di lunghezza per due di altezza.
La linea romantica della pittura anni ’90 si rinverdisce nella sofisticata pittura di Paul P., da Ropac; qui si vedono anche gli acquerelli di Tony Cragg, che paiono quasi figli di Capogrossi. A proposito di pittura e citazioni, da Hauser & Wirth, oltre alle opere di Paul McCarthy, ci sono i lavori neocubisti di Guillermo Kuitca, già al Padiglione argentino della scorsa Biennale veneziana.
Passando per le ceramiche di Rosemarie Trockel (Gladstone) e i Penone di Pauli, da Templon i neon antropomorfi di Ivan Navarro (Nowhere man) illuminano anche i sensuali dipinti della bulgara Oda Jaune, nota anche per essere la giovane vedova di Immendorf.
Pur essendo una fiera dalla spiccata vocazione contemporaneista, a Basilea non mancano gli storici del XX secolo. Da Knoedler si vede un grande esponente dell’espressionismo astratto, Robert Motherwell, magari meno noto di Pollock o De Kooning ma non meno incisivo. Alla Galerie 1900-2000 i minuscoli disegni erotici e le foto di Hans Bellmer colpiscono per la loro forza emotiva.
Classico contemporaneo è il video di Bruce Nauman, God Boy, Bad Boy, da Sperone, cui Lia Rumma risponde con l’installazione Sbarre violate di Gino De Dominicis, che suggerisce un’evasione dallo stand che acquista i toni di un’irriverente critica al mercato.
Sonnabend rende omaggio alle eleganti sculture di Rona Pondick (Pleasant Azalea, 2007-09) e Luhring Augustine sposa i temi della discriminazione razziale interpretati dalle scritte al neon dell’afroamericano Glenn Ligon (I live on my shadow).
Gonzales sceglie di dedicare lo stand a una retrospettiva di Donald Judd (1960-1970), Paula Cooper dà spazio alle riflessioni socio-politiche del libanese Walid Raad, mentre da Zwirner si vede una Isa Genzken prima maniera, più ordinata e minimalista (Sozial Fassade, 2002).
La chicca finale del padiglione la regala Studio La Città, che anticipa la personale della prossima stagione della rockstar Nick Cave. Il suo albero secco popolato di uccelletti souvenir non è neppure male.
PADIGLIONE 2.1
Al piano superiore s’incontrano subito i collage fotografici di Stezaker proposti da Approach; il sessantenne artista sta vivendo una nuova e meritata giovinezza, vuoi per la moda in voga del collage, vuoi per una buona strategia di mostre recenti (New Museum, The Rubbell Family Coll., White Columns e Tate le più importanti). Molto intriganti anche le Ruins di Patrick Hill, sculture in apparenza tipiche del nostro tempo per l’accostamento di materiali diversi, che però l’artista compone con lucidità e originale plasticità.Ottimo stand quello di Pepe Cobo per la presenza di Francis Alys e Baldessari, il bello scheletro di Balkenhol e l’installazione a terra di Diango Hernandez, come ben equilibrato appare anche quello di Maureen Paley, con la romantica pittura di Kaye Donachie, che teme pochi rivali nel suo genere, e la maturità nella ricerca di riconversione della memoria di Seb Patane (presente anche allo Statement con Fonti).
Un Gormely datato ma ancora efficace è proposto da Nordenhake: Consumption del 1982 è una sagoma umana ritagliata a morsi in un puzzle di fette di pane in cassetta ormai ammuffito. Soprattutto lavori recenti sono invece quelli proposti da Yvon Lambert: straordinari gli idoli balinesi di Bertrand Lavier in bronzo nichelato, che sembrano rievocare il mito tribale che ispirò il cubismo; anche per questo accenno esplicito alla memoria, l’enciclopedia in basalto di Loris Gréaud (Encycolpedia Of Irresolution, 2008), appoggiata a terra, appare perfettamente coerente. In giro si scorgono interventi minimi di Monk e Shrigley, che servono un po’ a sdrammatizzare e un po’ a caricare di effetti surreali una selezione comunque di altissimo livello.
Passando per la pittura fiabesca di David Harrison e le sculture geometriche metafisiche di Conrad Shawcross di Victoria Miro si giunge da Gavin Brown, dove l’horror vacui la fa da padrone. Non un centimetro dello stand risulta vuoto, in parte occupato da decine di piccole statuette grottesche di Horowitz, in parte dal lavoro di Rob Pruitt, tele lasciate grezze e autografate da celebrities del mondo dell’arte, dello spettacolo e della moda. Come a dire: che ci sta a fare l’artista?
Andrea Rosen offre l’occasione per valutare la nuova deriva umanista e statuaria di David Altmejd ma anche la raffinatezza barocca degli acrilici di Katy Moran, De Carlo fa centro con la grande stanza di Elmgreen & Dragset, un confessionale in piena regola per gli adepti del mercato dell’arte, Magazzino articola lo stand con buon piglio, tra Bartolini, Vedovamazzei e Cabrita Reis. Ma il pezzo forte è il cuore d’asfalto di Sislej Xhafa.
A rappresentare Israele c’è Dvir, che esibisce tra l’altro un bel lavoro dell’artista locale ma operante a Berlino Ariel Schlesinger: due accendini accesi, uniti per la fiamma. Lavoro intrigante, vagamente romantico, allineato al gusto estetico internazionale.
Per il Sudafrica c’è invece Goodman, che non si fa mancare Kentridge ma anche la dignitosa pittura di Kudzanai Chiurai, un po’ urban style ma con accenti di critica economica e sociale. A conti fatti, più coerente questo della garitta con guardia londinese dello YBA Gavin Turk, che appare solo spettacolare.
Quasi che il rallentamento le avesse giovato, la Cina è presente qui anche con Vitamin, galleria che accanto a nomi già noti come Cao Fei e Zheng Guogu, propone anche Pak Sheung Chuen, a dimostrare un interesse concettuale non sempre presente nelle star del Paese del dragone.
A Taipei, e alla galleria Eslite, va la palma del progetto più divertente: nel Mosquito Cinema Michael Linn costruisce le sedioline da bambino e Kuang-Yu Tsui è il protagonista di una serie di video esilaranti, dagli autogavettoni al bowling con i piccioni a far da birilli.
Tra gli italiani, gli specchi di Pistoletto della Biennale toccano a Continua, Emi Fontana ribadisce il progetto dell’Unlimited con tanti lavori di Sterling Ruby, Marconi presenta un nuovo video di Rosa Barba, tra gli italiani emergenti più gettonati sul piano internazionale, infine Noero mette insieme il prediletto Pablo Bronstein e la denuncia decadentista di Mike Nelson (Parody Consumption and Institutional Critique, 2008).
Nel novero delle riscoperte s’inscrive la scelta di Contemporary Fine Arts di dar spazio a Georg Herold, scultore ancora decisamente lucido nella ricerca sul corpo umano.
Da Deitch l’inedita Vanessa Beecroft scultrice non sembra così diversa dalla fotografa e performer, mentre sorprende l’ottimo stand di Boesky per le elaborazioni archetipiche della violenza di Adam Helms e il grottesco e lisergico modernismo di Jay Heikes (in Italia lo si trova da Federica Schiavo).
Si chiude con Roman Ondak, che espone da Janda un meteorite di Marte (Mars Stone, 2004), e Adam Mc Ewen, che da Jansen si fa il ritratto su carta di credito in grafite (Self portrait as credit card, 2009).
Statement
La sezione irrisolta della Messe, quella che da sempre pare un corpo estraneo perché non le è mai stato trovata degna collocazione, anche per quest’anno si trova sulla via dell’uscita, inscatolata in un dedalo di box troppo piccoli e troppo vicini che finiscono per penalizzarne la fruizione.
I vincitori del Bâloise Art Prize sono Nina Canell (Mother’s Trankstation) e Geert Goiris (Art:Concept), aggiudicazioni che appaiono francamente un po’ azzardate. Quasi per un gioco di compensazione il lavoro di Canell appare un po’ artificioso, quello di Goiris, al contrario, ispirato a un’ovvietà disarmante.
Tra le gallerie italiane non avrebbe sfigurato il premio a Seb Patane di Fonti. Tra gli stranieri sono piaciuti il tentativo di perpetuare una storia d’amore cinematografica della polacca Anna Kolodziejska (Kugler) e la ricostruzione di un pezzo di storia della cultura berlinese recente di Mathew Hale (Wentrup), due progetti profondamente identitari che avrebbero meritato più attenzione.
Unlimited
Rischia di essere una delle peggiori edizioni di sempre questa dell’Unlimited, vero punto debole della 40esima Art Basel e salvata anche grazie ad alcune installazioni di artisti ormai storici (Weiner, Chen Zen, Nan Goldin). Si salvano alcuni (David Shrigley, Nedko Solakov, Sterling Ruby, Aernout Mik, Violette) ma con lavori che possono essere definiti ortodossi e autocelebrativi, senza il necessario piglio innovativo e creativo che l’opportunità dei grandi spazi permetterebbe. Un’occasione persa per molti e che forse dimostra anche una certa difficoltà (incapacità?) degli artisti contemporanei di affrontare gli spazi monumentali, stritolati da un mercato che chiede loro un numero sempre maggiore di lavori, magari facilmente vendibili.
Esemplare è la resa del pur non giovanissimo Stephan Balkenhol, che si obbliga a ridurre lo spazio, con le sue opere, a una dimensione abitabile, riproducendo la più amichevole situazione da galleria o da stand di fiera.
Altro esempio: la casetta di Nara, tirata su quale contenitore dei tipici dipinti manga, belli fin che si vuole ma inadatti agli spazi extra large. Non era più opportuno chiamare un artista un po’ meno noto ma magari con vocazione alla public art?
Più intelligentemente Manfred Pernice rilancia attaccando il sistema di mercato e “arredando” il box con dipinti, sculture, arredi, complementi e oggetti di design di altri artisti.
Ammirevole è il progetto sul ritratto di Roni Horn, ancor più suggestivo forse dello spettacolare lavoro sul panorama di Op De Beeck; discreta la prova di Elisabetta Benassi, che trasforma in tappeto un vero telegramma spedito nel ’36 per descrivere la formula einsteniana, tempestiva la riflessione sul ruolo effimero e perverso del mercato dell’arte di Gabriele di Matteo, che copia i capolavori cinesi in bianco-nero. Alla fine una delle cose più complesse e centrate appare forse il progetto di Andro Wekua, giocato sul doppio e sul confine tra la dimensione fisica e psichica.
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alfredo sigolo
dal 9 al 14 giugno 2009
ArtBasel 40
Messe Basel
Messeplatz – 4005 Basel
Orario: tutti i giorni ore 11-19
Ingresso: intero CHF 38; ridotto CHF 28
Catalogo Hatje Cantz, CHF 65
Info: www.artbasel.com
[exibart]
mi sembra che Scope quest’anno sia stata piu interessante.
libero pensiero in tempi di dittatura morbida su tutti i fronti. 10 100 1000 singoli sigoli.
Mi iniziano a rubare l’identità per lasciare commenti…interessante.
smettila scrivere al posto mio.