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ArtBasel 34. Come è andata?
fiere e mercato
Fu vero caos? è la domanda che sorge spontanea considerando la Biennale alla luce di Basilea.
Venezia-Basilea-Valencia è il triangolo delle Bermude dell’arte 2003. Un’overdose dalla quale escono approcci diversi all’arte contemporanea e visioni contraddittorie. Poco male, perché l’arte ha in sé il germe dell’ambiguità…
Venezia-Basilea-Valencia è il triangolo delle Bermude dell’arte 2003. Un’overdose dalla quale escono approcci diversi all’arte contemporanea e visioni contraddittorie. Poco male, perché l’arte ha in sé il germe dell’ambiguità…
Semmai a far riflettere sono le ragioni dell’arte, magari mettendo a confronto il caotico bazar delle Corderie lagunari con il rigore e l’eleganza degli stand svizzeri.
E’ improprio confrontare una biennale con una fiera d’arte, all’origine stanno principi e motori ben differenti; attenti tuttavia ai luoghi comuni, perché se la Biennale si è ormai trasformata da vetrina delle avanguardie ad antologia (è definizione di Bonami) di quanto prodotto e già visto negli anni che l’hanno preceduta, ArtBasel è oggi un grande evento culturale e opportunità per gli artisti emergenti, senza pregiudicare la sua vocazione commerciale.
Il fatto è che, piaccia o no, nel mondo occidentale, che è quello nel quale si può configurare un sistema dell’arte fatto di artisti, critici, curatori, collezionisti, premi, musei, riviste e gallerie private, la sperimentazione passa per queste ultime in modo quasi esclusivo, almeno se per sperimentazione intendiamo anche le attività ad essa connesse e necessarie: sostegno, selezione, investimento, promozione e diffusione.
Curioso è notare che la Biennale sìa partita con uno slogan, la dittatura dello spettatore, che tende a negare la sistemazione tematica dell’arte e riscatta il rapporto opera-spettatore, in fondo quello stesso che viene perseguito e auspicato in una fiera, dove capita, ma non è solo così, che lo spettatore sìa anche collezionista.
Ma se la ArtBasel tende ad ampliare il suo pubblico ai semplici appassionati (in fondo potenziali collezionisti) e la Biennale rinuncia ad una visione troppo categorica dell’arte nel suo insieme, occupandosi piuttosto dei fruitori, vien da pensare che siamo di fronte ad un cambiamento epocale, che riguarda per primo il pubblico dell’arte.
Padiglioni 2.0 e 2.1
Fin dall’inizio si capisce che questa è una fiera diversa dalle altre: la Beyeler (CH) ha uno stand che farebbe invidia ad un museo, con grandi Bacon, Dubuffet, Riley e Richter, quest’ultimo vera star dell’anno, conseguenza del grand tour americano della sua retrospettiva, da New York a Chicago, da San Francisco a Washington.
Ma anche una grande mostra napoletana ha lasciato il segno: da Hetzler (D) il monumentale Ballon flower 3 di Jeff Koons è preso d’assalto da una frotta di giapponesi e finisce per mettere in ombra i pur notissimi musei di Thomas Struth. Su Koons dice la sua anche Gagosian (USA/UK), con i mitici aspirapolveri in vetrina.
Greve (D) mette insieme un’antologica di Fontana, con un sacco di ceramiche, anche quelle figurative degli anni ’40.
Il podio della Scultura vivente di Manzoni e il cubo di tappi pressati di Cesar sono pezzi storici da intenditore esposti alla Tega (I), mentre Sperone (USA – I) cavalca i contemporanei Bertozzi e Casoni con pezzi di prim’ordine (lo scheletro tosaerba è un classico), qualità che è generalmente elevata ovunque, come confermano i big della pittura di Kluser (D), Katz, Mendoza e Baechler.
Werner (D) riscopre coraggiosamente James Lee Byars, Lo Scudo (I) di Verona fa lo stesso con Eliseo Mattiacci, dedicandogli una larga parte dello stand, ma i Pollock messi in mostra da Washburn (USA), quelli che precedono il periodo dell’action painting, sono brutti nonostante l’indiscusso valore storico per quel che li seguirà.
Le fotografie che ritraggono noti personaggi del mondo del cinema di Gregory Crewdson da Luhring Augustine (USA) sono momenti da real life che tornano al cinema come un boomerang, per quella illuminazione da scena del delitto: una serie eccezionale che legittima la scelta di ArtBasel di rinunciare ad una sezione specifica per la fotografia, ormai trattata alla pari delle tecniche tradizionali da tutte le gallerie.
Sorvolando sulla buona dose di minimal ed optical che qui è sempre di moda, ci sono ancora due cose che meritano di essere citate: da un lato le intime polaroid di Helmut Newton da Mayer (UK), che mostrano come anche la fotografia abbia i suoi esemplari unici, dall’altro l’interessantissimo Brian Alfred da Protetch (USA), pittore complesso concettualmente, attratto da dettagli e forme insignificanti del paesaggio urbano e tecnologico, resi imitando la fredda e sintetica grafica computerizzata.
Passando al Padiglione 2.1 si ha la conferma che questo sìa stato l’anno delle conferme e del consolidamento dei valori più che delle novità.
Da Metro Pictures (USA) c’è un Tony Oursler in piena forma, come pure la Kara Walker di Sikkema (USA). La Lisson (UK) mette in fila Tony Cragg, Julian Opie ed Anish Kapoor, la 303 (USA) i suoi assi divenuti da promesse a splendide conferme: Sue Williams, Kilimnik, Tim Gardner.
Dal video di Motohiko Odani visto in Biennale, bello pur nell’effetto a metà tra Mariko Mori e Bjork, SCAI (J) sceglie alcuni frame significativi.
Affascina molto il tatami fiorato di Michael Lin, da Tanit (D), con cuscini dall’analogo motivo: un pattern di impatto su una struttura essenziale e giocosa.
De Carlo (I) sembra aver studiato con attenzione l’allestimento, convincendo anche chi, per solito, gli imputa l’esibizione semplicistica dei propri pezzi da novanta (Cattelan, Bartolini…), un po’ quello che fa White Cube (UK), piazzando Mona Hatoum, Gary Hume e Damien Hirst.
Per la serie cosa non faresti per il mercato?, ecco da Rosen (USA) i frame di Annika Larsson, probabilmente fra le più brutte opere di tutta la fiera, specie se confrontate con l’algida perfezione dei video, in mostra poco distante dalla messeplatz, alla Gegenwartskunst, lo spazio giovani del poderoso Kunstmuseum di Basilea. La prestigiosa galleria si riscatta però con 2 chicche: da un lato i disegni di Currin, che non sfigurerebbero tra quelli dei grandi del Rinascimento, dall’altro le ultime opere di Charlie White, che rispolvera il mito dei Muppets.
Da Gasser e Grunert (USA) ecco un’altra pittrice destinata a far parlare di sé: i variopinti pappagallini di Ann Craven hanno un sapore rococò e possono, a buon diritto, essere inseriti nella corrente neo romantica della pittura americana, con Kilimnik, Peyton, Essenhigh e Gardner. Per la cronaca, l’altra corrente significativa è quella aniconica e neoinformale, caratterizzata dalla ricerca su strutture architettoniche e geometriche che ricalcano modelli sociali ed urbani, reti e sistemi della nostra epoca.
A proposito di pittura, che qui non è mai stata in crisi, quella di Karin Kneffel, che rappresenta animali ed oggetti comuni adagiati su coloratissimi tappeti etnici, è una buona carta per van Orsouw (CH), ma più originale è la tecnica del finlandese Robert Lucander (Contemporary Fine Arts, D): la pelle dei suoi personaggi rubati alle riviste di moda ha i colori e le venature del nudo legno del fondo.
Della nuova arte messicana in voga, piace soprattutto Fernanda Brunet (OMR, Mex) per la vivacità della sua tecnica informale e pop.
C’è una sola galleria Ceca, la Svetska, ma l’installazione di Kristof Kintera è molto interessante e, a rivedere i lavori dell’artista che ricordiamo a Manifesta 2, si ha la sensazione che meritasse un po’ più d’attenzione dalle nostre parti.
Ma questo è anche il padiglione degli ArtStatements, le personali di artisti emergenti, alle quali Baloise Group riserva un importante riconoscimento. La giovane Monika Sosnowska, polacca del ’72 (Foksal, P), se n’è aggiudicato uno, facendo il paio di successi con la partecipazione alla Biennale. La dice lunga il fatto che il premio l’abbia ricevuto per un’opera vista a Manifesta 4.
L’altro premio è andato all’olandese Saskia Olde Wolbers (Stigter, NL), per un video lattiginoso assai efficace nella dinamica e nell’effetto, ma che non sembra un capolavoro. Degli altri progetti merita almeno una menzione la nostra Lara Favaretto da Noero (I).
Il 2002 era stato l’anno che aveva consacrato la prassi diffusa, a livello internazionale, di affidarsi all’immaginario infantile per superare lo stanco concettualismo; bambole, pupazzi, disegni stilizzati su carta, giocattoli, ce n’era per tutti i gusti. Com’è normale, tocca ora di fare selezione e, in questo senso, la scelta di Roberts & Tilton (USA) di puntare sul bravo Chris Johanson è indovinata. Il suo castello di cartone è un labirinto che si percorre a 4 zampe e costringe ad osservare i suoi delicati acrilici su carta.
ArtUnlimited
E’ la sezione che convince anche gli scettici del fatto che Artbasel non può essere considerata solo un evento di mercato. Le videoinstallazioni, i progetti ambientali di grandi dimensioni, hanno di certo un loro mercato, ma talmente marginale che non può essere significativo.
Invece questi spazi mettono a dura prova gli artisti, con grandi maestri che talvolta segnano il passo. Chi non sbaglia è certo Richard Serra, che con la scultura monumentale è nel suo; quella qui collocata fa il paio con quella di 40 tonnellate che sta sulla piazza antistante l’ingresso della fiera.
Paul McCarthy se la cava agilmente tappezzando le pareti di foto e collocando, in mezzo alla sala, un grande palco fatto con le valigie di scena delle performance dal ’76 all’83.
Inedito e bellissimo è il progetto video di Muntean/Rosenblum: attraverso un ingresso fiabesco si accede ad uno spazio occupato da uno schermo piatto che mostra una carrelata su una interminabile officina per auto; quasi come presenze estranee, nella più triviale banalità, sfilano i noti giovani annoiati e ieratici, come presenze effimere o fantasmi.
Tra gli altri progetti è da citare la bella sequenza di agglomerati metallici sospesi di Axel Lieber.
Se c’è una critica da fare a questa sezione, che conta su nomi di spicco come Gilbert & George, Gormley, Kapoor, Marisaldi, Morrison, Shonibare ecc., è quella di mettere troppa carne al fuoco: non è tanto per i 55 progetti selezionati, quanto piuttosto per la scelta di esporre, acccanto ai progetti creati in situ, i grandi maestri del passato. Tra questi passiamo almeno la grande installazione di 81 blocchi di legno di Carl Andre del ’79, ma è la strategia generale a non essere felice, perché crea un senso di spaesamento cronologico e panico da agorafobia.
Postilla
Appena una annotazione conclusiva merita la scadente edizione 2003 della Liste.
Nata come la fiera alternativa di Artbasel, quella riservata alle gallerie giovani, sembra risentire prematuramente dei sintomi della vecchiaia. Sarà forse per la location troppo inquinata e poco flessibile della ex birreria nella traversa di Grenzacherstrasse, ma ormai Liste assomiglia sempre più ad un salon des refusée che non sa proporre alternative convincenti al collezionismo attratto dagli artisti emergenti.
Se a questo si aggiunge il fatto che il trucchetto della fiera alternativa, costruito proprio sul fascino degli spazi di archeologia industriale occupati, è ormai ampiamente svelato dalla rigida selezione, determinata soprattutto dai consistenti costi degli stand, appare chiaro che è giunta l’ora di cambiar strada. E farlo in fretta.
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