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10
giugno 2010
decibel_contemporanea L’utopia annidata nel sogno
Musica
“Essere-utopici” come condizione del presente e, dunque, sognare l’utopia (perduta). Il sogno di un’eutopia poietico-musicale. Sono alcuni dei temi di Maerz Musik, che focalizza il teatro musicale contemporaneo...
Il lavoro di Thomas Kessler, a cui è affidata la composizione
dell’inno di Maerz Musik 2010, Utopia, promette un’esperienza musicale indimenticabile sulla
falsariga dell’isola immaginata da Thomas More. Nella Grosser Saal della
Philarmonie gli elementi della Staatskappelle Weimar sono preparati con vistosi
computer, footpedal e altoparlanti. Il software processa in tempo reale alcuni
parametri del suono (sensibilmente il pitch) mentre la disposizione del live
electronic permette ai singoli performer di operare direttamente sull’output.
Molto democratico.
Inizia il concerto e per circa 30 minuti l’orchestra
gestisce bizzarri glissando collettivi, il suono degli strumenti ritorna non
credibile e produce un inatteso effetto “8 bit”, nel complesso cerimonioso e
forzato. Un plauso va senz’altro ai tecnici e gli audio-designer, che
apprestano un set up colossale “lato-performer” perfettamente funzionante e
senza il minimo intoppo. Peccato invece per un progetto di grande interesse,
che tuttavia lascia totalmente inappagata l’emozione musicale.
Per fortuna c’è Stille und Umkehr di Bernd Alois Zimmermann, un lavoro del 1970 che –
nonostante gli anni e l’assenza di computer – suona assai più elettronico del
precedente, sia dal punto di vista della struttura che da quello sonoro: in una
formazione svuotata e originale dell’orchestra, le scarne percussioni e la
fisarmonica rompono di tanto in tanto il continuum sonoro ipnotico e
stazionario degli archi, creando un intreccio musicale onirico e coinvolgente.
Il lavoro di Lucia Ronchetti presentato alla Sophiensaele sposta l’accento sul lato
negativo dell’utopia, focalizzando i concetti di margine e confine. Il suo Der
Sonne Engegen è
sembrato un esperimento di teatro musicale fresco e innovativo, con idee interessanti
sia sul piano musicale che su quello della regia e del testo. Un’opera politica
sulle frontiere, una riflessione sulla linea che separa i mondi, come una serie
infinita di cerchi concentrici. Un lavoro dialettico, utopico, radioso e al
contempo pessimista, cupo.
Come ci spiega la compositrice: “L’aspetto più
utopistico dell’opera è forse proprio l’ideazione. Se sia possibile nel dialogo
tra una librettista, un regista e un compositore realizzare un progetto di
teatro musicale che nello stesso tempo sia un documentario, un’opera che parli
di una situazione di sconforto reale. La nostra sfida, la nostra utopia è
un’utopia dell’ideazione, sperando che nel linguaggio teatrale emerga il nostro
dibattito interno e la nostra documentazione senza per questo rinunciare alla
nostra estetica e alla nostra scrittura”.
Una pièce intensa e profonda da cogliere sul duplice piano
dell’esperienza musicale e della riflessione letteraria, “non un confetto” – come dichiara la stessa Ronchetti
– ma, è vero, un
lavoro capace di creare pressione, di spingere l’audience e farsi esperire
fisicamente. Le 14 voci e gli ottoni processati con il live electronic creano
un dialogo profondo e il tempo travasa dalla musica alla scena. “Volevo
avere una formazione speciale con un suono coesivo e invadente”, spiega Ronchetti. “Un gruppo
di 5 ottoni, sia a livello visuale che acustico, dà la possibilità di rievocare
situazioni di provvisorietà e di musica popolare eseguita in spazi aperti, ma allo
stesso tempo é un ensemble completo e può generare un materiale potente ed
esplosivo, soprattutto se amplificato e trattato con il live electronic. La
scelta è stata anche dettata dalla volontà di presentare il gruppo vocale come
un ensemble a cappella, non accompagnato e, in effetti, l’interazione tra le
due realtà è di dialogo indipendente e commento reciproco. Tranne nel finale,
nella rivisitazione del Dies Irae, dove sono tutti parte dello stesso ‘naufragio’”.
Tutto accade naturalmente nello spazio disintegrato e
fatiscente della Sophiensaele, immersi in una scena povera ma incantata, che
regala azioni ed emozioni molto efficaci. Ogni elemento sembra controllato con
grande senso poetico, anche nella gestione degli elementi più tecnologici dello
spettacolo – le proiezioni e il live electronic – dei quali ad arrivare è prima
il contenuto che il mezzo in sé.
Così il video Weltall di Elisabetta Benassi , al pari di un performer, si
illumina nel cuore dello spettacolo, facendo luce su inquietanti ibridi corpo-motore
accatastati per la rottamazione, rasoterra di possibili rifiuti cosmici, mentre
sulla scena fanno ingresso astronauti impegnati in una simbolica colonizzazione
dello spazio interplanetario.
Dopo la pièce l’intero edificio della Sophiensaele viene
colonizzato da Felix Kubin e dal suo progetto Echohaus , per 6 spazi. Buona l’idea di un
concerto che accolga pubblico e performer in un grande contenitore acustico
comune, sviluppato in verticale lungo i quattro piani dell’edificio. Più scarso
invece il risultato, che lascia troppo spazio al pubblico, trasformandolo
infine in un performer pigro e imbarazzato. Mettere in relazione le
improvvisazioni dei singoli musicisti isolati nelle grosse sale o negli angoli
dell’edificio con ciò che risuona di sotto, nella sala di ascolto e regia, non
sembra abbastanza, e le sorgenti di ogni singola performance sono restituite in
una miscela sonora indistinta e impersonale.
Al Volksbühne è presentata in anteprima tedesca l’opera
Luci mie traditrici di
Salvatore Sciarrino, anch’essa al centro del focus sul teatro musicale e risultato di una
grossa coproduzione italo-tedesca. La scenografia, affidata alla celebre
artista Rebecca Horn, è minuziosamente curata e impreziosita con oggetti simbolici – come
la sedia con i 4 coltelli all’estremità delle gambe – o dall’apparizione di
animali in scena – il falco – ma pare sofferente al cospetto dei 70 minuti attraverso
cui si sviluppano i due atti dell’opera, segnati profondamente dalla quasi
totale immobilità fisica dei tre protagonisti.
Anche sul grande schermo al fondo della scena, sul quale
lo scivolare di petali e macchie di colore crea spunti pittorici molto belli e
raffinati, rimane in qualche modo confinato al di fuori dell’azione, ed è come
se i preziosi elementi di cui è composto l’insieme non riuscissero ad
amalgamare. Il dramma dei Malaspina, riadattato dallo stesso Sciarrino sul testo del 1664, Il
tradimento per l’onore di Giacinto Andrea Cicognini, è lento e invade la parte strumentale, che invece
è magnifica e brulicante e di cui avremmo voluto poter apprezzare appieno il
suono scintillante e instabile, diretto ottimamente da Beat Furrier.
Dopo il teatro, al piano superiore è la volta del John
Butcher Group ,
che si esibisce in uno dei concerti più interessanti di questa edizione.
L’ensemble, costruito intorno al nucleo jazz sax-piano-percussioni, è composto
inoltre da un’arpa, un Guzehng (strumento della tradizione popolare cinese),
sintetizzatore, contrabbasso e turntable. Ne segue un fitto dialogo, somethingtobesaid, ricercato, smodato, aereo,
violento, al confine tra Fluxus e free jazz. Mentre Thomas Lehn controlla in modo straordinario
ogni frequenza, pulsazione e oscillazione generata dal suo Synthi A, Butcher e Robair – al saxofono e alle percussioni –
sembrano duellare senza motivo per la leadership, creando di tanto in tanto
qualche cedimento nell’insieme. Il risultato è comunque un’affascinante
esplorazione dell’interazione corpo-strumento-macchina e 60 minuti di grande
respiro sonoro.
Il Collegium Novum Zürich diretto dall’eccelso Sylvain
Chambreling è
protagonista quest’anno alla Kammermusiksaal con tre magnifiche esecuzioni per
ensemble da camera e live electronic, realizzato dall’Experimentalstudio des
SWR . Al centro
del programma, Così dell’uomo ignara… di Klaus Ospald trasporta per 28 indecifrabili
minuti in un mondo sonoro sorprendente, ricco d’interazioni strumentali inedite
ricercate sul piano sonoro e mai forzate, le quali s’integrano senza soluzione
di continuità con il live electronic, trasportando sia l’ascoltatore che i
performer in un sistema complesso di piani, rimandi e connessioni mentali
inaudite. Un’esperienza d’ascolto estremamente affascinante, un piacere puro
per le orecchie.
Anche la precedente …und… (2008) di Georg Friedrich Haas
risuona nuova e
potente, nonostante le imprecisioni che ne mettono a rischio l’esecuzione
proprio nel momento della sua massima intensità. Infine, il lavoro di Klaus
Huber, Erinnere dich an Golgatha…, brano del 1977 rivisitato per
l’occasione, rimane in equilibrio precario tra le spazializzazioni
elettroacustiche, i 18 strumenti dell’ensemble e il contrabbasso solista.
Più severo e adatto agli amanti dell’esecuzione virtuosa,
sempre alla Kammermusiksaal, è il programma dell’Arditti String Quartet, con le nuove composizioni di Brian
Ferneyhough, James
Clarke, Olga
Neuworth e Hugues
Dufourt. Lavori
in sé perfetti, piuttosto vigorosi e un po’ troppo di maniera, eccezion fatta
per in the realms of the unreal di Neuwirth, che affonda l’archetto in sonorità spiazzanti e
combinazioni armoniche fantasiose, con coraggio e originalità femminile.
Molto interessante la proposta dell’Ensemble Ascolta, che nel contesto un po’ rumoroso
ma intimo della Sophienkirche esegue, tra gli altri, pezzi di giovani compositori.
Qui ricevono première V ershütt er ung di Saskia Bladt, la quale si rivela una sorpresa
per l’originalità della scrittura musicale e l’utilizzo di effetti acustici
originali, come un oscillatore artigianale a molla, e Tulisan II , della meno giovane Meng-Chia
Lin , che propone
un fantasioso miscuglio di pop e immagini sonore trasognate, che in parte
scandalizza, in parte affascina l’audience.
Una cosa a sé è la pièce Telegrams from the Nose di François Sarhan, eseguita dall’Ictus Ensemble alla Neue Nationalgalerie. Un
lavoro ironico e tagliente, stralunato, sessuoso e intelligente, suonato con
strumenti ibridi quali la chitarra e il violino-megafono, ricco di idiomi ed
elementi iconografici e un curioso gioco interattivo di ombre tra il video e la
scena. Un’opera non-convenzionale, non-occidentale, polemica e al contempo anti-intellettuale.
Utopica.
dell’inno di Maerz Musik 2010, Utopia, promette un’esperienza musicale indimenticabile sulla
falsariga dell’isola immaginata da Thomas More. Nella Grosser Saal della
Philarmonie gli elementi della Staatskappelle Weimar sono preparati con vistosi
computer, footpedal e altoparlanti. Il software processa in tempo reale alcuni
parametri del suono (sensibilmente il pitch) mentre la disposizione del live
electronic permette ai singoli performer di operare direttamente sull’output.
Molto democratico.
Inizia il concerto e per circa 30 minuti l’orchestra
gestisce bizzarri glissando collettivi, il suono degli strumenti ritorna non
credibile e produce un inatteso effetto “8 bit”, nel complesso cerimonioso e
forzato. Un plauso va senz’altro ai tecnici e gli audio-designer, che
apprestano un set up colossale “lato-performer” perfettamente funzionante e
senza il minimo intoppo. Peccato invece per un progetto di grande interesse,
che tuttavia lascia totalmente inappagata l’emozione musicale.
Per fortuna c’è Stille und Umkehr di Bernd Alois Zimmermann, un lavoro del 1970 che –
nonostante gli anni e l’assenza di computer – suona assai più elettronico del
precedente, sia dal punto di vista della struttura che da quello sonoro: in una
formazione svuotata e originale dell’orchestra, le scarne percussioni e la
fisarmonica rompono di tanto in tanto il continuum sonoro ipnotico e
stazionario degli archi, creando un intreccio musicale onirico e coinvolgente.
Il lavoro di Lucia Ronchetti presentato alla Sophiensaele sposta l’accento sul lato
negativo dell’utopia, focalizzando i concetti di margine e confine. Il suo Der
Sonne Engegen è
sembrato un esperimento di teatro musicale fresco e innovativo, con idee interessanti
sia sul piano musicale che su quello della regia e del testo. Un’opera politica
sulle frontiere, una riflessione sulla linea che separa i mondi, come una serie
infinita di cerchi concentrici. Un lavoro dialettico, utopico, radioso e al
contempo pessimista, cupo.
Come ci spiega la compositrice: “L’aspetto più
utopistico dell’opera è forse proprio l’ideazione. Se sia possibile nel dialogo
tra una librettista, un regista e un compositore realizzare un progetto di
teatro musicale che nello stesso tempo sia un documentario, un’opera che parli
di una situazione di sconforto reale. La nostra sfida, la nostra utopia è
un’utopia dell’ideazione, sperando che nel linguaggio teatrale emerga il nostro
dibattito interno e la nostra documentazione senza per questo rinunciare alla
nostra estetica e alla nostra scrittura”.
Una pièce intensa e profonda da cogliere sul duplice piano
dell’esperienza musicale e della riflessione letteraria, “non un confetto” – come dichiara la stessa Ronchetti
– ma, è vero, un
lavoro capace di creare pressione, di spingere l’audience e farsi esperire
fisicamente. Le 14 voci e gli ottoni processati con il live electronic creano
un dialogo profondo e il tempo travasa dalla musica alla scena. “Volevo
avere una formazione speciale con un suono coesivo e invadente”, spiega Ronchetti. “Un gruppo
di 5 ottoni, sia a livello visuale che acustico, dà la possibilità di rievocare
situazioni di provvisorietà e di musica popolare eseguita in spazi aperti, ma allo
stesso tempo é un ensemble completo e può generare un materiale potente ed
esplosivo, soprattutto se amplificato e trattato con il live electronic. La
scelta è stata anche dettata dalla volontà di presentare il gruppo vocale come
un ensemble a cappella, non accompagnato e, in effetti, l’interazione tra le
due realtà è di dialogo indipendente e commento reciproco. Tranne nel finale,
nella rivisitazione del Dies Irae, dove sono tutti parte dello stesso ‘naufragio’”.
Tutto accade naturalmente nello spazio disintegrato e
fatiscente della Sophiensaele, immersi in una scena povera ma incantata, che
regala azioni ed emozioni molto efficaci. Ogni elemento sembra controllato con
grande senso poetico, anche nella gestione degli elementi più tecnologici dello
spettacolo – le proiezioni e il live electronic – dei quali ad arrivare è prima
il contenuto che il mezzo in sé.
Così il video Weltall di Elisabetta Benassi , al pari di un performer, si
illumina nel cuore dello spettacolo, facendo luce su inquietanti ibridi corpo-motore
accatastati per la rottamazione, rasoterra di possibili rifiuti cosmici, mentre
sulla scena fanno ingresso astronauti impegnati in una simbolica colonizzazione
dello spazio interplanetario.
Dopo la pièce l’intero edificio della Sophiensaele viene
colonizzato da Felix Kubin e dal suo progetto Echohaus , per 6 spazi. Buona l’idea di un
concerto che accolga pubblico e performer in un grande contenitore acustico
comune, sviluppato in verticale lungo i quattro piani dell’edificio. Più scarso
invece il risultato, che lascia troppo spazio al pubblico, trasformandolo
infine in un performer pigro e imbarazzato. Mettere in relazione le
improvvisazioni dei singoli musicisti isolati nelle grosse sale o negli angoli
dell’edificio con ciò che risuona di sotto, nella sala di ascolto e regia, non
sembra abbastanza, e le sorgenti di ogni singola performance sono restituite in
una miscela sonora indistinta e impersonale.
Al Volksbühne è presentata in anteprima tedesca l’opera
Luci mie traditrici di
Salvatore Sciarrino, anch’essa al centro del focus sul teatro musicale e risultato di una
grossa coproduzione italo-tedesca. La scenografia, affidata alla celebre
artista Rebecca Horn, è minuziosamente curata e impreziosita con oggetti simbolici – come
la sedia con i 4 coltelli all’estremità delle gambe – o dall’apparizione di
animali in scena – il falco – ma pare sofferente al cospetto dei 70 minuti attraverso
cui si sviluppano i due atti dell’opera, segnati profondamente dalla quasi
totale immobilità fisica dei tre protagonisti.
Anche sul grande schermo al fondo della scena, sul quale
lo scivolare di petali e macchie di colore crea spunti pittorici molto belli e
raffinati, rimane in qualche modo confinato al di fuori dell’azione, ed è come
se i preziosi elementi di cui è composto l’insieme non riuscissero ad
amalgamare. Il dramma dei Malaspina, riadattato dallo stesso Sciarrino sul testo del 1664, Il
tradimento per l’onore di Giacinto Andrea Cicognini, è lento e invade la parte strumentale, che invece
è magnifica e brulicante e di cui avremmo voluto poter apprezzare appieno il
suono scintillante e instabile, diretto ottimamente da Beat Furrier.
Dopo il teatro, al piano superiore è la volta del John
Butcher Group ,
che si esibisce in uno dei concerti più interessanti di questa edizione.
L’ensemble, costruito intorno al nucleo jazz sax-piano-percussioni, è composto
inoltre da un’arpa, un Guzehng (strumento della tradizione popolare cinese),
sintetizzatore, contrabbasso e turntable. Ne segue un fitto dialogo, somethingtobesaid, ricercato, smodato, aereo,
violento, al confine tra Fluxus e free jazz. Mentre Thomas Lehn controlla in modo straordinario
ogni frequenza, pulsazione e oscillazione generata dal suo Synthi A, Butcher e Robair – al saxofono e alle percussioni –
sembrano duellare senza motivo per la leadership, creando di tanto in tanto
qualche cedimento nell’insieme. Il risultato è comunque un’affascinante
esplorazione dell’interazione corpo-strumento-macchina e 60 minuti di grande
respiro sonoro.
Il Collegium Novum Zürich diretto dall’eccelso Sylvain
Chambreling è
protagonista quest’anno alla Kammermusiksaal con tre magnifiche esecuzioni per
ensemble da camera e live electronic, realizzato dall’Experimentalstudio des
SWR . Al centro
del programma, Così dell’uomo ignara… di Klaus Ospald trasporta per 28 indecifrabili
minuti in un mondo sonoro sorprendente, ricco d’interazioni strumentali inedite
ricercate sul piano sonoro e mai forzate, le quali s’integrano senza soluzione
di continuità con il live electronic, trasportando sia l’ascoltatore che i
performer in un sistema complesso di piani, rimandi e connessioni mentali
inaudite. Un’esperienza d’ascolto estremamente affascinante, un piacere puro
per le orecchie.
Anche la precedente …und… (2008) di Georg Friedrich Haas
risuona nuova e
potente, nonostante le imprecisioni che ne mettono a rischio l’esecuzione
proprio nel momento della sua massima intensità. Infine, il lavoro di Klaus
Huber, Erinnere dich an Golgatha…, brano del 1977 rivisitato per
l’occasione, rimane in equilibrio precario tra le spazializzazioni
elettroacustiche, i 18 strumenti dell’ensemble e il contrabbasso solista.
Più severo e adatto agli amanti dell’esecuzione virtuosa,
sempre alla Kammermusiksaal, è il programma dell’Arditti String Quartet, con le nuove composizioni di Brian
Ferneyhough, James
Clarke, Olga
Neuworth e Hugues
Dufourt. Lavori
in sé perfetti, piuttosto vigorosi e un po’ troppo di maniera, eccezion fatta
per in the realms of the unreal di Neuwirth, che affonda l’archetto in sonorità spiazzanti e
combinazioni armoniche fantasiose, con coraggio e originalità femminile.
Molto interessante la proposta dell’Ensemble Ascolta, che nel contesto un po’ rumoroso
ma intimo della Sophienkirche esegue, tra gli altri, pezzi di giovani compositori.
Qui ricevono première V ershütt er ung di Saskia Bladt, la quale si rivela una sorpresa
per l’originalità della scrittura musicale e l’utilizzo di effetti acustici
originali, come un oscillatore artigianale a molla, e Tulisan II , della meno giovane Meng-Chia
Lin , che propone
un fantasioso miscuglio di pop e immagini sonore trasognate, che in parte
scandalizza, in parte affascina l’audience.
Una cosa a sé è la pièce Telegrams from the Nose di François Sarhan, eseguita dall’Ictus Ensemble alla Neue Nationalgalerie. Un
lavoro ironico e tagliente, stralunato, sessuoso e intelligente, suonato con
strumenti ibridi quali la chitarra e il violino-megafono, ricco di idiomi ed
elementi iconografici e un curioso gioco interattivo di ombre tra il video e la
scena. Un’opera non-convenzionale, non-occidentale, polemica e al contempo anti-intellettuale.
Utopica.
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decibel – suoni e musica
elettronica è un
progetto a cura di alessandro massobrio
Info: Maerz
Musik
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