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01
giugno 2010
ALLA DOLCE OMBRA DI MACRO E MAXXI
Politica e opinioni
Già è passata la sbornia dell’art week capitolina? L’inaugurazione del colosso di Zaha Hadid, la sorprendente nuova ala progetta da Odile Decq e l’insperato entusiasmo respirato alla fiera The Road sono oramai ricordi? Voce ai galleristi romani, che hanno parlato prima di essere travolti dalle frenetiche giornate...
C’è sempre qualcosa dietro a quello che vedi; a volte è
qualcosa in più, a volte è qualcosa in meno. Ed è quando la cosa in meno cerca
di apparire in più, c’è qualcosa che non va. Nello sviluppo dell’arte
contemporanea capitolina la contemporaneità ha preso il sopravvento, le realtà
artistiche private sembrano sgusciare fuori come piccoli pulcini pronti a
buttarsi nel granaio dell’arte-fatto, mentre le istituzioni le guardano
dall’alto del loro atteso prestigio.
Ma cosa si aspettano dall’arte oggi? E soprattutto, cosa
si intende per arte? Exibart ha interrogato alcune gallerie romane per cercare, o
perlomeno sperare, di fare un po’ di luce in un sistema che vacilla
silenziosamente tra l’impresa dell’arte di cultura e la cultura dell’arte
d’impresa, senza spesso avere la consapevolezza piena di cosa siano l’uno e
cosa l’altra.
Soprattutto quando “da un po’ di tempo a questa parte
la cultura deve produrre economia”, spiega Maurizio Minuti di VM21, il quale senza
esitazione chiarisce subito che “l’arte è una merce in quanto è un prodotto
finito e necessita di denaro per essere scambiata”, rispondendo alla domanda che la
identifica o meno a un prodotto. Concorda anche Paola Capata di Monitor:
“Gestisco una galleria d’arte dunque mi sembra ovvio che il mercato sia una
delle issue legate alla mia attività, che presta comunque molta attenzione alla
circolazione e destinazione delle opere”.
Ebbene, l’opera d’arte è una merce a tutti gli effetti,
che entra in contatto con un mercato silenzioso, necessario però alla sua
veicolazione: “Dell’arte si deve fare necessariamente mercato. Purtroppo
figure insolite, come collezionisti con gallerie casalinghe o fantomatiche corporazioni
da scampagnata ai castelli rendono il lavoro a noi galleristi non proprio
semplice e con difficoltà di promozione gigantesche”, continua Minuti. Spesso infatti
quel mercato sfrutta l’aurea della moralità e coscienza artistica, come ci
spiegano a The Gallery Apart: “È innegabile che l’unicità (o quasi)
dell’opera, l’aura dell’artista e i tanti altri tasselli che contribuiscono a
delineare la specialità della merce opera d’arte sono alla base anche di
evidenti fenomeni speculativi, che certamente non giovano alla causa della
centralità del valore culturale dell’arte contemporanea. L’opera d’arte è una
merce che reca in sé un valore aggiunto offerto dall’artista, che infonde in
essa l’espressione della sua creatività”.
Ed è proprio qui che entra in gioco l’attenzione al tipo
di “prodotto” che si intende promuovere, che non è un elettrodomestico o un
nuovo modello di iPod dunque, ma ha il valore aggiunto di una espressività
creativa capace di contenere razionalmente un sentimento “artistico”. La sua predisposizione
ad arricchire il paese si insinua così nell’istanza veritiera che imbarazza il
valore culturale dell’opera con quello monetario.
Ed è qui che entrano in gioco i musei. La problematica
della “cultura del fare arte” è strettamente connessa al termine “cultura” di
cui ancora oggi si fa molta fatica a darne un giudizio pieno, un giudizio
totalizzante e universale. Tra “la cultura nel senso di condizione di quel
che viene coltivato e la cultura come attività del coltivare” (Pierre Bourdieu), nel sistema
dell’arte essa viene allevata da una cerchia ristretta di gallerie che, al
contrario dei musei, non esibendo una “raccolta temporanea” di oggetti
storicamente riconosciuti, devono fare i conti con l’innovazione e la
consapevolezza di saper scegliere e proporre, in un panorama
artistico-contemporaneo italiano retrogrado.
“Il nostro impegno ha una valenza culturale di base
fondata sulla scelta di campo operata sin dal primo momento: essere all’altezza
della parte più matura del mercato, accettandone le regole organizzative, ma
proponendo una programmazione totalmente slegata da valutazioni di opportunismo
e fondata invece su un giudizio di valore artistico, degli artisti
rappresentati. Questi ultimi ci mettono la sostanza, la galleria ci mette il metodo.
Questo significa produrre cultura”. The Gallery Apart è ben salda nel suo ruolo, cercando
il più possibile di allontanare il clichè “dell’opera d’arte quale bene di
lusso anziché prodotto culturale”.
La predisposizione di Nicola Furini della Galleria
Furini poi non è da meno: “Il termine cultura si riferisce a un concetto
molto ampio, dove io metto al primo posto lo scopo di arricchire il bagaglio di
conoscenze di ognuno per accrescere lo spessore intellettuale. Gli artisti
oggi, quelli veri, hanno molto da insegnarci e fare cultura è elaborare
un’idea, ma anche favorirne la divulgazione”. In merito quindi a tali propositi, l’avvento del
nuovo polo culturale per l’arte contemporanea a Roma ha recalcitrato la sua
attenzione per un intero anno prima della sua ufficiale apertura: il Maxxi è
finalmente tra noi, annoverato alla contemporaneità con le due sedi del Macro e
una costruzione che fa parlare di sé quasi quanto il suo “opening”. “Dal
Maxxi mi aspetto che faccia ombra con la sua mole. Del resto sarà difficile
vedere le opere d’arte al suo interno”, scherza Minuti che, sorridendo, identifica la
costruzione di Zaha Hadid come un museo d’architettura. “Il Maxxi e il Macro
sono due realtà museali che, se invece di Roma, fossero sorte in qualsiasi
altra capitale europea, avrebbero la risonanza che giustamente meriterebbe un
museo d’arte”, fa
giustamente notare Furini. “Poi tutto dipenderà dagli investimenti che
verranno fatti e dalle scelte dei curatori.”
Forse un po’ di fiducia non guasterebbe ed è da Massimo
Rosa e dagli interni del giovane Ingresso Pericoloso che si incrociano
le dita: “Da tempo si sente la volontà in questa città di volersi realmente
affermare come punto di riferimento per la sperimentazione e ricerca nell’arte
contemporanea. In quest’ottica è fondamentale la nascita del Maxxi e il rinnovo
del Macro, specialmente se riusciranno (così come è stato annunciato) a fare
sistema e a lavorare su una piattaforma comune, con l’obiettivo di attrarre
investimenti e un sempre più crescente numero di visitatori, sia italiani che
stranieri”.
Anche Giorgio Galotti di Co2 non sembra allontanarsi da una
speranzosa spinta verso la contemporaneità: “L’apertura al contemporaneo è
un sintomo di rinascita culturale e di intuizione delle potenzialità di Roma. Bisogna
solo sperare in un coinvolgimento totale del Comune e della Regione e in un
intuito più internazionale dei direttori”.
La voce storica di Magazzino infine sembra
consolidare le speranze, senza allontanarsi troppo dai pareri comuni: “Dopo
anni di galleggiamento delle istituzioni, probabilmente avremo un sistema di
riferimento in grado di reggere il confronto con le realtà europee più
consolidate. Finalmente. Molto dipenderà anche dalla gestione dei due musei e
dei rispettivi campi d’azione, il Maxxi, essendo il Museo Nazionale, dovrà
necessariamente combinare un programma di qualità con la promozione costante
degli artisti italiani”.
Ma la strada è lunga e la differenza tra pubblico e
privato resta ad ogni modo un ostacolo non indifferente, soprattutto per le
gallerie più giovani che non godono di artisti “collezionati”, come nel caso di
Magazzino: “Da Jorge Peris a Sislej Xhafa e Vedovamazzei, abbiamo diversi
artisti della galleria presenti nelle mostre di apertura dei due musei. Questo
ci fa chiaramente piacere”. Interessante
in questo senso è l’intervento di Galotti che, per cercare di convogliare i
dialetti differenti dell’arte, lancia un appello: “Perché non dedicare una
project room gestita a rotazione dalle gallerie romane che fino ad oggi hanno
investito nella crescita di questa città? Dopotutto quegli spazi sono anche
nostri”.
Come dice Paola Capata: “Faccio mio un motto di Woody
Allen: ‘Whatever works’. E da parte della galleria, massima collaborazione
affinché le cose funzionino”.
qualcosa in più, a volte è qualcosa in meno. Ed è quando la cosa in meno cerca
di apparire in più, c’è qualcosa che non va. Nello sviluppo dell’arte
contemporanea capitolina la contemporaneità ha preso il sopravvento, le realtà
artistiche private sembrano sgusciare fuori come piccoli pulcini pronti a
buttarsi nel granaio dell’arte-fatto, mentre le istituzioni le guardano
dall’alto del loro atteso prestigio.
Ma cosa si aspettano dall’arte oggi? E soprattutto, cosa
si intende per arte? Exibart ha interrogato alcune gallerie romane per cercare, o
perlomeno sperare, di fare un po’ di luce in un sistema che vacilla
silenziosamente tra l’impresa dell’arte di cultura e la cultura dell’arte
d’impresa, senza spesso avere la consapevolezza piena di cosa siano l’uno e
cosa l’altra.
Soprattutto quando “da un po’ di tempo a questa parte
la cultura deve produrre economia”, spiega Maurizio Minuti di VM21, il quale senza
esitazione chiarisce subito che “l’arte è una merce in quanto è un prodotto
finito e necessita di denaro per essere scambiata”, rispondendo alla domanda che la
identifica o meno a un prodotto. Concorda anche Paola Capata di Monitor:
“Gestisco una galleria d’arte dunque mi sembra ovvio che il mercato sia una
delle issue legate alla mia attività, che presta comunque molta attenzione alla
circolazione e destinazione delle opere”.
Ebbene, l’opera d’arte è una merce a tutti gli effetti,
che entra in contatto con un mercato silenzioso, necessario però alla sua
veicolazione: “Dell’arte si deve fare necessariamente mercato. Purtroppo
figure insolite, come collezionisti con gallerie casalinghe o fantomatiche corporazioni
da scampagnata ai castelli rendono il lavoro a noi galleristi non proprio
semplice e con difficoltà di promozione gigantesche”, continua Minuti. Spesso infatti
quel mercato sfrutta l’aurea della moralità e coscienza artistica, come ci
spiegano a The Gallery Apart: “È innegabile che l’unicità (o quasi)
dell’opera, l’aura dell’artista e i tanti altri tasselli che contribuiscono a
delineare la specialità della merce opera d’arte sono alla base anche di
evidenti fenomeni speculativi, che certamente non giovano alla causa della
centralità del valore culturale dell’arte contemporanea. L’opera d’arte è una
merce che reca in sé un valore aggiunto offerto dall’artista, che infonde in
essa l’espressione della sua creatività”.
Ed è proprio qui che entra in gioco l’attenzione al tipo
di “prodotto” che si intende promuovere, che non è un elettrodomestico o un
nuovo modello di iPod dunque, ma ha il valore aggiunto di una espressività
creativa capace di contenere razionalmente un sentimento “artistico”. La sua predisposizione
ad arricchire il paese si insinua così nell’istanza veritiera che imbarazza il
valore culturale dell’opera con quello monetario.
Ed è qui che entrano in gioco i musei. La problematica
della “cultura del fare arte” è strettamente connessa al termine “cultura” di
cui ancora oggi si fa molta fatica a darne un giudizio pieno, un giudizio
totalizzante e universale. Tra “la cultura nel senso di condizione di quel
che viene coltivato e la cultura come attività del coltivare” (Pierre Bourdieu), nel sistema
dell’arte essa viene allevata da una cerchia ristretta di gallerie che, al
contrario dei musei, non esibendo una “raccolta temporanea” di oggetti
storicamente riconosciuti, devono fare i conti con l’innovazione e la
consapevolezza di saper scegliere e proporre, in un panorama
artistico-contemporaneo italiano retrogrado.
“Il nostro impegno ha una valenza culturale di base
fondata sulla scelta di campo operata sin dal primo momento: essere all’altezza
della parte più matura del mercato, accettandone le regole organizzative, ma
proponendo una programmazione totalmente slegata da valutazioni di opportunismo
e fondata invece su un giudizio di valore artistico, degli artisti
rappresentati. Questi ultimi ci mettono la sostanza, la galleria ci mette il metodo.
Questo significa produrre cultura”. The Gallery Apart è ben salda nel suo ruolo, cercando
il più possibile di allontanare il clichè “dell’opera d’arte quale bene di
lusso anziché prodotto culturale”.
La predisposizione di Nicola Furini della Galleria
Furini poi non è da meno: “Il termine cultura si riferisce a un concetto
molto ampio, dove io metto al primo posto lo scopo di arricchire il bagaglio di
conoscenze di ognuno per accrescere lo spessore intellettuale. Gli artisti
oggi, quelli veri, hanno molto da insegnarci e fare cultura è elaborare
un’idea, ma anche favorirne la divulgazione”. In merito quindi a tali propositi, l’avvento del
nuovo polo culturale per l’arte contemporanea a Roma ha recalcitrato la sua
attenzione per un intero anno prima della sua ufficiale apertura: il Maxxi è
finalmente tra noi, annoverato alla contemporaneità con le due sedi del Macro e
una costruzione che fa parlare di sé quasi quanto il suo “opening”. “Dal
Maxxi mi aspetto che faccia ombra con la sua mole. Del resto sarà difficile
vedere le opere d’arte al suo interno”, scherza Minuti che, sorridendo, identifica la
costruzione di Zaha Hadid come un museo d’architettura. “Il Maxxi e il Macro
sono due realtà museali che, se invece di Roma, fossero sorte in qualsiasi
altra capitale europea, avrebbero la risonanza che giustamente meriterebbe un
museo d’arte”, fa
giustamente notare Furini. “Poi tutto dipenderà dagli investimenti che
verranno fatti e dalle scelte dei curatori.”
Forse un po’ di fiducia non guasterebbe ed è da Massimo
Rosa e dagli interni del giovane Ingresso Pericoloso che si incrociano
le dita: “Da tempo si sente la volontà in questa città di volersi realmente
affermare come punto di riferimento per la sperimentazione e ricerca nell’arte
contemporanea. In quest’ottica è fondamentale la nascita del Maxxi e il rinnovo
del Macro, specialmente se riusciranno (così come è stato annunciato) a fare
sistema e a lavorare su una piattaforma comune, con l’obiettivo di attrarre
investimenti e un sempre più crescente numero di visitatori, sia italiani che
stranieri”.
Anche Giorgio Galotti di Co2 non sembra allontanarsi da una
speranzosa spinta verso la contemporaneità: “L’apertura al contemporaneo è
un sintomo di rinascita culturale e di intuizione delle potenzialità di Roma. Bisogna
solo sperare in un coinvolgimento totale del Comune e della Regione e in un
intuito più internazionale dei direttori”.
La voce storica di Magazzino infine sembra
consolidare le speranze, senza allontanarsi troppo dai pareri comuni: “Dopo
anni di galleggiamento delle istituzioni, probabilmente avremo un sistema di
riferimento in grado di reggere il confronto con le realtà europee più
consolidate. Finalmente. Molto dipenderà anche dalla gestione dei due musei e
dei rispettivi campi d’azione, il Maxxi, essendo il Museo Nazionale, dovrà
necessariamente combinare un programma di qualità con la promozione costante
degli artisti italiani”.
Ma la strada è lunga e la differenza tra pubblico e
privato resta ad ogni modo un ostacolo non indifferente, soprattutto per le
gallerie più giovani che non godono di artisti “collezionati”, come nel caso di
Magazzino: “Da Jorge Peris a Sislej Xhafa e Vedovamazzei, abbiamo diversi
artisti della galleria presenti nelle mostre di apertura dei due musei. Questo
ci fa chiaramente piacere”. Interessante
in questo senso è l’intervento di Galotti che, per cercare di convogliare i
dialetti differenti dell’arte, lancia un appello: “Perché non dedicare una
project room gestita a rotazione dalle gallerie romane che fino ad oggi hanno
investito nella crescita di questa città? Dopotutto quegli spazi sono anche
nostri”.
Come dice Paola Capata: “Faccio mio un motto di Woody
Allen: ‘Whatever works’. E da parte della galleria, massima collaborazione
affinché le cose funzionino”.
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[exibart]
Sarebbe bello se in architettura si potesse applicare la modalità della scrittura. Si scrive qualcosa poi, prima di pubblicarlo, un editor suggerisce che questo è meglio toglierlo, questo è inutile, questo va completamente riscritto, qui non si capisce nulla e così via; di solito si tende a semplificare e a chiarire i concetti. Il MAXXI avrebbe avuto bisogno di una cosa del genere.
PS.: La foto dall’alto della lobby del MAXXI pubblicata sul catalogo, il desk, mi ricorda molto una paletta del water design, o no?