Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
24
febbraio 2010
MA BUGO IL CANTANTE?
Personaggi
Trasversale, diretto, inclassificabile. Chi è il cantautore? Quale l’artista visivo? Dal palco alla dimensione white cube degli spazi espositivi. L’arte oltre i ruoli, le specializzazioni e le competenze tecniche. Avere le idee chiare e muoversi su terreni diversi. Incontro con un visionario che si spaccia per dilettante. Da venerdì in mostra a Roma. Con la curatela di chi l’ha intervistato per Exibart...
Come
presentarti? Come Bugo in arte Cristian Bugatti? Oppure come Cristian Bugatti e
basta?
Bugo
è lo pseudonimo che utilizzo come cantautore. Ho sempre avuto difficoltà a
propormi con un nome. Nel ‘93 ho iniziato fondando un gruppo chiamato Quaxo, ma
ero io che componevo tutti i brani. Sciolto il gruppo nel ‘96, ho realizzato un
cd anonimo. Ho fatto diverse serate con nomi diversi, poi dal ‘98 ho deciso di propormi
come Bugo. È un nome d’arte? Forse. Per molti è il mio unico nome, è un brand.
Come artista visivo faccio mostre sia come Bugo che come Cristian Bugatti e non
credo che sia importante, mi diverte questa cosa indefinita. Spesso faccio
decidere a chi cura la mostra.
Cosa
è stato determinante nel tuo percorso di avvicinamento all’arte visiva? C’entra
qualcosa il fatto che nell’era della musica in formato mp3 le copertine dei
dischi non le guarda più nessuno? Quando hai capito di poter fare sul serio?
Il
mio primo vero interesse è stata la poesia, in particolare quella di Rimbaud.
Durante il liceo ho tenuto un paio di lezioni di poesia, in cui non insegnavo
nulla ma invitavo a scrivere poesie, liberamente e di qualsiasi tipo. Era una
cosa decisamente punk. Fu un successo. Durante i giorni di autogestione fu la
classe più numerosa, ed erano quasi tutte ragazze! Poi mi sono avvicinato alla
musica, ho scritto canzoni. Mi sembrava un bel modo per vivere. Ho cominciato a
lavorare da mio padre, una scusa per non lavorare veramente. Alla sera scrivevo
poesie e canzoni. Realizzavo anche collage e sculture con gli scarti di ottone
che prelevavo dalla ditta di mio padre.
Da
subito trasversale. Poi che è successo?
Nel
2000 mi sono trasferito a Milano per dedicarmi completamente a me stesso. Ho
fatto qualche disco. Nel 2005 mi è tornata la voglia di dipingere, mi
incontravo con il pittore Massimo Caccia nel suo studio. È stato un disastro,
non mi veniva nulla, ho buttato via tutto. In quel momento di frustrazione mi è
venuta un’idea: curare una mostra-tributo a Massimo Caccia, inscenando la sua
scomparsa. La cosa è continuata così, in modo naturale, ho fatto vedere qualche
mia cosa a diversi curatori, ho fatto qualche mostra.
A
me sembra che il momento sia propizio per un operare eterodosso come il tuo.
Anzi, considerato che attualmente nell’arte contemporanea si registrano un
rinnovato interesse per la performance e un avvicinamento ad ambiti prossimi
alle arti sceniche, questo tuo spostamento in senso opposto, dal palco alla
dimensione white cube dello spazio espositivo, risulta particolarmente
insolito e degno di attenzione. Che idea ti sei fatto del cosiddetto “sistema
dell’arte (contemporanea)”? Sei consapevole che nell’Italia dei settarismi intellettuali
passare per art-rocker può comunque costituire un handicap?
Gli
handicap mi interessano, se voglio usare questa parola per intendere
menomazione, svantaggio, difetto, diversità. Come musicista non mi sono mai
sentito parte di una scena underground o viceversa mainstream. Mi sento sempre fuori posto, ma
questo non mi impedisce di esprimermi. Non credo che un artista decida di
esprimersi in base a quello che pensano gli altri. Lo fa e basta, non ha via di
scampo, deve farlo. Io credo di occuparmi di arte un po’ per risolvere i miei
problemi, un po’ per evadere, un po’ per reazione, un po’ per pigrizia, un po’
per sentimentalismo. Ho qualche idea, la propongo e poi sta al “sistema”
decidere se accettarmi o no. Io mi considero un dilettante, è relativamente da
poco tempo che mi occupo di visuale in senso stretto, ma ho ancora molte cose
che voglio analizzare. Il fatto di essere conosciuto come musicista può essere
un vantaggio perché può suscitare interesse in chi mi conosce, ma non è detto
che le mie idee vengano accettate solo per questo. Al tempo stesso, ci sarà
sicuramente qualcuno scettico, ma questo non mi preoccupa, lo capisco. Tutti mi
dicono che è difficile fare arte in Italia, ma queste sono cose che ho sempre
sentito dire anche dai musicisti. La mia impressione è che esistano gruppi
chiusi, che invece di confrontarsi si fanno la guerra. Per fortuna ci sono le
persone singole, che magari fanno fatica perché isolate, ma con cui c’è il
rischio di trovare un terreno di analisi comune.
Nel
2009 si sono viste in Italia tre mostre riconducibili ad altrettanti filoni
della produzione artistica più recente. Sto parlando dei progetti presentati a
Venezia da Daniel Birnbaum (Making worlds) e dalla coppia Luca Beatrice/Beatrice
Buscaroli (Collaudi), e a Roma dalla più giovane Kathy Grayson (New York Minute). Quale delle tre proposte hai
trovato più interessante e coraggiosa? Dove sta andando secondo te l’arte del
nostro tempo? Nuova classicità, localismo o psichedelia hipster?
Ognuna
delle tre mostre aveva qualcosa che mi ha colpito. In generale ho notato una
temperatura troppo alta, nel senso che c’erano esposte troppe opere, soffocavo
in quei luoghi. Collaudi ad esempio mi ha dato un senso di claustrofobia, così scuro e denso. New
York Minute è
stato il tentativo di rappresentare una scena. Forse è la mostra che mi è
piaciuta di più. C’erano delle cose notevoli. Anche il lavoro di Sissi a
Venezia mi ha colpito. Non so dirti dove sta andando l’arte. Dico solo che mi
sembra di sentire che c’è bisogno di maggior introspezione, gli artisti si
stanno scrollando di dosso le macerie degli anni zero, c’è questa atmosfera
spirituale che sento nell’aria da diversi anni. Ricordo che nel 2003 ho
registrato canzoni introspettive che hanno dato una svolta al mio modo di fare
musica. Certamente c’è chi insegue una nuova classicità, ma mi mette ansia il
pensiero di guardarmi indietro. Personalmente mi interessa molto il localismo,
da sempre, “sono qui e mi muovo qui”, il localismo mi aiuta a sentirmi parte
del mondo, non è isolazionismo, è che preferisco crearmi un mondo attorno per
non perdermi nell’oceano delle informazioni globalizzate. La psichedelia
hipster è un fenomeno americano per lo più, tuttavia credo che risenta di quel
bisogno di spiritualità cui ti accennavo.
Come
songwriter
lavori da anni con le parole. Guardando alla storia dell’arte contemporanea
avrai avuto modo di constatare la crucialità dell’investigazione sul linguaggio
verbale, che è elemento tipico della migliore tradizione concettualista (da
Boetti a Weiner, da Kosuth a Nauman, fino a Jenny Holzer e oltre). In che
misura e con quale valenza la parola come ambito di intervento si ritrova nella
tua attività di artista visivo?
Ah,
la parola! Io adoro leggere, mi piace scrivere, ho sempre con me un taccuino, a
casa sono pieno di taccuini iniziati e non finiti, con disegni schizzi poesie
conti per la banca, insomma la mia vita. Con le parole si può fare di tutto.
Dal faceto al serioso, dall’archivistico all’immaginativo, dal surreale al
giornalistico. La parola è anche un terreno di indagine che mi interessa e mi
diverte. Come artista visivo ho fatto qualche cosa con la parola, ma non mi
vincolo, cerco di muovermi su diversi terreni. Il mio processo è molto
istintivo. Mi viene in mente Magritte, un artista che amo. I titoli dei suoi
quadri erano incredibili, davano il giusto senso del mistero, lui adorava la
poesia.
Troppo
spesso si dimentica che “idea” vuol dire “cosa da vedere”. In questo senso
trovo coerente che un visionario si ponga di là delle specializzazioni, dei ruoli
e delle competenze tecniche. Rispetto alle solite mostre di disegni del regista
X, o di dipinti dell’attore o del cantante Y, la novità almeno in Italia della
tua proposta consiste in una pratica artistica che in nome della preminenza
dell’idea esclude connotazioni media-specifiche. In due battute come
introdurresti il tuo lavoro?
Ho
degli interessi, mi vengono delle idee e cerco di realizzarle. Effettivamente
non ho competenze tecniche, non ho frequentato nessuna accademia o scuola
d’arte. Molte mie cose visuali le faccio realizzare da specialisti, ma non è
detto che non ci metta anche “la mia mano”. Nella mia pratica mischio concetto
con improvvisazione, non posso fare a meno della mia spontaneità. C’è anche la
possibilità di cambiamenti all’ultimo momento.
presentarti? Come Bugo in arte Cristian Bugatti? Oppure come Cristian Bugatti e
basta?
Bugo
è lo pseudonimo che utilizzo come cantautore. Ho sempre avuto difficoltà a
propormi con un nome. Nel ‘93 ho iniziato fondando un gruppo chiamato Quaxo, ma
ero io che componevo tutti i brani. Sciolto il gruppo nel ‘96, ho realizzato un
cd anonimo. Ho fatto diverse serate con nomi diversi, poi dal ‘98 ho deciso di propormi
come Bugo. È un nome d’arte? Forse. Per molti è il mio unico nome, è un brand.
Come artista visivo faccio mostre sia come Bugo che come Cristian Bugatti e non
credo che sia importante, mi diverte questa cosa indefinita. Spesso faccio
decidere a chi cura la mostra.
Cosa
è stato determinante nel tuo percorso di avvicinamento all’arte visiva? C’entra
qualcosa il fatto che nell’era della musica in formato mp3 le copertine dei
dischi non le guarda più nessuno? Quando hai capito di poter fare sul serio?
Il
mio primo vero interesse è stata la poesia, in particolare quella di Rimbaud.
Durante il liceo ho tenuto un paio di lezioni di poesia, in cui non insegnavo
nulla ma invitavo a scrivere poesie, liberamente e di qualsiasi tipo. Era una
cosa decisamente punk. Fu un successo. Durante i giorni di autogestione fu la
classe più numerosa, ed erano quasi tutte ragazze! Poi mi sono avvicinato alla
musica, ho scritto canzoni. Mi sembrava un bel modo per vivere. Ho cominciato a
lavorare da mio padre, una scusa per non lavorare veramente. Alla sera scrivevo
poesie e canzoni. Realizzavo anche collage e sculture con gli scarti di ottone
che prelevavo dalla ditta di mio padre.
Da
subito trasversale. Poi che è successo?
Nel
2000 mi sono trasferito a Milano per dedicarmi completamente a me stesso. Ho
fatto qualche disco. Nel 2005 mi è tornata la voglia di dipingere, mi
incontravo con il pittore Massimo Caccia nel suo studio. È stato un disastro,
non mi veniva nulla, ho buttato via tutto. In quel momento di frustrazione mi è
venuta un’idea: curare una mostra-tributo a Massimo Caccia, inscenando la sua
scomparsa. La cosa è continuata così, in modo naturale, ho fatto vedere qualche
mia cosa a diversi curatori, ho fatto qualche mostra.
A
me sembra che il momento sia propizio per un operare eterodosso come il tuo.
Anzi, considerato che attualmente nell’arte contemporanea si registrano un
rinnovato interesse per la performance e un avvicinamento ad ambiti prossimi
alle arti sceniche, questo tuo spostamento in senso opposto, dal palco alla
dimensione white cube dello spazio espositivo, risulta particolarmente
insolito e degno di attenzione. Che idea ti sei fatto del cosiddetto “sistema
dell’arte (contemporanea)”? Sei consapevole che nell’Italia dei settarismi intellettuali
passare per art-rocker può comunque costituire un handicap?
Gli
handicap mi interessano, se voglio usare questa parola per intendere
menomazione, svantaggio, difetto, diversità. Come musicista non mi sono mai
sentito parte di una scena underground o viceversa mainstream. Mi sento sempre fuori posto, ma
questo non mi impedisce di esprimermi. Non credo che un artista decida di
esprimersi in base a quello che pensano gli altri. Lo fa e basta, non ha via di
scampo, deve farlo. Io credo di occuparmi di arte un po’ per risolvere i miei
problemi, un po’ per evadere, un po’ per reazione, un po’ per pigrizia, un po’
per sentimentalismo. Ho qualche idea, la propongo e poi sta al “sistema”
decidere se accettarmi o no. Io mi considero un dilettante, è relativamente da
poco tempo che mi occupo di visuale in senso stretto, ma ho ancora molte cose
che voglio analizzare. Il fatto di essere conosciuto come musicista può essere
un vantaggio perché può suscitare interesse in chi mi conosce, ma non è detto
che le mie idee vengano accettate solo per questo. Al tempo stesso, ci sarà
sicuramente qualcuno scettico, ma questo non mi preoccupa, lo capisco. Tutti mi
dicono che è difficile fare arte in Italia, ma queste sono cose che ho sempre
sentito dire anche dai musicisti. La mia impressione è che esistano gruppi
chiusi, che invece di confrontarsi si fanno la guerra. Per fortuna ci sono le
persone singole, che magari fanno fatica perché isolate, ma con cui c’è il
rischio di trovare un terreno di analisi comune.
Nel
2009 si sono viste in Italia tre mostre riconducibili ad altrettanti filoni
della produzione artistica più recente. Sto parlando dei progetti presentati a
Venezia da Daniel Birnbaum (Making worlds) e dalla coppia Luca Beatrice/Beatrice
Buscaroli (Collaudi), e a Roma dalla più giovane Kathy Grayson (New York Minute). Quale delle tre proposte hai
trovato più interessante e coraggiosa? Dove sta andando secondo te l’arte del
nostro tempo? Nuova classicità, localismo o psichedelia hipster?
Ognuna
delle tre mostre aveva qualcosa che mi ha colpito. In generale ho notato una
temperatura troppo alta, nel senso che c’erano esposte troppe opere, soffocavo
in quei luoghi. Collaudi ad esempio mi ha dato un senso di claustrofobia, così scuro e denso. New
York Minute è
stato il tentativo di rappresentare una scena. Forse è la mostra che mi è
piaciuta di più. C’erano delle cose notevoli. Anche il lavoro di Sissi a
Venezia mi ha colpito. Non so dirti dove sta andando l’arte. Dico solo che mi
sembra di sentire che c’è bisogno di maggior introspezione, gli artisti si
stanno scrollando di dosso le macerie degli anni zero, c’è questa atmosfera
spirituale che sento nell’aria da diversi anni. Ricordo che nel 2003 ho
registrato canzoni introspettive che hanno dato una svolta al mio modo di fare
musica. Certamente c’è chi insegue una nuova classicità, ma mi mette ansia il
pensiero di guardarmi indietro. Personalmente mi interessa molto il localismo,
da sempre, “sono qui e mi muovo qui”, il localismo mi aiuta a sentirmi parte
del mondo, non è isolazionismo, è che preferisco crearmi un mondo attorno per
non perdermi nell’oceano delle informazioni globalizzate. La psichedelia
hipster è un fenomeno americano per lo più, tuttavia credo che risenta di quel
bisogno di spiritualità cui ti accennavo.
Come
songwriter
lavori da anni con le parole. Guardando alla storia dell’arte contemporanea
avrai avuto modo di constatare la crucialità dell’investigazione sul linguaggio
verbale, che è elemento tipico della migliore tradizione concettualista (da
Boetti a Weiner, da Kosuth a Nauman, fino a Jenny Holzer e oltre). In che
misura e con quale valenza la parola come ambito di intervento si ritrova nella
tua attività di artista visivo?
Ah,
la parola! Io adoro leggere, mi piace scrivere, ho sempre con me un taccuino, a
casa sono pieno di taccuini iniziati e non finiti, con disegni schizzi poesie
conti per la banca, insomma la mia vita. Con le parole si può fare di tutto.
Dal faceto al serioso, dall’archivistico all’immaginativo, dal surreale al
giornalistico. La parola è anche un terreno di indagine che mi interessa e mi
diverte. Come artista visivo ho fatto qualche cosa con la parola, ma non mi
vincolo, cerco di muovermi su diversi terreni. Il mio processo è molto
istintivo. Mi viene in mente Magritte, un artista che amo. I titoli dei suoi
quadri erano incredibili, davano il giusto senso del mistero, lui adorava la
poesia.
Troppo
spesso si dimentica che “idea” vuol dire “cosa da vedere”. In questo senso
trovo coerente che un visionario si ponga di là delle specializzazioni, dei ruoli
e delle competenze tecniche. Rispetto alle solite mostre di disegni del regista
X, o di dipinti dell’attore o del cantante Y, la novità almeno in Italia della
tua proposta consiste in una pratica artistica che in nome della preminenza
dell’idea esclude connotazioni media-specifiche. In due battute come
introdurresti il tuo lavoro?
Ho
degli interessi, mi vengono delle idee e cerco di realizzarle. Effettivamente
non ho competenze tecniche, non ho frequentato nessuna accademia o scuola
d’arte. Molte mie cose visuali le faccio realizzare da specialisti, ma non è
detto che non ci metta anche “la mia mano”. Nella mia pratica mischio concetto
con improvvisazione, non posso fare a meno della mia spontaneità. C’è anche la
possibilità di cambiamenti all’ultimo momento.
articoli
correlati
Bugo
e la Fender
a
cura di pericle guaglianone
*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n.
63. Te l’eri perso? Abbonati!
dal 26 febbraio al 31 marzo 2010
Cristian
Bugatti
a cura di Pericle Guaglianone
VM21artecontemporanea
Via della
Vetrina, 21 (zona piazza Navona) – 00186 Roma
Orario: da
lunedì a venerdì ore 11-19,30; sabato ore 16.30-19.30
Ingresso
libero
Info: tel./fax
+39 0668891365; info@vm21contemporanea.com; www.vm21contemporanea.com
Motelsalieri
Via Lanza,
162 (rione Monti) – 00184 Roma
Orario: da
lunedì a sabato ore 15-19.30
Ingresso
libero
Catalogo
disponibile
Info: tel. +39 0648989966; fax +390648930136; guest@motelsalieri.org; www.motelsalieri.org
[exibart]
in miniera (in Cina)
un favore a Guaglianone?