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Intervista a Andres Serrano – Holy Works
altrecittà
Il nuovo progetto per la Galleria Pack di Milano, Andres Serrano propone una nuova rivisitazione dell’iconografia religiosa. Una mostra in cui, tra le altre opere, l’artista si confronta con L’ultima cena di Leonardo, in una inedita reinterpretazione che prosegue un lungo percorso dedicato alle storie della religione cristiana. Non c’è intento trasgressivo. Anzi, Serrano dichiara apertamente di voler essere il nuovo Caravaggio e di fornire un aggiornamento di una lunga storia che si fonda sulla pittura italiana. Non per dissacrare, quindi. Con il desiderio, nemmeno troppo velato di voler entrare nella raccolta dei Musei Vaticani, e di proporsi, sulla schiera di grandi artisti del rinascimento come ritrattista del Papa, al pari di Velázquez e di Francis Bacon. Angelo Capasso lo ha incontrato per una conversazione che chiarisce il suo lavoro presente e le dominanti della sua opera...
di redazione
Andres sei Cattolico?
Sono Cristiano, più che Cattolico. Un cattolico, per me, è qualcuno che va regolarmente in Chiesa, si confessa… Non mi confesso ormai da più di quarantanni. Mi ritengo un Cristiano perché vado in Chiesa, e per visitare la Chiesa. Di solito poi, vado in Chiesa soltanto in Europa, perché in Europa andare in Chiesa è come visitare un Museo. In America le chiese non sono interessanti.
Credi che il termine trasgressione sia adatto al tuo lavoro?
Penso che sia un termine adatto, molto più adatto che blasfemo ovviamente.
E nel caso in cui si usasse il termine blasfemo, ti riterresti offeso?
Mi riterrei offeso. Anche se ormai ci sono abituato. In America è un termine usato abitualmente per il mio lavoro. E’ usato da persone che non so nemmeno se siano dei Cristiani o dei veri credenti, ma poi mi etichettano come l’AntiCristo.
Pensi che il tuo lavoro seduca la gente perché parla di aspetti remoti della vita?
Mi piace sedurre con l’immagine e allo stesso tempo provocare con gli aspetti concettuali che si nascondono dietro l’immagine. Nella mia mostra recente dal titolo “Shit” l’aspetto provocatorio era soprattutto concettuale: presentava degli ingrandimenti della “merda” che, sebbene fossero delle immagini astratte molto belle, il fatto che in realtà fossero “merda” metteva a disagio gli spettatori.
Rispetto ai lavori di The Morgue e History of Sex, mi pare che negli ultimi anni, e soprattutto con questi ultimi lavori, prevalga una linea più limpida e meno tragica nel tuo lavoro. Certamente meno provocatoria. A cosa è dovuto questo cambiamento?
Non mi ha mai interessato la provocazione fine a se stessa. La provocazione viene automaticamente e in modo naturale in alcuni lavori. In queste nuove opere ritengo che ci sia una buona dose di dramma, con molti riferimenti sotterranei. Non credo che questa mostra sia particolarmente trasgressiva, ma piuttosto una mostra coinvolgente. E’ ciò che mi interessa di più, coinvolgere piuttosto che provocare.
Il termine coinvolgimento ha anche una connotazione politica…
Non credo che ci sia una intenzione politica nel mio lavoro. O meglio, lascio ad altri dirlo. Considero l’aspetto politico una limitazione. Parlo di coinvolgimento, perché desidero rendere il linguaggio della Chiesa più vicino al mondo contemporaneo, più vicino all’attualità. Questo soprattutto perché la Chiesa, per molti, ha perso il suo valore comunicativo, è considerata qualcosa di irrilevante. In realtà, la Chiesa ha costruito un grande bagaglio di immagini di arte religiosa, e la mia intenzione è quella di recuperare quelle immagini rendendole vicine al linguaggio contemporaneo e all’arte contemporanea.
La mostra alla Galleria Pack di Milano ha dei riferimenti diretti al Cenacolo di Leonardo. Una installazione di foto ritrae i 13 apostoli e Cristo. In che modo hai scelto i soggetti che impersonano i protagonisti della Bibbia?
Per questa mostra, certamente Caravaggio. In Europa, molto spesso si associa il mio lavoro a quello del Caravaggio, e questo mi trova d’accordo. Qui, lo è soprattutto nelle opere che sono avvolte nell’oscurità.
Potremmo trovare anche una diretta affinità con la Grande Maniera della ritrattistica rinascimentale. Pensi che la fotografia abbia insito in sé l’idea del ritrarre?
Infatti: ci sono tanti Gesù Cristo perché sono tante le possibilità di interpretarne l’identità. Anche Gesù è un fatto soggettivo. Ognuno ha il proprio Gesù Cristo in cui credere.
In effetti, noi conosciamo le sembianze dei Santi, della Madonna, di Cristo attraverso il lavoro degli artisti…
L’illusione dell’arte e l’illusione della fotografia è che anche quando sappiamo che la Madonna o Gesù non sono veri, quando li vediamo finiamo per crederci e diventano veri.
Credo che sia molto complicato imperniare tutto il lavoro nell’arte in questo scorcio che si estende tra la Vita e la Morte, così come hai fatto tu. Soprattutto dopo che una grande tradizione ne ha percorso gli esiti in largo e in lungo. C’è qualcosa di inconscio in questo? Hai paura della morte?
Certo. E’ questo il motivo che mi porta a chiedere di più, a fare di più, a vivere più intensamente. La Storia di Cristo, in termini iconografici, si riduce tutta al Cristo morente sulla croce o a Cristo bambino con la Madonna. Non lo vediamo mai nella sua adolescenza o in età più adulta, ma sostanzialmente conosciamo attraverso due momenti: la nascita e la morte. E’ ciò che ci interessa. La vita e la morte.
Pensi di aver capito di più sulla religione attraverso il tuo lavoro?
Penso di aver capito di più sulla religione e anche molto di più di me stesso. Quando ho fatto il ritratto di Gesù con Maria, ho pensato che quello potrebbe essere un ritratto di me con mia madre. Io non ho mai avuto un padre, come Cristo, e nell’iconografia cristiana, Giuseppe è rappresentato molto raramente. Prevalgono sempre solo la Madre e il Figlio.
a cura di angelo capasso