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01
giugno 2013
I padiglioni del cuore
Politica e opinioni
Russia, Cile e Argentina. Ma anche Turchia, Stati Uniti, Israele, Bahamas e Olanda. Mentre tutti giocano a chi buttare dalla torre noi facciamo il contrario. E vi lasciamo, in questo primo giorno di apertura al pubblico della 55esima Biennale di Venezia, con una classifica dei Padiglioni più belli. Con la conferma di qualche nostra profezia
Ogni Biennale che si rispetti ha le sue mille classifiche, a seconda degli occhi di chi guarda. Padiglioni “belli” e “brutti”, roba che “non funziona”, opere che tradiscono aspettative, proiezioni mancate e rivelazioni. E ovviamente sottrarsi al gioco del proprio “best of” è impossibile. Trattasi di una pratica diffusa, che nei giorni dell’opening della Biennale fa parte delle chiacchiere da bar, anche perché la manifestazione quest’anno pare essere molto sentita, anche tra la popolazione veneziana, così che le cronache della Biennale entrano nella vita quotidiana. E anche gli albergatori diventano critici, pronti a disquisire se fosse meglio il Ragazzo con la rana di Charles Ray, a fare la vedetta a Punta della Dogana, o la Alisson Lapper di Marc Quinn sul Canal Grande. E visto che abbondano i punti di vista, e che oggi è il grande giorno dell’apertura al pubblico, vi diamo il nostro parere, con una full immersion nei Padiglioni nazionali che colpiscono di più, ai Giardini come all’Arsenale. Proprio da qui vorremmo partire, ma a ritroso, dal Padiglione Italia. Quel Padiglione che, con buona pace di Sgarbi che nei giorni scorsi l’ha definito “un cimitero”, rimette l’arte italiana su un profilo degno di essere giudicato, e osservato, in una manifestazione come la Biennale. Un Padiglione che può competere con Regno Unito, Germania, Stati Uniti, solo per fare tre esempi, di cui vi racconteremo tra poco. Perché molte delle quattordici grandi installazioni che compongono gli spazi riservati al Belpaese all’Arsenale sono pezzi da novanta. Francesca Grilli ed Elisabetta Benassi, insieme a Massimo Bartolini e Luca Vitone vincono il Leone di Exibart: le “quote rosa” per la capacità di creare due ambienti fortemente empatici, dove i riferimenti con i Maestri del passato sono fortissimi eppure elaborati, rivestiti di nuova storia, in un’ossessività sempre presente che però genera un nuovo ordine, poetico e perturbante.
I codici dei rifiuti spaziali di Benassi, The Dry Salvages, dialogano – nelle intenzioni di Pietromarchi – non solo con Baruchello, sebbene la “giustapposzione” del lavoro di quest’ultimo su quello di Benassi non appare particolarmente felice – ma anche (da lontano) con Fabio Mauri nella sua “vendetta” contro le ideologie e le questioni italiane, in questo caso, ed anche ebraiche. Ciò detto, la riproposizione della storica performance di Mauri avrebbe meritato un luogo a sé. Grilli, con Fe₂O₃, Ossido ferrico si pone invece in una dimensione che riprende l’Arte Povera, dove il tempo è un’azione compositiva, che ci avvicina allo spettro di una nuova forma, alla ricerca dell’esistenza. Luca Vitone, Per l’eternità, aleggia nell’aria, e forse è l’opera più invadente dello spazio. All’idea che possa essere realmente odore di eternit il visitatore ha un sobbalzo, in preda a fantasmi che ricordano un mostro immortale uscito dalle pagine di storia industriale italiana, che da anni è passato alla cronaca. La nota di rabarbaro, specchio dell’amianto, qui non uccide ma apre uno squarcio inquietante, come inquietante è camminare sulla rampa creata da Franco Purini nel 2006 e utilizzata da Massimo Bartolini per il suo Due, in tandem con le parole di Giuseppe Chiari. Camminare qui è uno sforzo difficile e il metallo prezioso dell’arte, il bronzo, è irremovibile sotto i piedi, a creare una sensazione di immobilità, una difficoltà di movimento.
E se il Viaggio in Italia di Ghirri è stato visto quasi identico alla Triennale di Milano e ora riproposto alla grande al Maxxi di Roma, non si può che osservarne rapiti la potenza, meditando come, anche antropologicamente, “vice versa” sia il Padiglione Italia che la penisola non vedeva da quattro anni. Per questo l’augurio è che, riacquistata dignità, alla prossima edizione anche l’Italia faccia come gli altri Paesi e faccia la proposta forte di uno, massimo due o tre artisti.
Ci spostiamo di pochissimo, perché le Tese dell’Arsenale hanno un’infilata di padiglioni ottimi, che non hanno tradito le nostre previsioni (che vi abbiamo raccontato anche tra le pagine di Exibart on paper 83). Accanto ai nostri si incontra Tavares Strachan, che porta per la prima volta le Bahamas in laguna. “Polar eclipse” è il titolo di una mostra lirica e buia, dove il fulcro sono le esplorazioni tra i ghiacci artici e la globalizzazione, partendo proprio dal Polo Nord. Una partecipazione che opta per una mostra diffusa, che si svolge contemporaneamente anche al freddo e a Nassau, oltre che nel bello spazio delle Tese. Poco più avanti c’è Ali Kazma, Turchia, che mette in scena una “scrittura” del corpo attraverso la proiezione di diversi video.
In scena le attività che si svolgono, tra gli altri ambienti, in una sala operatoria, dove le nanotecnologie “modificano” una sezione umana immobile e resa “morta”; lo studio di un tatuatore dove passano sotto i ferri del mestiere nuovi freak, che riportano sulla pelle i segni di una “body art” molto più estrema di quella che si conosce nell’arte; un laboratorio di ricerca svizzero e una prigione turca sono i luoghi dai quali raccontare un corpo che non è mai disgiunto dalle sue relazioni, dalla condizione fisica del proprio ambiente, costretto, immobile, innocuo, prigioniero per scelta o per inclinazione.
A seguire ci spostiamo in quello che, senza alcun dubbio, è uno dei “best of” di questa 55esima Biennale: il padiglione cileno, dove Alfredo Jaar mette in scena Venezia Venezia. Non si parla del Cile, fatevene una ragione. Guardate invece affiorare dalle acque i Giardini della Biennale, ammirateli per 30 secondi, e poi perdeteli di nuovo, sotto il pelo della superficie liquida della vasca, verde laguna. Una modalità, quella dell’affondo, che in questo caso non si riferisce solo alla fragile morfologia della città, ma anche all’ecosistema, da sempre compromesso, del mondo dell’arte, in un’opera che era stata sperimentata anche in occasione della mostra milanese all’Hangar Bicocca, dove a scomparire, in una vasca nera come il petrolio, era però un plastico dell’Africa.
Attraversate ora il sentiero e omaggiate Evita Perón, nelle installazioni di Nicola Cosentino. Quattro “movimenti” di una “Rapsodia Inconclusa”, dove la più toccante è l’installazione Eva la lluvia -Eva la pioggia: nei quattordici giorni del funerale della Perón, nel 1952, il cielo “pianse” ininterrottamente, quasi a descrivere la tragicità di una perdita incolmabile per il popolo argentino. Qui, su un tavolo da obitorio, sono raccolte migliaia e migliaia di lacrime di ghiaccio che, sciogliendosi, si trasformano in gocce che cadono e accrescono il rumore di sottofondo dell’acqua. Anche in questo caso, come nell’installazione di Francesca Grilli, una goccia determina la storia, non solo fisica ma anche “morale”, di un intero Paese di fronte all’immutabilità della vita e nella mancata “eternità” dei simboli.
Spostiamoci ora ai Giardini, dove per certi versi le cose vanno meno meglio: Kimsooja, protagonista della Corea, e riciclatasi in sperimentazioni “optical” purtroppo non funziona per nulla. Il suo mistico padiglione tutto specchi e rifrazioni non vale la lunga attesa che in questi giorni si prospettava agli avventori, ma se il vostro compagno di ventura sarà silenzioso, potrete sperimentare la sensazione della perdita nel buio e nel silenzio assoluti. Per un minuto soltanto. Jeremy Deller, al Padiglione inglese, uccide luoghi comuni, onorificenze e figure di milionari, ma non azzardatevi a fare altre operazioni che non siano appoggiare le labbra alla tazza, se decidete di prendere un te caldo (e in questi giorni ce n’è stato molto bisogno) nell’area retrostante del Padiglione; il rituale è sacro, e gli inglesi sono ferrei: niente laptop accesi, niente libri in mano. E appena avete finito la bevanda offerta siete pregati di sloggiare.
Nella mattinata ieri un locale quotidiano molto popolare a Venezia, alla voce Sarah Sze, per descrivere il Padiglione Statunitense usava la parola “mah”. Ma non ci sembra la parola giusta: quest’anno gli USA non hanno il minimalismo installativo che si era riservato a Nauman, a Gober o Felix Gonzalez-Torres, ma abbondano con architetture che hanno qualcosa di speciale dietro un caos che immediatamente si scopre non essere reale, ma una perfetta costruzione sintattica attraverso elementi che tornano, in una progettazione che modifica la percezione dello spazio, con una serie di “macchine celibi” che non nascondono un’ossessività compositiva dove tornano detriti, sabbia, bottiglie e fili colorati a creare alambicchi e strutture utopiche.
Buono lo scambio tra Francia e Germania, dove Ai Weiwei e i suoi oltre 800 sgabelli “intrecciati” battono tutti, quantomeno per una prima impressione a caldo. Anche se c’è qualcosa nel gigante cinese che non convince: la sua installazione allo Zuecca Art Project della Giudecca, Straight, non mantiene la potenza dell’Hirschhorn Musueum – colpa di un mancato white cube? – anche se poi si riscatta con le sue vicende personali nei cubi neri – celle carcerarie – alla Chiesa di Sant’Antonin.
Ottima prova invece per il russo Vadim Zakharov, con “Danaë”. Immaginatevi che qualcuno, sopra di voi, mangi noccioline e che lasci cadere le bucce di sotto, incurante; ponete poi il caso di mettervi in ginocchio, in atto di preghiera. Eppure stavolta non guardate in alto, verso Dio, ma in basso, nella direzione di un cumulo di monete d’oro che cadono a pioggia davanti a voi, rimbalzando fragorosamente a terra, un piano più sotto. Rabbia, invidia, consumo, denaro, isteria, odio, avarizia, egoismo: sono i difetti dell’ego umano che fanno capolino da uno dei Padiglioni più belli di tutta questa Biennale. Semplice, certo, ma sincero. E non a caso curato da uno dei più grandi storici dell’arte mondiale: Udo Kittelmann.
E impeccabile il Padiglione olandese realizzato da Mark Manders, dove l’idea della scultura si riattualizza nel suo affiorare allo sguardo tra quinte instabili e prospettive impossibili, mentre fuori il bello spazio disegnato da Rietweld è oscurato da pagine di giornali, quasi a suggerire che non c’è frattura tra il quotidiano e l’invenzione dell’arte.
Passano il vaglio anche il lavoro filo-documentarista in chiave veneziana di Lara Almarcegui, Spagna, e Berlinde De Brukyere, Belgio, in un padiglione quasi completamente buio, dove una creatura misteriosa in legno “lagunare” e tessuti esce allo scoperto, quasi fosse un enigma degli abissi materializzatosi per l’occasione, a ricordarci un genius loci profondamente inquieto. Tanto da far compiere a un gruppo di persone (artisti? Outsider?) un viaggio nel ventre della terra fino alla laguna (il molto convincente padiglione israeliano firmato da Gilad Ratman). Passaggio rituale e metafora che cade a pennello per questa 55esima Biennale di Venezia: tesa su più fronti, a volte etnografica, a volte germinale. Dimenticheremo qualcosa? Certamente si, ma ora starà anche a voi stilare la vostra lista di “best of”.