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E fotografia fu!
Fotografia e cinema
A cavallo tra gli anni 60 e 70, la fotografia supera, in ambito artistico, la bidimensionalità fisica che la costituisce e attraverso il concetto approda ad una sinestesia mediata non dalla forma ma dal contenuto. Con questo approfondimento riparte con regolarità la rubrica fotografia di Exibart...
Alla fine degli anni ‘60 la fotografia viene prepotentemente scavalcata nella “documentazione oggettiva” dall’ormai più idoneo mezzo televisivo. Accantonata o meglio notevolmente ridimensionata la sua predisposizione informativa sul mondo, sugli avvenimenti che lo popolano, l’immagine fotografica si chiude su se stessa e come avvenne per la pittura un secolo addietro, allo stesso modo la fotografia si fa autoreferenziale: “Fu attraverso il confronto con la fotografia che l’arte andò via via distaccandosi, per differenziarsi, dal concetto classico della mimesi, e si costituì in proprio una morfologia e un lessico senza radici naturalistiche. Ma la divisione di campo non durò, la fotografia invase anche quel dominio: si presentò come operazione più mentale che tecnica, potenzialmente creativa come e più dell’arte” (Argan, 1989).
Formalismi estremi, già in passato, avevano spesso nascosto il referente reale sostituendolo però con un altro referente: l’astrattismo geometrico tout court. Ora invece le capacità sfruttate dalla fotografia diventano quelle che le sono “propriamente specifiche” come l’automatismo meccanico, l’essere specchio della memoria, il permettere la presenza in assenza, così come la concretizzazione di qualsivoglia immaginario. La fotografia ritorna su se stessa, si affida al suo essere “solo” fotografia, la sua fruizione diviene mentale, fredda, lontana dal calore legato alla fascinazione visiva.
E’ in questo periodo che la pratica fotografica, dopo l’uso circoscritto che ne fecero le avanguardie storiche, approda incontestabilmente e diffusamente all’arte visiva di serie A. Complice l’abolizione della tecnica virtuosa, iniziata dal Dadaismo di Duchamp e legittimata dall’inconscio surrealista e poi dal gesto esistenziale dell’Informale che, valorizzando la materia, seppur in chiave simbolica, porterà all’uso del materiale reale del “Nuovo realismo”, del New Dada e quindi del Minimalismo. Questo processo, grazie alla durata del suo compiersi, rende accettabile, metabolizzata, l’idea di operare attraverso tecniche semplici e alla portata di tutti, tecniche come la fotografia. La capacità del mezzo fotografico di inglobare a proprio piacimento e per gli usi più disparati qualsiasi cosa, oggetto, situazione, il mondo offra ai nostri occhi rende questo medium decisamente utile agli artisti, in grado ora di proporre qualsiasi oggetto “scremato” fin’anche della sua consistenza fisica. Accessibile concettualmente, l’oggetto fotografato è presente ed assente allo stesso tempo, Il Minimalismo perviene così al suo massimo grado, inoltre, in un periodo in cui le poetiche dell’oggetto, così come le pratiche comportamentali (Body Art, Land Art, Happening), imperversano, la fotografia si dimostra lo strumento più idoneo non solo alla realizzazione di significanti più o meno concettuali, ma anche alla documentazione di eventi artistici altrimenti inefficaci; una memoria artificiale, pratica ed economica che sublima in un piccolo spazio visivo tutta un’operazione dandole senso. E’, tanto per fare un esempio, grazie alla fotografia ed in stretta sinergia con questa che le performance di Bruce Nauman e Arnulf Rainer si sono sviluppate. E anche l’intervento pittorico che quest’ultimo, non soddisfatto della pura fotografia, dispone sulla superficie emulsionata non sarebbe possibile senza il supporto fotografico.
Anche sul versante dell’“oggetto”, del ready made, prelevato direttamente dalla realtà attraverso una decontestualizzazione che valorizzi l’operazione concettuale dell’artista, piuttosto che la sua maestria tecnica individuale, anche con questo tipo di logica l’immagine fotografica si dimostra alla stregua ed anzi precorritrice, di tutte quelle operazioni artistiche, decisamente contemporanee che hanno in comune “l’uscita dal quadro”. La fotografia infatti, in quanto indice, ossia impronta della realtà, è di fatto calata nella dimensione mondana e fuori dalla dimensione iconica. Non a caso lo stesso Duchamp utilizzò per le sue lungimiranti operazioni anche la fotografia, sia per le qualità derivanti dall’essere riporto oggettivo di una realtà particolare, sia per la possibilità di concretizzare con un massimo d’efficacia l’immaginario dissacrante che muoveva la sua rivoluzione iconoclasta. Non solo, come afferma Rosalind Krauss, tutta la sua opera è analoga alla nozione di traccia e quindi alla fotografia. Persino i suoi epigoni degli anni ’60 considerarono la realtà come un luogo privilegiato cui attingere direttamente i materiali bell’e pronti da decontestualizzare, da risignificare, anche attraverso la mediazione dell’impronta.
Ecco così “istituzionalizzarsi” le impronte digitali di Piero Manzoni e le antropometrie di Yves Klein, ma anche l’uso “impersonale”, a grado zero che tanti artisti fanno della fotografia eliminando consapevolmente ogni formalismo potenzialmente dannoso alla ricezione pura e semplice di ciò che è fotografato. Queste pratiche “extra artistiche” porteranno le arti visive, a partire dalla fine degli anni ’60, al progressivo distacco dal formalismo e a quella che Jameson considera la condizione post moderna in cui l’opera d’arte, mescendosi con la cultura “bassa”, perde lo stile individuale e “aureo” che la contraddistingueva nel periodo moderno nonché la contestualizzazione del proprio contenuto. Al fruitore dell’opera si offre ora un maggiore coinvolgimento, una partecipazione che supera la mera contemplazione, ma gli è richiesta anche una maggiore preparazione e quindi capacita di comprensione, se è vero che: “oggetto della valutazione estetica attuale non è l’artefatto ‘materiale’ ma l’‘oggetto estetico’ che è il suo riflesso e correlato nella coscienza del fruitore.” (Mukarovsky 1936).
Paradossalmente la fotografia semplifica le sue tecniche, il suo modo d’operare, ma complica la sua progettazione e la sua comprensione; l’accento dall’opera materiale si sposta così sulla poetica generatrice. Sui fenomeni si prediligono i noumeni, sui significanti i significati. A questo punto la semplicità operativa del mezzo fotografico non è più limitante per la creatività, anzi la sua capacità di impossessarsi del reale nonché di presentarlo a proprio piacimento è una caratteristica molto ambita ora che tutto è potenzialmente artistico e la discriminazione da ciò che se ne discosta è determinata dall’uso.
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roberto maggiori
**Con quest’approfondimento, riprende a pieno ritmo l’attività della sezione “Fotografia”. Curata da Roberto Maggiori, la rubrica si propone d’aggiornare settimanalmente il panorama fotografico internazionale, attraverso anticipazioni d’eventi, interviste e inchieste.**
[exibart]
Veramente un articolo illuminante e ben scritto, complimenti Roberto!
L’articolo è esaustivo ma non ho molto compreso la frase di Mukarovsky 😉
I just cant really read italian. But Im learning at school! Anyways, I think these photographs arew original and has strong messages. Very creative!
hola mi nombre es Natalia Maggiori, soy de la patagonia argentina… trabajo audiovisuales pero sobre todo escribo buscando cntactarme directamente con Roberto Maggiori, nose si es el mismo que publica en internet pero yo busco a un tio llamado asi al cual no veo hace 15 años… seras vos? gracias! Natalia