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15
maggio 2008
fino al 31.V.2008 Piero Gilardi Torino, Biasutti & Biasutti
torino
La manipolazione delle forme rappresenta il mondo e ingigantisce la sensazione di realtà. In mostra, le opere che hanno fatto di Gilardi un riproduttore irriverente. Un giullare dell’esistenza...
di Ginevra Bria
Nei tappeti di Piero Gilardi (Torino, 1942) l’arte non è più la rappresentazione della natura. È artificio, uno spessore che diventa un riflesso espressamente condizionato e sotteso all’immaginario di natura. Le percezioni fisiche di chi si trova a osservare i primi e più noti lavori dell’artista diventano una sorta di esperienze puntiformi. Stacchi che si succedono lungo un movimento di déjà-vu, più lunghi, sedimentati nel tempo e assomiglianti a inferenze inseparabili. Ogni zolla, infatti, separatamente, contribuisce alla riproduzione di un nuovo, originario, ordine segmentato. Un cosmo-diorama separato come una folla di isole. L’esperienza della natura in Gilardi non è nient’altro che empeiria momentanea, realtà realizzata e svelata, perché vendibile a metro lineare. Un’apparenza estetica sulla natura che non cede agli spessori della speculazione e che non presuppone null’altro di identico né di sovrapponibile a se stessa. Nessuna traccia che la preceda, la predestini e la ceselli all’interno del ciclo della biologia molecolare.
L’arte di natura rimane qui sempiterna e in bilico sulla tradizione mercificante del movimento Pop. La condizione dell’arte stessa, fra le risa grasse dei colori squillanti, fiorisce a ogni costo. In questa serie, la rappresentazione si estende come una protesi dell’esistenza al di là dei condizionamenti di spazio e tempo.
La natura si riduce allora a essere un ridanciano richiamo d’obbligo, condannata alla (ver)gogna della tridimensionalità e poi ripudiata senza pudori a un angolo di edenica verosimiglianza. Nonostante i richiami alle proporzioni ludiche di Oldenburg, entrambe queste caratteristiche, ricorsive e connotanti la composizione, si trovano esplicitamente citate all’interno degli sgargianti dipinti-scultura di polistirolo espanso. Vergogna e falsità, dunque, fanno sì che l’universo torni a esistere al di fuori della presenza certa dell’uomo, anche se a causa della sua stessa invadente potenza creatrice.
Così, in Mais ad esempio, il mondo torna ad apparire morbido, a farsi autunno, stagione finzionale, senza peccato e senza progenitori visibili, svelandosi come un gioco che si appropria della propria stessa fine, tra rastrelli e pannocchie. In Granoturco caduto, invece, la geometria abbandona le forme non-sense fatte di giocosa leggerezza e casualità prestabilita. Ogni composizione, ogni still life attorno a quest’ultimo lavoro diventa, a catena, un sistema che si differenzia dal proprio concomitante.
Tanto i tableau appesi alle pareti quanto quelli sdraiati a terra rilasciano percezioni che permangono, stantie e porose. Nell’aria e negli occhi attorno, diventano così distinguibili, a partire dagli spunti di realizzazione e composizione delle opere, le idee. Sovrastate da quella idea di natura che non converge più nell’oggetto-tappeto, ma che diventa rappresentazione di un’impressione. Un’impressione in scala reale di verzure, rive sassose, sottoboschi, scorci marini e orti d’angurie.
L’arte di natura rimane qui sempiterna e in bilico sulla tradizione mercificante del movimento Pop. La condizione dell’arte stessa, fra le risa grasse dei colori squillanti, fiorisce a ogni costo. In questa serie, la rappresentazione si estende come una protesi dell’esistenza al di là dei condizionamenti di spazio e tempo.
La natura si riduce allora a essere un ridanciano richiamo d’obbligo, condannata alla (ver)gogna della tridimensionalità e poi ripudiata senza pudori a un angolo di edenica verosimiglianza. Nonostante i richiami alle proporzioni ludiche di Oldenburg, entrambe queste caratteristiche, ricorsive e connotanti la composizione, si trovano esplicitamente citate all’interno degli sgargianti dipinti-scultura di polistirolo espanso. Vergogna e falsità, dunque, fanno sì che l’universo torni a esistere al di fuori della presenza certa dell’uomo, anche se a causa della sua stessa invadente potenza creatrice.
Così, in Mais ad esempio, il mondo torna ad apparire morbido, a farsi autunno, stagione finzionale, senza peccato e senza progenitori visibili, svelandosi come un gioco che si appropria della propria stessa fine, tra rastrelli e pannocchie. In Granoturco caduto, invece, la geometria abbandona le forme non-sense fatte di giocosa leggerezza e casualità prestabilita. Ogni composizione, ogni still life attorno a quest’ultimo lavoro diventa, a catena, un sistema che si differenzia dal proprio concomitante.
Tanto i tableau appesi alle pareti quanto quelli sdraiati a terra rilasciano percezioni che permangono, stantie e porose. Nell’aria e negli occhi attorno, diventano così distinguibili, a partire dagli spunti di realizzazione e composizione delle opere, le idee. Sovrastate da quella idea di natura che non converge più nell’oggetto-tappeto, ma che diventa rappresentazione di un’impressione. Un’impressione in scala reale di verzure, rive sassose, sottoboschi, scorci marini e orti d’angurie.
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Galleria Biasutti & Biasutti
Via Bonafous, 7/i (Borgo Nuovo) – 10123 Torino
Orario: da martedì a sabato ore 10-12.30 e 15.30-19.30
Ingresso libero
Catalogo con testo di Martina Corgnati
Info: tel. +39 0118173511; fax +39 0118158818; info@biasuttiebiasutti.com; www.biasuttiebiasutti.com
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