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13
febbraio 2009
fino al 21.VI.2009 Arte, Genio, Follia Siena, Santa Maria della Scala
toscana
Il romantico binomio “genio e sregolatezza” diventa un ben più inquietante “creatività e malattia”. Accade nell’enorme macchina espositiva di Sgarbi. Che propone senza risolvere, ammucchia senza distinguere, impressiona senza commuovere...
“Neanche se avessi cento lingue e cento bocche / e una voce di ferro potrei enumerare tutte le forme dei pazzi, / passar in rassegna tutti i nomi assunti dalla pazzia”, scriveva Virgilio. Due millenni dopo ci prova Sgarbi, che tenta l’impresa di registrare, in un’affollatissima mostra, tutte le forme che la follia ha assunto in seno alla storia dell’arte – e non solo -, cercando di creare un trait d’union con la genialità che accompagna e fonda ogni creazione di valore.
Partendo dal motto “tutta l’arte non è essa stessa che una patologia”, Sgarbi imbastisce un florilegio di opere e oggetti chiamati a penetrare la materia, in una diagonale che parte dal punto di vista scientifico, clinico, attraversa quello storiografico e si esplicita in quello artistico.
Se in latino il termine che dà origine alla parola “follia” significa testa vuota, ci si accorge di come invece la mente e l’immaginario dei folli siano tutt’altro che privi di paesaggi interiori e intuizioni: l’art des fous è estranea alle regole dell’arte ufficiale, è spontaneità che nasce dall’ossessione o dal delirio, non addomesticata o, comunque, disciplinata da regole proprie, che viaggiano su binari della déraison. L’autodidattismo e la forzata emarginazione dal mondo, in alcuni casi la cattività, hanno permesso al “genio”, laddove presente, di emergere e trovare una legittimazione, quando non addirittura una consacrazione. Come nel caso dell’Art Brut teorizzata da Dubuffet, la cui collezione è esposta a Siena in larga parte, o di Antonio Ligabue, a cui è dedicata una bella sezione.
Il percorso non è però esente da stereotipi e da una morbosa insistenza. Le dieci suddivisioni tematiche sono un eccesso che confonde le idee più che chiarirle. Ognuna quasi a sé stante, tentano di esaurire l’argomento, ma nella prima sezione ci si trova di fronte a un’esposizione documentaria della malattia e dei rimedi che nel tempo si sono susseguiti; segue una prolissità di disegni e manufatti di “malati” che vanno a formare tante piccole personali; lavori marginali di Van Gogh e Otto Dix nella parte centrale; una sezione infine dedicata alla guerra – giustificata in termini di “follia collettiva”, ma di cui si confondono le logiche e le origini con gli effetti -, infarcita dei nomi di Grosz, Mario Mafai, Guttuso, con lavori piegati all’utilità immediata o auspicata.
Difficilmente si riesce a comprendere l’inserimento di opere surrealiste: inconscio e follia non sono realtà necessariamente tangenti, disegno automatico e malattia mentale non vanno a braccetto. Si fa una gran confusione – perché si pretende di inserirli a forza nello stesso discorso – fra la rappresentazione metaforica della follia e le patologie presentate nude e crude attraverso la violenza di lavori inevitabilmente maniacali.
L’occasione di fare un parallelo tra i busti del tormentato Franz Xaver Messerschmidt e le fotografie di Arnulf Rainer a essi dichiaratamente ispirate viene mancata, in favore dell’ultima sezione della mostra, in cui il Wiener Aktionismus viene assurto tout court a forma di follia contemporanea. L’odierna brutalità culturale e la violenza nella società hanno aspetti ben più folli di quelli messi in atto da Günter Brus e soci, che si automutilavano in azioni dal carattere mistico e dall’accentuata connotazione vitale.
Tanti anelli che non s’intrecciano, in una rassegna globalizzante di piani e strati disgiunti, in un’atmosfera viziata dalla forzosa rispondenza a un tema di cui, in fondo, non si svela nulla di nuovo. Chi nella penombra inventa parole e linguaggi lo fa per esigenza “fisiologica”, e vale per tutti, senza categorizzazioni. La genialità non è appannaggio esclusivo dei cosiddetti “normali”, ma è equamente distribuita, come la follia. Lo insegna Erasmo da Rotterdam.
Partendo dal motto “tutta l’arte non è essa stessa che una patologia”, Sgarbi imbastisce un florilegio di opere e oggetti chiamati a penetrare la materia, in una diagonale che parte dal punto di vista scientifico, clinico, attraversa quello storiografico e si esplicita in quello artistico.
Se in latino il termine che dà origine alla parola “follia” significa testa vuota, ci si accorge di come invece la mente e l’immaginario dei folli siano tutt’altro che privi di paesaggi interiori e intuizioni: l’art des fous è estranea alle regole dell’arte ufficiale, è spontaneità che nasce dall’ossessione o dal delirio, non addomesticata o, comunque, disciplinata da regole proprie, che viaggiano su binari della déraison. L’autodidattismo e la forzata emarginazione dal mondo, in alcuni casi la cattività, hanno permesso al “genio”, laddove presente, di emergere e trovare una legittimazione, quando non addirittura una consacrazione. Come nel caso dell’Art Brut teorizzata da Dubuffet, la cui collezione è esposta a Siena in larga parte, o di Antonio Ligabue, a cui è dedicata una bella sezione.
Il percorso non è però esente da stereotipi e da una morbosa insistenza. Le dieci suddivisioni tematiche sono un eccesso che confonde le idee più che chiarirle. Ognuna quasi a sé stante, tentano di esaurire l’argomento, ma nella prima sezione ci si trova di fronte a un’esposizione documentaria della malattia e dei rimedi che nel tempo si sono susseguiti; segue una prolissità di disegni e manufatti di “malati” che vanno a formare tante piccole personali; lavori marginali di Van Gogh e Otto Dix nella parte centrale; una sezione infine dedicata alla guerra – giustificata in termini di “follia collettiva”, ma di cui si confondono le logiche e le origini con gli effetti -, infarcita dei nomi di Grosz, Mario Mafai, Guttuso, con lavori piegati all’utilità immediata o auspicata.
Difficilmente si riesce a comprendere l’inserimento di opere surrealiste: inconscio e follia non sono realtà necessariamente tangenti, disegno automatico e malattia mentale non vanno a braccetto. Si fa una gran confusione – perché si pretende di inserirli a forza nello stesso discorso – fra la rappresentazione metaforica della follia e le patologie presentate nude e crude attraverso la violenza di lavori inevitabilmente maniacali.
L’occasione di fare un parallelo tra i busti del tormentato Franz Xaver Messerschmidt e le fotografie di Arnulf Rainer a essi dichiaratamente ispirate viene mancata, in favore dell’ultima sezione della mostra, in cui il Wiener Aktionismus viene assurto tout court a forma di follia contemporanea. L’odierna brutalità culturale e la violenza nella società hanno aspetti ben più folli di quelli messi in atto da Günter Brus e soci, che si automutilavano in azioni dal carattere mistico e dall’accentuata connotazione vitale.
Tanti anelli che non s’intrecciano, in una rassegna globalizzante di piani e strati disgiunti, in un’atmosfera viziata dalla forzosa rispondenza a un tema di cui, in fondo, non si svela nulla di nuovo. Chi nella penombra inventa parole e linguaggi lo fa per esigenza “fisiologica”, e vale per tutti, senza categorizzazioni. La genialità non è appannaggio esclusivo dei cosiddetti “normali”, ma è equamente distribuita, come la follia. Lo insegna Erasmo da Rotterdam.
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a cura di Vittorio Sgarbi
Complesso Museale Santa Maria della Scala – Palazzo Squarcialupi
Piazza del Duomo, 1 – 53100 Siena
Orario: tutti i giorni ore 10.30-19.30
Ingresso: intero € 8; ridotto € 6/4
Catalogo Gabriele Mazzotta
Info: tel. +39 0577224811; fax +39 0577224829; info@sms.comune.siena.it; www.artegeniofollia.it
[exibart]