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03
luglio 2008
“La mostra è una riflessione politica su come il potere entra in maniera sotterranea nelle pratiche sociali, in casa, nel corpo attraverso la seduzione/desiderio e nel linguaggio”, spiega Silvia Giambrone (Agrigento, 1981; vive a Roma). L’artista si nutre di letture filosofiche, ammira il lavoro di Ana Mendieta e Kiki Smith, e dichiara subito l’orientamento della propria ricerca: “Ho assunto un’eredità femminista, non tanto nella direzione di strategia pratica, quanto nell’analisi delle dinamiche”. Un linguaggio aperto a possibili sfaccettature, il suo, che prende ogni distanza da qualsivoglia ermetismo autoreferenziale.
Partiamo dall’opera Speaking your language I learned how to hate you che dà il titolo a questa sua prima personale da Nextdoor. La scritta compare su uno specchio rettangolare. È una citazione shakespeariana dalla Tempesta, dove a parlare è il servo che si rivolge al padrone: apprendendo la sua lingua, ha imparato ad odiarlo. In galleria, nel gioco di elementi riflettenti, la grande carta da parati bianca entra nello specchio esattamente come la scritta. Trovano una dimensione altrettanto speculare i due lavori incentrati sull’oggetto-simbolo ciglia finte, nel video Eredità e nella vetrina in miniatura a cui fanno da pendant i due video still.
Il pannello della finta carta da parati supera i due metri, interamente movimentati da un pattern tracciato con la biro rossa, che a ben guardare rivela essere la sagoma della lametta da barba. “Un oggetto che mi affascina anche per la sua ambiguità”, afferma Giambrone, un attributo maschile d’uso quotidiano, associato all’aggressività, alla violenza, al sangue, che in questo caso è addomesticato nel suo utilizzo di stencil.
È così anche per le ciglia finte (un’idea nata guardando il film cult Gola Profonda), codice di seduzione femminile. Questo accessorio così fashion negli anni ’60-’70 diventa oggetto d’arte in questa interpretazione, in cui la riflessione si sposta su un piano relazionale più che erotico-sessuale. Le ciglia finte di Giambrone sono due piccole sculture in fil di ferro e stagno che compaiono nel video di dieci minuti in cui lei stessa tenta di incollarle alle proprie palpebre. Le opere, come due gioielli, hanno un posto tutto loro in una teca, sulla parete di fronte allo schermo, per richiamare alla memoria le scatoline trasparenti in cui le nostre madri conservavano le loro ciglia finte.
Nel video è quasi ossessiva, snervante “e anche dolorosa” la reiterazione del gesto con cui viene focalizzato il tentativo di unire quelle ciglia finte-sculture al proprio corpo. Una palpebra aperta, l’altra chiusa, il tonfo inquietante dell’oggetto sul pavimento, l’inquadratura fissa del volto della performer limitata tra fronte e narici. “Mi domando quanto si possa indossare veramente questa pratica sociale, e cosa altro si possa fare. Non propongo alcuna soluzione, perché non ce l’ho”.
Partiamo dall’opera Speaking your language I learned how to hate you che dà il titolo a questa sua prima personale da Nextdoor. La scritta compare su uno specchio rettangolare. È una citazione shakespeariana dalla Tempesta, dove a parlare è il servo che si rivolge al padrone: apprendendo la sua lingua, ha imparato ad odiarlo. In galleria, nel gioco di elementi riflettenti, la grande carta da parati bianca entra nello specchio esattamente come la scritta. Trovano una dimensione altrettanto speculare i due lavori incentrati sull’oggetto-simbolo ciglia finte, nel video Eredità e nella vetrina in miniatura a cui fanno da pendant i due video still.
Il pannello della finta carta da parati supera i due metri, interamente movimentati da un pattern tracciato con la biro rossa, che a ben guardare rivela essere la sagoma della lametta da barba. “Un oggetto che mi affascina anche per la sua ambiguità”, afferma Giambrone, un attributo maschile d’uso quotidiano, associato all’aggressività, alla violenza, al sangue, che in questo caso è addomesticato nel suo utilizzo di stencil.
È così anche per le ciglia finte (un’idea nata guardando il film cult Gola Profonda), codice di seduzione femminile. Questo accessorio così fashion negli anni ’60-’70 diventa oggetto d’arte in questa interpretazione, in cui la riflessione si sposta su un piano relazionale più che erotico-sessuale. Le ciglia finte di Giambrone sono due piccole sculture in fil di ferro e stagno che compaiono nel video di dieci minuti in cui lei stessa tenta di incollarle alle proprie palpebre. Le opere, come due gioielli, hanno un posto tutto loro in una teca, sulla parete di fronte allo schermo, per richiamare alla memoria le scatoline trasparenti in cui le nostre madri conservavano le loro ciglia finte.
Nel video è quasi ossessiva, snervante “e anche dolorosa” la reiterazione del gesto con cui viene focalizzato il tentativo di unire quelle ciglia finte-sculture al proprio corpo. Una palpebra aperta, l’altra chiusa, il tonfo inquietante dell’oggetto sul pavimento, l’inquadratura fissa del volto della performer limitata tra fronte e narici. “Mi domando quanto si possa indossare veramente questa pratica sociale, e cosa altro si possa fare. Non propongo alcuna soluzione, perché non ce l’ho”.
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Silvia Giambrone – Speaking your language I learned how to hate you
a cura di Lorenzo Benedetti
Nextdoor… ArtGalleria
Via di Montoro, 3 (zona campo de’ Fiori) – 00186 Roma
Orario: dal martedì al sabato ore 13-19; mattina su appuntamento
Ingresso libero
Info: tel./fax +39 0645425048; info@gallerianextdoor.com; www.gallerianextdoor.com
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