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08
gennaio 2008
resoconto Fastforward on New Media Art Napoli, Pan
napoli
Tre giorni di dibattito sulla New Media Art. A Napoli, relatori e istituzioni internazionali si sono confrontati sui nodi centrali dell’arte digitale. Guardando al futuro, verso il 2013. Verso la Napoli sede del Forum Universale delle Culture, organizzato dall’Unesco...
di Santa Nastro
Tre giorni di dibattito sulla new media art, sul futuro, ma soprattutto sul passato delle nuove tecnologie applicate all’arte contemporanea, in Italia come all’estero. Ospiti internazionali provenienti da istituzioni e aree geografiche eterogenee si sono confrontati a Napoli, durante il forum Fastforward on new media art.
Tema preponderante della tre giorni partenopea è stato senz’altro la “conservazione”, la necessità ovvero di cominciare a sistematizzare le ricerche legate alla new media art in collezioni strutturate e archivi che possano permetterne la catalogazione, lo studio e l’analisi da parte dei teorici e delle generazioni future. La new media art -o, meglio, tutte le forme di espressione che possono essere raccolte sotto quest’etichetta generalista- è, infatti, una corsa contro il tempo, un passaggio di palla repentino tra arte e ricerca scientifica, tra creatività e umanesimo, che necessita un’attenzione particolare da parte degli studiosi, delle istituzioni e dei semplici contemporanei, in quanto tra le più interessanti rappresentazioni del nostro tempo.
La situazione italiana, dalla testimonianza di Valentina Valentini, docente alla Sapienza di Roma, sembra non essere delle più felici. Se nel nostro Paese, infatti, il mezzo “video”, con la sua formula antidiegetica e il suo desiderio di collocarsi negli spazi interstiziali della realtà, tramite l’utilizzo metaforico di iterazione, ciclicità e segmentazione, ha da poco acquisito lo statuto e la dignità di espressione artistica, tale da consentirne un accenno di catalogazione, gli altri media che rientrano nelle nuove espressioni creative ancora non riescono a garantirsi gli stessi diritti della triade aurea pittura-scultura-fotografia. Ne soffre pertanto la software art di cui parla Geoff Cox, per il quale tuttavia l’approccio metodologico da seguire è senz’altro quello del materialismo storico, in cui i termini “storia” e “arte” devono entrare in una sorta di conflittualità, in cui la software art stessa funzioni più da memoria che da pietra miliare.
Meno convincenti le teorie del giovane francese Johanne Holland, responsabile di un progetto di ricerca del Centre Pompidou che prevede il montaggio di sequenze cinematografiche come mezzo per fare entrare i non addetti ai lavori in contatto con la new media art. Scopo del gioco, infatti, non è trasformare lo spettatore in artista, ma dargli una sorta di approccio epidermico che lo aiuti a esperire e, pertanto, a sintetizzare il linguaggio cinematografico scardinandolo dall’interno. Ma se nella teoria il software progettato dallo staff del museo francese dovrebbe essere di dominio pubblico, in pratica a oggi è rimasto prigioniero delle sale del centro ricerche.
Più pragmatico è stato invece l’approccio di Sara Lodi, che ha approfittato dell’audience del Pan per presentare il nuovo Share Festival. In una Torino incoronata Capitale mondiale del design per l’anno 2008, il Festival sarà curato dal futurologo e scrittore di science fiction -nonché inventore del cyberpunk- Bruce Sterling e, non a caso, si intitolerà La forma del futuro.
Tra gli interventi più interessanti sono da segnalare senz’altro, oltre all’incontro-scontro sulla conservazione tra John Ippolito, dell’Università del Maine, e Mario Costa, docente all’Università di Salerno, segnale di un dibattito tra due realtà lontane nella geografia come nel tempo, le relazioni di Yuliya Sorokina, Atsushi Wakimoto e Antonio Caronia.
La prima, curatrice indipendente nell’Asia Centrale, ha raccontato delle difficoltà che ogni giorno incontra nel sostegno e nella promozione dell’arte contemporanea nel suo Paese, dove già solo l’utilizzo della fotografia e del fotomontaggio può essere considerato un approccio tecnologico, laddove non esistono possibilità più moderne e la storia è stata negata da costanti deportazioni di opere d’arte in epoca staliniana. Il contrasto con l’intervento del nipponico Wakimoto, rappresentante del Japan Media Arts Festival, è notevole: al panorama desertico, seppur pieno di fermenti vitali e creativi del Kazakistan, si contrappone un Giappone ipertecnologico, dove arte ed entertainment si fondono senza offendere la morale, artigianato e robotica sembrano avere comuni radici e i new media sono caratterizzati dalle parole chiave di multidisciplinarietà, trascendenza dei generi artistici, attività diversificata ed esplorazione di nuovi campi. Antonio Caronia, docente presso l’Accademia di Brera, ha sintetizzato per il pubblico la storia dell’arte biotech, ovvero dell’arte che utilizza i dispositivi biologici come superficie, strumento e linguaggio delle ricerche di artisti come Stelarc ed Eduardo Kac, solo per fare alcuni nomi, sottolineandone i problemi nella conservazione delle rispettive opere. Per Caronia, infatti, l’arte biotech risponde al problema posto dall’avanguardia della continuità tra arte e vita, creando nuove forme di esistenza non su un piano meramente metaforico, bensì su quello reale.
Per tutti i relatori, infine, sono emerse le difficoltà, sia tecniche, di budget che teoriche, di costruire un archivio in grado di rappresentare queste forme d’arte nella loro totalità anche perché, è stato ripetuto più volte, “senza la storia non si costruisce un futuro”.
Tema preponderante della tre giorni partenopea è stato senz’altro la “conservazione”, la necessità ovvero di cominciare a sistematizzare le ricerche legate alla new media art in collezioni strutturate e archivi che possano permetterne la catalogazione, lo studio e l’analisi da parte dei teorici e delle generazioni future. La new media art -o, meglio, tutte le forme di espressione che possono essere raccolte sotto quest’etichetta generalista- è, infatti, una corsa contro il tempo, un passaggio di palla repentino tra arte e ricerca scientifica, tra creatività e umanesimo, che necessita un’attenzione particolare da parte degli studiosi, delle istituzioni e dei semplici contemporanei, in quanto tra le più interessanti rappresentazioni del nostro tempo.
La situazione italiana, dalla testimonianza di Valentina Valentini, docente alla Sapienza di Roma, sembra non essere delle più felici. Se nel nostro Paese, infatti, il mezzo “video”, con la sua formula antidiegetica e il suo desiderio di collocarsi negli spazi interstiziali della realtà, tramite l’utilizzo metaforico di iterazione, ciclicità e segmentazione, ha da poco acquisito lo statuto e la dignità di espressione artistica, tale da consentirne un accenno di catalogazione, gli altri media che rientrano nelle nuove espressioni creative ancora non riescono a garantirsi gli stessi diritti della triade aurea pittura-scultura-fotografia. Ne soffre pertanto la software art di cui parla Geoff Cox, per il quale tuttavia l’approccio metodologico da seguire è senz’altro quello del materialismo storico, in cui i termini “storia” e “arte” devono entrare in una sorta di conflittualità, in cui la software art stessa funzioni più da memoria che da pietra miliare.
Meno convincenti le teorie del giovane francese Johanne Holland, responsabile di un progetto di ricerca del Centre Pompidou che prevede il montaggio di sequenze cinematografiche come mezzo per fare entrare i non addetti ai lavori in contatto con la new media art. Scopo del gioco, infatti, non è trasformare lo spettatore in artista, ma dargli una sorta di approccio epidermico che lo aiuti a esperire e, pertanto, a sintetizzare il linguaggio cinematografico scardinandolo dall’interno. Ma se nella teoria il software progettato dallo staff del museo francese dovrebbe essere di dominio pubblico, in pratica a oggi è rimasto prigioniero delle sale del centro ricerche.
Più pragmatico è stato invece l’approccio di Sara Lodi, che ha approfittato dell’audience del Pan per presentare il nuovo Share Festival. In una Torino incoronata Capitale mondiale del design per l’anno 2008, il Festival sarà curato dal futurologo e scrittore di science fiction -nonché inventore del cyberpunk- Bruce Sterling e, non a caso, si intitolerà La forma del futuro.
Tra gli interventi più interessanti sono da segnalare senz’altro, oltre all’incontro-scontro sulla conservazione tra John Ippolito, dell’Università del Maine, e Mario Costa, docente all’Università di Salerno, segnale di un dibattito tra due realtà lontane nella geografia come nel tempo, le relazioni di Yuliya Sorokina, Atsushi Wakimoto e Antonio Caronia.
La prima, curatrice indipendente nell’Asia Centrale, ha raccontato delle difficoltà che ogni giorno incontra nel sostegno e nella promozione dell’arte contemporanea nel suo Paese, dove già solo l’utilizzo della fotografia e del fotomontaggio può essere considerato un approccio tecnologico, laddove non esistono possibilità più moderne e la storia è stata negata da costanti deportazioni di opere d’arte in epoca staliniana. Il contrasto con l’intervento del nipponico Wakimoto, rappresentante del Japan Media Arts Festival, è notevole: al panorama desertico, seppur pieno di fermenti vitali e creativi del Kazakistan, si contrappone un Giappone ipertecnologico, dove arte ed entertainment si fondono senza offendere la morale, artigianato e robotica sembrano avere comuni radici e i new media sono caratterizzati dalle parole chiave di multidisciplinarietà, trascendenza dei generi artistici, attività diversificata ed esplorazione di nuovi campi. Antonio Caronia, docente presso l’Accademia di Brera, ha sintetizzato per il pubblico la storia dell’arte biotech, ovvero dell’arte che utilizza i dispositivi biologici come superficie, strumento e linguaggio delle ricerche di artisti come Stelarc ed Eduardo Kac, solo per fare alcuni nomi, sottolineandone i problemi nella conservazione delle rispettive opere. Per Caronia, infatti, l’arte biotech risponde al problema posto dall’avanguardia della continuità tra arte e vita, creando nuove forme di esistenza non su un piano meramente metaforico, bensì su quello reale.
Per tutti i relatori, infine, sono emerse le difficoltà, sia tecniche, di budget che teoriche, di costruire un archivio in grado di rappresentare queste forme d’arte nella loro totalità anche perché, è stato ripetuto più volte, “senza la storia non si costruisce un futuro”.
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santa nastro
dal 22 al 24 novembre 2007
Fastforward: on new media art International Forum
a cura di Laura Bardier, Marina Vergiani e Julia Dagranovic
PAN – Palazzo delle Arti Napoli – Palazzo Roccella
Via dei Mille, 60 (zona Chiaia) – 80121 Napoli
Info: tel. +39 0817958643; info@palazzoartinapoli.net; www.palazzoartinapoli.net
[exibart]