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25
giugno 2008
fino al 29.VI.2008 Mimmo Jodice Napoli, Museo di Capodimonte
napoli
Umano, troppo umano Jodice. Che dell’uomo di carne e di quello di tela con la stessa intensità fa sentire la pelle, il sangue, il respiro. E, soprattutto, ne ruba quella luce che ha un solo nome: vita...
di Anita Pepe
Fra tutti gli Sguardi lanciati da Capodimonte (prima da Olivo Barbieri, poi da Craigie Horsfield), si capisce subito che quello di Mimmo Jodice (Napoli, 1934) è lo sguardo d’un innamorato, aggiratosi per le strade di Napoli e nelle sale della reggia borbonica non tanto sul filo della storia dell’arte, ma d’una storia privata e sentimentale, così come intima e profonda è la relazione tra i soggetti messi in pendant.
Anche questi Transiti, infatti, coi quali si chiude la bella trilogia fotografica che Cristiana Colli ha curato per il cinquantenario della pinacoteca, viaggiano sulla falsariga dell’accostamento tipica dell’artista. Abbinamenti non già tra passato e presente, perché in questi pendant in bianco e nero il tempo è, volutamente, azzerato. E le coppie non nascono da un criterio di somiglianza formale, ma sistemate per affinità interiori. Un rapporto che non ha bisogno di essere spiegato, perché evidente. Alle tenebre del cuore, prima che ai lumi della ragione. Eppure organizzato da una logica ferrea.
E se nei cicli dedicati all’archeologia parlava il silenzio, qui s’incontrano e s’accavallano i rumori di una città disperatamente teatrale, che lambisce le sacre stanze dell’Arte con la dimensione della coralità. Perciò mancano indicazioni relative ai quadri fotografati (e poi scelti fra centinaia e centinaia di scatti), perché -spiega Jodice- “abbiamo fatto questo lavoro tutti insieme”.
Oloferne decapitato e la signora “incorniciata” dalla visagista, l’esangue certosino e la dama del milieu. Uomini e donne, vecchi e bambini. Seducenti, strafottenti, disperati, ironici, rassegnati, sconfitti, altezzosi. Il museo non è più un museo, sepolcreto di capolavori dall’alito freddo, ma un grumo brulicante di voci e di sguardi assorbiti e rimandati di panza. Viscere dove serpeggia il male oscuro, cifra dominante nelle pupille umide di un’ineffabile malinconia, un’inquietudine sospesa tra sensualità e morte, nei corpi vinti dalla peste e in quelli sfiniti dalla possessione devota.
Di retorica, certo, ce n’è -basterebbe pensare all’atavico, a non dire genetico, culto dei defunti- ma la maestria e la delicatezza dell’artista strappano i suoi soggetti “reali” (convenzionalmente, quelli in carne e ossa, i quali però contendono a quelli dipinti l’inganno dell’eternità) ai limiti del localismo, pur affermandone la peculiarità: facce che sembrerebbe impossibile trovare ancora oggi, oggi che vogliono pensarci tutti uguali. E magari sarà folclore, saranno cliché di facile presa emotiva, ma sotto sotto la grande anima di Jodice pare suggerire che forse è proprio tra le rughe e le croste di questa città superba e stracciata, cristallizzata in un perenne dopoguerra, che s’annida il terribile mistero della sopravvivenza.
Una città miracolosamente scampata a se stessa, sopravvissuta finché poteva. E che al tempo che l’aveva ridotta in cenere ha gettato una manciata di polvere negli occhi.
Anche questi Transiti, infatti, coi quali si chiude la bella trilogia fotografica che Cristiana Colli ha curato per il cinquantenario della pinacoteca, viaggiano sulla falsariga dell’accostamento tipica dell’artista. Abbinamenti non già tra passato e presente, perché in questi pendant in bianco e nero il tempo è, volutamente, azzerato. E le coppie non nascono da un criterio di somiglianza formale, ma sistemate per affinità interiori. Un rapporto che non ha bisogno di essere spiegato, perché evidente. Alle tenebre del cuore, prima che ai lumi della ragione. Eppure organizzato da una logica ferrea.
E se nei cicli dedicati all’archeologia parlava il silenzio, qui s’incontrano e s’accavallano i rumori di una città disperatamente teatrale, che lambisce le sacre stanze dell’Arte con la dimensione della coralità. Perciò mancano indicazioni relative ai quadri fotografati (e poi scelti fra centinaia e centinaia di scatti), perché -spiega Jodice- “abbiamo fatto questo lavoro tutti insieme”.
Oloferne decapitato e la signora “incorniciata” dalla visagista, l’esangue certosino e la dama del milieu. Uomini e donne, vecchi e bambini. Seducenti, strafottenti, disperati, ironici, rassegnati, sconfitti, altezzosi. Il museo non è più un museo, sepolcreto di capolavori dall’alito freddo, ma un grumo brulicante di voci e di sguardi assorbiti e rimandati di panza. Viscere dove serpeggia il male oscuro, cifra dominante nelle pupille umide di un’ineffabile malinconia, un’inquietudine sospesa tra sensualità e morte, nei corpi vinti dalla peste e in quelli sfiniti dalla possessione devota.
Di retorica, certo, ce n’è -basterebbe pensare all’atavico, a non dire genetico, culto dei defunti- ma la maestria e la delicatezza dell’artista strappano i suoi soggetti “reali” (convenzionalmente, quelli in carne e ossa, i quali però contendono a quelli dipinti l’inganno dell’eternità) ai limiti del localismo, pur affermandone la peculiarità: facce che sembrerebbe impossibile trovare ancora oggi, oggi che vogliono pensarci tutti uguali. E magari sarà folclore, saranno cliché di facile presa emotiva, ma sotto sotto la grande anima di Jodice pare suggerire che forse è proprio tra le rughe e le croste di questa città superba e stracciata, cristallizzata in un perenne dopoguerra, che s’annida il terribile mistero della sopravvivenza.
Una città miracolosamente scampata a se stessa, sopravvissuta finché poteva. E che al tempo che l’aveva ridotta in cenere ha gettato una manciata di polvere negli occhi.
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dal 22 maggio al 29 giugno 2008
Uno sguardo da Capodimonte. Mimmo Jodice – Transiti
a cura di Cristiana Colli
Museo di Capodimonte
Via di Milano, 2 – 80131 Napoli
Orario: da giovedì a martedì ore 14.30-19.30
Ingresso: intero € 10; ridotto € 7/5
Catalogo Electa Napoli
Info: tel. +39 0817499111; fax +39 0812294498; artina@arti.beniculturali.it; www.museo-capodimonte.it
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