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17
marzo 2008
libri_manuali China Art Book (dumont 2007)
Libri ed editoria
Con le Olimpiadi alle porte e le “pesanti” presenze in rassegne come Documenta e Biennale di Venezia, la Cina non cessa di far parlare di sé. E dopo il primo manuale degno di questo nome dedicato all’arte contemporanea cinese, dalla Germania arriva un regesto. Ottanta ragioni per occuparsi d’Oriente...
Correva l’anno 2006 quando, per i tipi di Electa e con le firme di Dalu Jones, Filippo Salviati e Mariagrazia Costantino, usciva Arte contemporanea cinese. Si trattava e tuttora si tratta dell’unico volume che, con un taglio crono-tematico, avesse come obiettivo l’introduzione approfondita a un mondo che il mercato e una serie di eventi espositivi di più o meno ampia portata avevano già posto all’attenzione del pubblico. Degli “addetti ai lavori” ma anche dei “semplici appassionati”.
Il tentativo, peraltro riuscito pienamente, di procedere alla storicizzazione del fenomeno testimoniava a favore dell’arte cinese contemporanea. In altre parole, considerarla una mera ed effimera moda destinata a scemare significava – e a maggior ragione significa oggi – restare ancorati a un “occidentrismo” non solo e non tanto politically uncorrect, ma miope dal cospetto di quella nicchia economica non trascurabile che è appunto il mercato globale dell’arte contemporanea. Senza peraltro considerare il dato meramente statistico concernente il potenziale umano che la Cina possiede e può dispiegare in ogni comparto del “sistema” artistico.
D’altro canto, una delle possibili dimostrazioni di tale persistenza era palese in almeno un paio di tappe del “Grand Tour” della scorsa estate. A Kassel, la dodicesima Documenta aveva in Ai Weiwei uno dei suoi protagonisti, data l’inevitabile invasività costituita dalle 1001 sedute risalenti alla dinastia Qing e ai relativi 1001 cinesi che, suddivisi in cinque gruppi, le hanno occupate per la performance Fairytales. Mentre, a Venezia, il percorso ideato da Robert Storr negli spazi dell’Arsenale era punteggiato dai film in 35 millimetri della serie Seven Intellectuals in Bamboo Forest di Yang Fudong.
Il volume curato da Uta Grosenick e Caspar H. Schübbe risulta complementare rispetto al libro italiano e al suo taglio manualistico, fungendo in primo luogo da strumento consultivo. Infatti, per ognuno degli ottanta artisti selezionati e ordinati cronologicamente, il lettore troverà innanzitutto una breve introduzione critica, offerta in tre lingue (inglese, tedesco e cinese) e firmata da uno dei dodici contributor (Feng Boyi, Biljana Ciric, Birgit Hopfener, Wu Hung, Gregor Jansen, Carol Lu, Victoria Lu, Barbara Pollack, Karen Smith, David Spalding, Philip Tinari e Qiu Zhijie). A seguire, non manca naturalmente l’apparato iconografico, piuttosto esteso e di ottima qualità, unitamente a una bio-bliografia e a un breve statement dell’artista. Il tutto confezionato in una veste grafica assai meno scontata di quanto si potrebbe pensare, grazie innanzitutto al lavoro del designer svedese Jonas Lundin.
Ad aprire questo China Art Book, oltre a un’intervista con il succitato Ai Weiwei, va segnalata la breve quanto aggiornata e chiara introduzione di Birgit Hopfener. La quale rammenta come agli inizi degli anni ’90, in Cina, esistessero soltanto cinque gallerie che trattavano arte contemporanea. Mentre dopo appena una quindicina d’anni si possono contare le biennali di Beijing e Shanghai, le triennali di Guangzhou e quella itinerante Nanjing, la casa d’aste locale Guardian, il collezionista e mecenate Guan Yi, musei pubblici e privati come, rispettivamente, il Duolun di Shanghai e l’Ucca di Beijing, e infine le fiere, in primis con l’ultima arrivata, la già notevole ShContemporary di Shanghai. E con le Olimpiadi alle porte e le decine di cantieri per i nuovi musei, il trend non potrà che essere positivo, almeno per qualche anno ancora.
Il tentativo, peraltro riuscito pienamente, di procedere alla storicizzazione del fenomeno testimoniava a favore dell’arte cinese contemporanea. In altre parole, considerarla una mera ed effimera moda destinata a scemare significava – e a maggior ragione significa oggi – restare ancorati a un “occidentrismo” non solo e non tanto politically uncorrect, ma miope dal cospetto di quella nicchia economica non trascurabile che è appunto il mercato globale dell’arte contemporanea. Senza peraltro considerare il dato meramente statistico concernente il potenziale umano che la Cina possiede e può dispiegare in ogni comparto del “sistema” artistico.
D’altro canto, una delle possibili dimostrazioni di tale persistenza era palese in almeno un paio di tappe del “Grand Tour” della scorsa estate. A Kassel, la dodicesima Documenta aveva in Ai Weiwei uno dei suoi protagonisti, data l’inevitabile invasività costituita dalle 1001 sedute risalenti alla dinastia Qing e ai relativi 1001 cinesi che, suddivisi in cinque gruppi, le hanno occupate per la performance Fairytales. Mentre, a Venezia, il percorso ideato da Robert Storr negli spazi dell’Arsenale era punteggiato dai film in 35 millimetri della serie Seven Intellectuals in Bamboo Forest di Yang Fudong.
Il volume curato da Uta Grosenick e Caspar H. Schübbe risulta complementare rispetto al libro italiano e al suo taglio manualistico, fungendo in primo luogo da strumento consultivo. Infatti, per ognuno degli ottanta artisti selezionati e ordinati cronologicamente, il lettore troverà innanzitutto una breve introduzione critica, offerta in tre lingue (inglese, tedesco e cinese) e firmata da uno dei dodici contributor (Feng Boyi, Biljana Ciric, Birgit Hopfener, Wu Hung, Gregor Jansen, Carol Lu, Victoria Lu, Barbara Pollack, Karen Smith, David Spalding, Philip Tinari e Qiu Zhijie). A seguire, non manca naturalmente l’apparato iconografico, piuttosto esteso e di ottima qualità, unitamente a una bio-bliografia e a un breve statement dell’artista. Il tutto confezionato in una veste grafica assai meno scontata di quanto si potrebbe pensare, grazie innanzitutto al lavoro del designer svedese Jonas Lundin.
Ad aprire questo China Art Book, oltre a un’intervista con il succitato Ai Weiwei, va segnalata la breve quanto aggiornata e chiara introduzione di Birgit Hopfener. La quale rammenta come agli inizi degli anni ’90, in Cina, esistessero soltanto cinque gallerie che trattavano arte contemporanea. Mentre dopo appena una quindicina d’anni si possono contare le biennali di Beijing e Shanghai, le triennali di Guangzhou e quella itinerante Nanjing, la casa d’aste locale Guardian, il collezionista e mecenate Guan Yi, musei pubblici e privati come, rispettivamente, il Duolun di Shanghai e l’Ucca di Beijing, e infine le fiere, in primis con l’ultima arrivata, la già notevole ShContemporary di Shanghai. E con le Olimpiadi alle porte e le decine di cantieri per i nuovi musei, il trend non potrà che essere positivo, almeno per qualche anno ancora.
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marco enrico giacomelli
*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 48. Te l’eri perso? Abbonati!
Uta Grosenick & Caspar H. Schübbe (eds.) – China Art Book
DuMont, Köln 2007
Pagg. 670, € 39,90, ing./ted./cin.
ISBN 9783832177690
Info: www.dumontliteraturundkunst.de
[exibart]
e mo’ aspettiamo che l’arte cinese parli di politica, di libertà, e del tibet…