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28
gennaio 2010
fino al 14.II.2010 Henri Cartier-Bresson Genova, Palazzo Ducale
genova
Una tessera alla volta. Dal Baltico all’Asia centrale, ecco restituito il mosaico delle genti di Russia, colte nel pieno della Guerra Fredda. Il legante? Una divertita e geniale irriverenza...
La
prima volta è stata con il cadavere di Stalin ancora caldo. La seconda negli
anni in cui il regime sapeva già di maniera. Due viaggi a distanza di quasi
vent’anni, due incontri fatali con l’Unione Sovietica per Henri
Cartier-Bresson (Chanteloup, 1908 – Isle-sur-la-Sorgue, 2004)
per la prima volta in Italia con i taccuini d’immagini che nel 1954 e nel
biennio ’72-’73 ha tratto dal suo peregrinare tra Mosca e gli Urali.
Una
felicità narrativa non comune, un’immediatezza linguistica sconcertante: scatti
che grattano la superficiale e obnubilante retorica di partito e affondano
nello spirito e nella carne di genti e paesi, indugiando su sguardi sempre
ricchi e curiosi. Una civiltà bambina, naïf, quasi inconsapevole: è con
benevola ironia che Cartier-Bresson distrugge un mattone alla volta la fosca
muraglia della burocrazia sovietica, scovando ovunque genuinità e dissacrante
semplicità.
Soprattutto:
senza insistere sulla Russia da protocollo; indagando semmai gli anfratti più
reconditi di un paese finalmente restituito nella sua sterminata e variopinta
complessità; nella lettura dei profili misteriosi delle lande caucasiche e
armene, rievocando il fascino incandescente delle cronache di Gurdjieff.
Ecco:
è forse nei ritratti del mistico armeno che possiamo rintracciare i parenti più
prossimi di quelli del fotografo francese. Pur nella distanza cronologica e
nella diversa scelta di mezzo espressivo, si legge l’analoga purezza
dialettica, l’innata e irresistibile capacità di riconoscere l’autenticità in
tutte le sue forme, la sensibilità di replicare una diffusa Città della
gioia, che si trova priva di confini, totale.
Non
c’è sconcezza o ferocia nella povertà che scova Cartier-Bresson: c’è la frugale,
egalitaria, umanissima dignità dei pezzenti di van Gogh; e non c’è
stucchevole banalità nell’antimilitarismo che permea gli scatti dove compare
l’Armata Rossa. Ingolfati in divise che sembrano enormi, sopraffatti da
stendardi e bandiere ingestibili, i soldati irrompono dalle fotografie nei loro
occhi di spiazzante ingenuità, e rivelano la natura follemente e terribilmente
giocosa d’ogni eccesso bellicistico. Nascono così parate carnascialesche che
tradiscono confusi echi gitani; gli orizzonti di gloria franano sotto i tacchi
degli stivali, all’affacciarsi curioso di una bambina che fa capolino fra i
reparti passati in rassegna sulla Piazza Rossa.
Oltre
la visione, al di là del messaggio più o meno chiaro e condivisibile, persiste
la meraviglia per l’istinto di cacciatore di un artista che sapeva tendere trappole
di inarrivabile e originale raffinatezza. Trappole nelle quali “l’attimo”
finiva per cadere con micidiale regolarità.
prima volta è stata con il cadavere di Stalin ancora caldo. La seconda negli
anni in cui il regime sapeva già di maniera. Due viaggi a distanza di quasi
vent’anni, due incontri fatali con l’Unione Sovietica per Henri
Cartier-Bresson (Chanteloup, 1908 – Isle-sur-la-Sorgue, 2004)
per la prima volta in Italia con i taccuini d’immagini che nel 1954 e nel
biennio ’72-’73 ha tratto dal suo peregrinare tra Mosca e gli Urali.
Una
felicità narrativa non comune, un’immediatezza linguistica sconcertante: scatti
che grattano la superficiale e obnubilante retorica di partito e affondano
nello spirito e nella carne di genti e paesi, indugiando su sguardi sempre
ricchi e curiosi. Una civiltà bambina, naïf, quasi inconsapevole: è con
benevola ironia che Cartier-Bresson distrugge un mattone alla volta la fosca
muraglia della burocrazia sovietica, scovando ovunque genuinità e dissacrante
semplicità.
Soprattutto:
senza insistere sulla Russia da protocollo; indagando semmai gli anfratti più
reconditi di un paese finalmente restituito nella sua sterminata e variopinta
complessità; nella lettura dei profili misteriosi delle lande caucasiche e
armene, rievocando il fascino incandescente delle cronache di Gurdjieff.
Ecco:
è forse nei ritratti del mistico armeno che possiamo rintracciare i parenti più
prossimi di quelli del fotografo francese. Pur nella distanza cronologica e
nella diversa scelta di mezzo espressivo, si legge l’analoga purezza
dialettica, l’innata e irresistibile capacità di riconoscere l’autenticità in
tutte le sue forme, la sensibilità di replicare una diffusa Città della
gioia, che si trova priva di confini, totale.
Non
c’è sconcezza o ferocia nella povertà che scova Cartier-Bresson: c’è la frugale,
egalitaria, umanissima dignità dei pezzenti di van Gogh; e non c’è
stucchevole banalità nell’antimilitarismo che permea gli scatti dove compare
l’Armata Rossa. Ingolfati in divise che sembrano enormi, sopraffatti da
stendardi e bandiere ingestibili, i soldati irrompono dalle fotografie nei loro
occhi di spiazzante ingenuità, e rivelano la natura follemente e terribilmente
giocosa d’ogni eccesso bellicistico. Nascono così parate carnascialesche che
tradiscono confusi echi gitani; gli orizzonti di gloria franano sotto i tacchi
degli stivali, all’affacciarsi curioso di una bambina che fa capolino fra i
reparti passati in rassegna sulla Piazza Rossa.
Oltre
la visione, al di là del messaggio più o meno chiaro e condivisibile, persiste
la meraviglia per l’istinto di cacciatore di un artista che sapeva tendere trappole
di inarrivabile e originale raffinatezza. Trappole nelle quali “l’attimo”
finiva per cadere con micidiale regolarità.
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Palazzo Ducale – Loggia degli Abati
Piazza Matteotti, 9 – 16123 Genova
Orario: da martedì a domenica ore 9-19
Ingresso: intero € 5; ridotto € 4
Catalogo Contrasto
Info: tel. +39 0105574064; biglietteria@palazzoducale.genova.it; www.palazzoducale.genova.it
[exibart]
Grande Bresson come sempre.