Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Il mondo magico descritto dall’etnologo Ernesto De Martino (1908-1965) si riassume in uno scontro incessante, intrapreso dal genere umano per riaffermare la propria esistenza. Attraverso il rituale magico, sia esso mistico, religioso, politico o sociale, l’uomo può scongiurare il dramma dell’annullamento, operato dalle forze naturali. Tale discorso è stato idealmente ripreso da Cecilia Alemani che con la sua mostra, intitolata appunto “Il Mondo Magico”, ha totalmente rivoluzionato l’essenza del Padiglione Italia alla 57. Biennale di Venezia, selezionando tre artisti: Giorgio Andreotta Calò, Roberto Cuoghi e Adelita Husni-Bey. L’appiglio ideologico scelto dalla curatrice mi è sembrato sin da subito perfettamente in sintonia con un Padiglione Italia storicamente obnubilato e dalle sorti incerte, sempre sul punto di dissolversi tra la moltitudine scomposta di artisti che lo hanno occupato e l’indifferenza della stampa straniera tutta, fatta eccezione per la sequela di critiche negative sollevate dall’edizione curata da Vittorio Sgarbi. La magia che mancava da tempo rischiava di cancellare l’Italia dalla mappa dell’arte contemporanea. Ecco quindi che il padiglione di Cecilia Alemani ci appare spontaneamente magico per diversi motivi, fantastico in quanto tale e non sistematico, uno sparigliar le carte in tavola, sostituendole con mistici tarocchi in grado di prevedere il futuro, o per meglio dire, in grado di creare la speranza di futuri possibili.
Quella di Cecilia Alemani è stata una scelta coraggiosa non solo per il numero di partecipanti, bensì anche per l’impianto curatoriale che poteva virare pericolosamente verso una magia indotta forzatamente, un tentativo di sorprendere ad ogni costo mediante la costruzione di un mondo immaginario in cui tutto è il contrario del reale. Una costruzione della magia che di fatto impone la sua stessa essenza al fruitore come nuovo ordine, annientandosi. Ed invece la suggestione del fantastico emanata dalle scelte della giovane curatrice è un qualcosa di non istituzionalizzato, una selezione decisa che non dipende necessariamente da un’intenzione ferrea, lasciando così posto ad un mondo magico che regala allo spettatore un’aura di clandestinità e nasce da una contraddizione stessa della realtà. Per questo il mondo magico di Cecilia Alemani scuote i nostri animi e riaccende l’interesse per la magia imponderabile e spontanea, una curiosità che spinge ad ammirare attoniti la trasformazione alchemica dei corpi operata da Roberto Cuoghi o la porta dimensionale di Giorgio Andreotta Calò, creatore di mondi paralleli che palesano l’esistenza dell’enigma all’interno delle cose quotidiane. Due opere finalmente monumentali e libere che da sole bastano a riaprire il discorso sulla magia. Sono proprio i due artisti a riaffermare la presenza nell’arte italiana di una componente fantastica ed involontaria che sin da subito ci appare come imponderabile ed inquietante, scaturita da chissà quali oscure tenebre e che lo spettatore accoglie come un presagio naturale, come l’arrivo di una tempesta rivoluzionaria. Perdutamente in bilico tra la marcescenza e la rinascita del corpo, questo mondo magico passa attraverso cunicoli trasparenti per trasformarsi in altro, in reliquia o forma alchemica. Un mondo che era lì, tra le forme del quotidiano e solo adesso che lo vediamo riflesso, riusciamo a percepire la sua grandezza. Un motore occulto, quello messo in moto da Cecilia Alemani, che potrebbe funzionare anche a due carburatori, visto che il seppur ben confezionato intreccio mistico-sociale di Adelita Husni-Bey stenta a prendere corpo, rimanendo in bilico tra un diamante grezzo ed una strizzatina d’occhio ai rituali filmici di The OA di Brit Marling. La fabbrica fantastica di Cecilia Alemani si avvicina quindi a quella “possibilità di porre problemi la cui soluzione conduca all’allargamento dell’autocoscienza della nostra civiltà” proposta da Ernesto De Martino ed anche se alla stampa straniera e ad altri addetti del settore fuori dai nostri confini, questo Padiglione Italia potrà sembrare un ottimo lavoro e nulla più, ai desiderosi di magia questo sembrerà l’ingresso di un mondo nuovo.
“Viva Arte Viva”, La mostra centrale architettata da Christine Macel, si ripropone anch’essa di offrire un mondo nuovo ai neofiti dell’arte contemporanea ed in parte riesce nell’intento sciorinando 120 artisti, più della metà dei quali è al completo esordio in Biennale. Un plauso al tentativo della curatrice di uscire fuori dai temi strettamente legati all’universo politico-sociale che hanno segnato buona parte delle ultime edizioni, mirando al cuore dell’energia viva e vitale che contraddistingue la pratica artistica. Le magie però sembrano riuscire solo in casa Gioni-Alemani ed i mini padiglioni zeppi di colori, stoffe e pietre stentano a collimare fra loro. Emergono tra la moltitudine di cose belle, e molte altre meno, le meravigliose falene di Petrit Halilaj e le colonne di sale di Julian Charrière. Olafur Eliasson, da par suo, apre le danze ai giardini con un workshop corale in favore degli immigrati, e la scelta spiazzante è senza dubbio una prova di coraggio che nobilita gli intenti didattici della curatrice. Eppure tutto sembra infilato a forza dentro un piccolo cestino che vorrebbe raccogliere i migliori frutti della stagione. Se ai Giardini tutto sembra filare liscio, seppur con qualche intoppo, il duro campo dell’Arsenale fa colare a picco la corazzata sciamanica di Christine Macel che appare orientata a ribadire la vittoria sul sole del postcolonialismo. Una mostra centrale che non rimarrà di certo nella storia ma che mostra un possibile scenario per la mostra ideale: ridotto numero di artisti, impianto didattico solido, proposte dissimili da quel che offre solitamente la scena internazionale. In sostanza Christine Macel chiude con la medaglia di bronzo la sua olimpiade Biennale.
Parlando del Leone D’oro, Anne Imhof e gli ammutinati del suo Faust riescono da soli a conquistare Venezia. Il drappello prende d’assalto il padiglione tedesco e lo sovverte con una violenza poetica. Tra le cinque e le sette ore di performance dove succede di tutto, sotto i nostri piedi e sopra le nostre teste. Attorno allo spazio il coyote di Beuys si è trasformato in dobermann ed il suo è un simbolo di controllo, di protezione, di segregazione, i ragazzi dello zoo di Berlino hanno trasformato la loro dipendenza in sadomasochismo. Tutto si muove e si mostra come una sfilata su di una passerella infernale, i corpi si tendono, si fondono e si spingono tra masturbazioni e giochi simbolici, voci celestiali riscaldano i cuori della gente che cerca di scorgere ciò che succede nel sottosuolo di cristallo, falò improvvisi avvampano gli animi di chi cerca di rubare qualche brandello corporeo emaciato ma spudoratamente bello. La flotta degli zombie stilosi di Anne Imhof danza una coreografia del caos e dell’abbandono, segno di tempi in cui la bellezza è ai nostri piedi, possiamo vederla ma non raccoglierla. La giovane artista vince con la sola forza delle idee, al di là dei costosi ed ingombranti impianti scenici che molti suoi colleghi hanno scelto di architettare per tentare di stupire il pubblico.
Il momento più bello, invece, quello di Gal Weinstein e il suo Sun Stand Still al padiglione israeliano. L’impianto ideologico scaturisce dalla cultura nazionale, vale a dire l’episodio biblico in cui Giosuè comandò al sole di restare fermo nel cielo per permettere agli israeliti di battere i re di Canaan. Al piano superiore dello spazio una veduta aerea dei campi di Jezreel interamente realizzata con del caffè lasciato ad ammuffire forma un suolo onirico che colpisce lo spettatore stimolando olfatto e memoria. Il lavoro dell’artista israeliano inizia però dalle pareti e dal pavimento del piano inferiore, completamente coperto da lana di vetro. L’identità di Israele si rispecchia all’interno di un padiglione in trasformazione ma al tempo stesso in lenta decadenza. La democrazia e l’avanzamento socio-tecnologico fanno da contrappunto alla distruzione, la modernità si fonde con il tempo biblico.
Micol Di Veroli
Che bel pezzo, Micol! Brava e grazie
Adriana
Cara Micol di Veroli, il padiglione Germania non é assolutamente un progetto a basso costo. Si tratta di quasi tre milioni di euro di produzione. E bisognerebbe averne cognizione, soprattutto come addetti ai lavori!
Scusami tanto,
ma dove sta scritto in questo articolo che quello della Germania è un padiglione economico?