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ID.
Foto, video, installazioni
Comunicato stampa
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Mercoledì 1 giugno, alle 19.30, inaugura a Roma presso i nuovi ambienti del Granma adiacenti a Via dei Coronari la mostra ID., tripla personale composta da fotografie, video, installazioni di Simone Giovagnorio, Benedetta Panisson, Chiara Tommasi.
Pensata specificamente per lo spazio ospitante, ID. concede ad ogni artista invitato una stanza da gestire autonomamente, da “occupare” secondo personali esigenze d’allestimento che possano soddisfare la necessità di libertà ed intimità utile all’attenuazione delle tipiche costrizioni espositive.
Partendo da recenti esperienze video dei tre artisti coinvolti -rappresentanti di altrettante classi: ’75, ’80 e ‘66- la mostra presenterà loro opere fotografiche e installazioni dedicate al tema più che mai attuale dell’adattabilità e del riconoscimento, dell’accettazione (o rifiuto) dell’io apparente.
Si creeranno pertanto spazi privati capaci di accogliere le volontà espressive di ogni singolo artista, ambientando contemporaneamente il visitatore all’interno di una dimensione non più di semplice fruizione visiva, ma mentale, e conducendolo, attraverso le abitudini tipiche dei rapporti privati, nel mondo voluto esclusivamente dall’artista.
“Di qui non si esce, finché io non vi abbia offerto uno specchio in cui possiate vedere la più riposta parte di voi.”
Riflessioni e note interpretative
WHOISWHO?
Domande senza risposta sulla convenienza estetica dell’incertezza.
“…ed io non voglio più essere io.”
E nessun altro.
Voglio non essere?
Se ci provassi, a diventare qualcuno, sarei come chiunque altro? Sarei comunque come chiunque altro?
E’ la storia nota dell’identificazione in divenire che annulla l'identità costretta per cercarne una nuova, ma resta ferma lì. Non trova e non può continuare la ricerca, già ai limiti della possibilità e dello stereotipo.
Sono mentre cerco di essere?
Prima e dopo mi limito ad intuire, a dedurre (forse) chi non voglia essere?
Può bastare, non essere, oppure serve capire chi si potrebbe essere, chi vorremmo emulare, per esistere?
C’è chi corre verso l’insieme, addosso al patchwork degli stili caratteriali e non caratteristici, così da usufruire di identità transitorie utilizzabili come sportelli bancomat senza pin.
C’è chi si sfonda di parole pronte vendute in libreria o di momenti d’attualità da cui prendere spunto. L’appropriazione, quindi, facilita il compito e accorcia i tempi, ma se l’io continua a sembrare quello di chiunque altro, abbiamo vinto o perso la battaglia per la conquista della definizione?
E basta davvero un videofonino per convincerci di come siamo fatti? Lo specchio è sempre attendibile?
A queste e a tutte le altre possibili domande sul tema non risponde ID. Non sono nemmeno certo che ci provi, a rispondere, ma sicuramente si diletta a chiedere e a chiedersi, a volersi come bisogno impellente e primario di sé (qualunque esso sia). Non a caso le opere esposte, i video che scorrono in loop quasi a replicarsi all’infinito, le installazioni pensate per gli ambienti a disposizione e quindi lì collocate, ferme e incerte al contempo, rappresentano -loro per prime- realtà interiori parallele, collaterali e multiple, che riproducono spesso le sembianze del loro stesso artefice che assieme a quelli dell’autore veste quindi i panni dell’attore nel tentativo di collaudare, sentire e subire nuove eventualità.
Da Stevenson a De Palma l’io opposto (quello infame e sincero, quello che compensa la goffaggine dei supereroi in borghese, di Norman Bates delicati e assassini o più semplicemente e realisticamente di individui alle prese con una seconda vita) ha nutrito l’alternanza di valori e di voleri per risarcire la banalità delle vite in saldo modellate su profili pubblici.
I casi di ID. sono casi meno consueti. I lavori dei tre artisti invitati ad ammettere la propria indecisa identità spaziano dalla rappresentazione del gesto ripetuto, replicante, alla sopportazione dello stesso, dall’aggregazione in provetta “due in uno” all’annullamento dei caratteri somatici, dall’evidente malessere (dal quale, attraverso un atto di preghiera bianco e rosso senza amen, l’artista chiede di essere liberata) alla diagnosticata inesistenza soggettiva.
I percorsi proposti affermano sì l’individualità dell’azione, ma mai il raggiungimento del quieto vivere che, pur travestito da attuale e probabile anestetico anagrafico, sembra non voler concedere all’artista la stretta e forse poco stimolante inevitabilità di generalità precise.
Simone Giovagnorio (Roma, 1975)
Profondamente interessato alle tematiche legate all’omologazione indotta dell’uomo, alla serialità dei suoi sistemi urbani e consumistici, propone con il video “TOI” un viaggio visionario all’interno di un corto circuito ottico e percettivo che coinvolge la staticità di certi spostamenti, l’annientamento della soggettività e la perdita di una lucida capacità psicomotoria diventata sconnessa a causa dello smarrimento di un’identità precisa che possa rendere l’individuo un singolo individuo e non il componente di un insieme anonimo.
Le sue opere fotografiche affrontano le problematiche di una collettività disastrata dai propri comportamenti autolesionistici mentre le installazioni dialogano con diversi aspetti della malattia e della biotecnologia più esasperata, capace di rendere plausibile un sogno simbiotico futuribile decisamente lontano da specifici pregiudizi affettivi.
Benedetta Panisson (Venezia, 1980)
Presenta la sua ultima videoinstallazione, “LIBERAMI DAL MALE”, composta da una trasmissione in loop e dall’affissione di quattro fotografie visibili assumendo un diverso punto di vista rispetto a quello che permette la fruizione del video. Il suo lavoro analizza la mimica della spiritualità incerta alla ricerca di una guarigione quasi esorcistica, di un’enervazione che possa rimediare all’ossessiva e confusionaria (in)certezza dell’io nell’io, del legame legato, di un sé che convive con propri multipli interni che interessano corpo, mente e metodo. Accanto alla soffice e quasi femminile maniera della protagonista del video (la stessa Panisson), gli scatti fotografici riproducono alcuni dei momenti filmati caricati però d’impeto e rabbia insoddisfatta che probabilmente non saprà placarsi, confermando ulteriormente l’irraggiungibilità di una pace personale in grado di fornire risposte o solo riposo.
Chiara Tommasi (Ravenna, 1966)
E’ indubbiamente la femminilità ad abitare la stanza di Chiara Tommasi. L’essere donna, nei due video dell’artista e nelle sue gigantografie, deve prevedere e conteggiare (all’infinito) gesti, movenze e pose la cui indole iperavvolgente e totalizzante sfiora il parossismo e patisce le aspettative. Il corpo, le fattezze e i doveri della sensualità sembrano allarmati dalla loro stessa affermazione, così convinta, così decisamente convinta, da dimenticare la spontaneità per attenersi all’impegno e al ruolo impiegatizio dell’estetica più docile.
Il moto perpetuo quindi quale punto d’arrivo dal quale tornare: un’inversione comportamentale voluta dall’insopportabilità di una funzione troppo a lungo sostenuta e rispettata, al limite della resistenza e poi del pentimento. Il sesso affermato, insoddisfatto della propria ricorrente attendibilità, continua a cercarsi e lamentarsi, ad agitarsi, per testimoniare a voce alta la rilevanza decisiva e vincolante del soddisfacimento istintuale non prescritto.
Stefano Elena
Pensata specificamente per lo spazio ospitante, ID. concede ad ogni artista invitato una stanza da gestire autonomamente, da “occupare” secondo personali esigenze d’allestimento che possano soddisfare la necessità di libertà ed intimità utile all’attenuazione delle tipiche costrizioni espositive.
Partendo da recenti esperienze video dei tre artisti coinvolti -rappresentanti di altrettante classi: ’75, ’80 e ‘66- la mostra presenterà loro opere fotografiche e installazioni dedicate al tema più che mai attuale dell’adattabilità e del riconoscimento, dell’accettazione (o rifiuto) dell’io apparente.
Si creeranno pertanto spazi privati capaci di accogliere le volontà espressive di ogni singolo artista, ambientando contemporaneamente il visitatore all’interno di una dimensione non più di semplice fruizione visiva, ma mentale, e conducendolo, attraverso le abitudini tipiche dei rapporti privati, nel mondo voluto esclusivamente dall’artista.
“Di qui non si esce, finché io non vi abbia offerto uno specchio in cui possiate vedere la più riposta parte di voi.”
Riflessioni e note interpretative
WHOISWHO?
Domande senza risposta sulla convenienza estetica dell’incertezza.
“…ed io non voglio più essere io.”
E nessun altro.
Voglio non essere?
Se ci provassi, a diventare qualcuno, sarei come chiunque altro? Sarei comunque come chiunque altro?
E’ la storia nota dell’identificazione in divenire che annulla l'identità costretta per cercarne una nuova, ma resta ferma lì. Non trova e non può continuare la ricerca, già ai limiti della possibilità e dello stereotipo.
Sono mentre cerco di essere?
Prima e dopo mi limito ad intuire, a dedurre (forse) chi non voglia essere?
Può bastare, non essere, oppure serve capire chi si potrebbe essere, chi vorremmo emulare, per esistere?
C’è chi corre verso l’insieme, addosso al patchwork degli stili caratteriali e non caratteristici, così da usufruire di identità transitorie utilizzabili come sportelli bancomat senza pin.
C’è chi si sfonda di parole pronte vendute in libreria o di momenti d’attualità da cui prendere spunto. L’appropriazione, quindi, facilita il compito e accorcia i tempi, ma se l’io continua a sembrare quello di chiunque altro, abbiamo vinto o perso la battaglia per la conquista della definizione?
E basta davvero un videofonino per convincerci di come siamo fatti? Lo specchio è sempre attendibile?
A queste e a tutte le altre possibili domande sul tema non risponde ID. Non sono nemmeno certo che ci provi, a rispondere, ma sicuramente si diletta a chiedere e a chiedersi, a volersi come bisogno impellente e primario di sé (qualunque esso sia). Non a caso le opere esposte, i video che scorrono in loop quasi a replicarsi all’infinito, le installazioni pensate per gli ambienti a disposizione e quindi lì collocate, ferme e incerte al contempo, rappresentano -loro per prime- realtà interiori parallele, collaterali e multiple, che riproducono spesso le sembianze del loro stesso artefice che assieme a quelli dell’autore veste quindi i panni dell’attore nel tentativo di collaudare, sentire e subire nuove eventualità.
Da Stevenson a De Palma l’io opposto (quello infame e sincero, quello che compensa la goffaggine dei supereroi in borghese, di Norman Bates delicati e assassini o più semplicemente e realisticamente di individui alle prese con una seconda vita) ha nutrito l’alternanza di valori e di voleri per risarcire la banalità delle vite in saldo modellate su profili pubblici.
I casi di ID. sono casi meno consueti. I lavori dei tre artisti invitati ad ammettere la propria indecisa identità spaziano dalla rappresentazione del gesto ripetuto, replicante, alla sopportazione dello stesso, dall’aggregazione in provetta “due in uno” all’annullamento dei caratteri somatici, dall’evidente malessere (dal quale, attraverso un atto di preghiera bianco e rosso senza amen, l’artista chiede di essere liberata) alla diagnosticata inesistenza soggettiva.
I percorsi proposti affermano sì l’individualità dell’azione, ma mai il raggiungimento del quieto vivere che, pur travestito da attuale e probabile anestetico anagrafico, sembra non voler concedere all’artista la stretta e forse poco stimolante inevitabilità di generalità precise.
Simone Giovagnorio (Roma, 1975)
Profondamente interessato alle tematiche legate all’omologazione indotta dell’uomo, alla serialità dei suoi sistemi urbani e consumistici, propone con il video “TOI” un viaggio visionario all’interno di un corto circuito ottico e percettivo che coinvolge la staticità di certi spostamenti, l’annientamento della soggettività e la perdita di una lucida capacità psicomotoria diventata sconnessa a causa dello smarrimento di un’identità precisa che possa rendere l’individuo un singolo individuo e non il componente di un insieme anonimo.
Le sue opere fotografiche affrontano le problematiche di una collettività disastrata dai propri comportamenti autolesionistici mentre le installazioni dialogano con diversi aspetti della malattia e della biotecnologia più esasperata, capace di rendere plausibile un sogno simbiotico futuribile decisamente lontano da specifici pregiudizi affettivi.
Benedetta Panisson (Venezia, 1980)
Presenta la sua ultima videoinstallazione, “LIBERAMI DAL MALE”, composta da una trasmissione in loop e dall’affissione di quattro fotografie visibili assumendo un diverso punto di vista rispetto a quello che permette la fruizione del video. Il suo lavoro analizza la mimica della spiritualità incerta alla ricerca di una guarigione quasi esorcistica, di un’enervazione che possa rimediare all’ossessiva e confusionaria (in)certezza dell’io nell’io, del legame legato, di un sé che convive con propri multipli interni che interessano corpo, mente e metodo. Accanto alla soffice e quasi femminile maniera della protagonista del video (la stessa Panisson), gli scatti fotografici riproducono alcuni dei momenti filmati caricati però d’impeto e rabbia insoddisfatta che probabilmente non saprà placarsi, confermando ulteriormente l’irraggiungibilità di una pace personale in grado di fornire risposte o solo riposo.
Chiara Tommasi (Ravenna, 1966)
E’ indubbiamente la femminilità ad abitare la stanza di Chiara Tommasi. L’essere donna, nei due video dell’artista e nelle sue gigantografie, deve prevedere e conteggiare (all’infinito) gesti, movenze e pose la cui indole iperavvolgente e totalizzante sfiora il parossismo e patisce le aspettative. Il corpo, le fattezze e i doveri della sensualità sembrano allarmati dalla loro stessa affermazione, così convinta, così decisamente convinta, da dimenticare la spontaneità per attenersi all’impegno e al ruolo impiegatizio dell’estetica più docile.
Il moto perpetuo quindi quale punto d’arrivo dal quale tornare: un’inversione comportamentale voluta dall’insopportabilità di una funzione troppo a lungo sostenuta e rispettata, al limite della resistenza e poi del pentimento. Il sesso affermato, insoddisfatto della propria ricorrente attendibilità, continua a cercarsi e lamentarsi, ad agitarsi, per testimoniare a voce alta la rilevanza decisiva e vincolante del soddisfacimento istintuale non prescritto.
Stefano Elena
01
giugno 2005
ID.
Dal primo all'undici giugno 2005
arte contemporanea
Location
ASSOCIAZIONE GRANMA
Roma, Via Dei Gelsi, 111, (Roma)
Roma, Via Dei Gelsi, 111, (Roma)
Orario di apertura
17-20
Vernissage
1 Giugno 2005, ore 19.30
Autore
Curatore