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Antonio Tamburro – Fuga dall’ordinario
Al giorno d’oggi è ben difficile trovare un artista che tra i suoi punti di riferimento ideali indichi pittori come Domenico Morelli, Antonio Mancini o Giovanni Boldini
Comunicato stampa
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Corpi di luce impura
Gabriele Simongini
Al giorno d’oggi è ben difficile trovare un artista che tra i suoi punti di riferimento ideali indichi pittori come Domenico Morelli, Antonio Mancini o Giovanni Boldini, gente che ha saputo dipingere la realtà del proprio tempo non tanto attraverso i soggetti scelti ma soprattutto tramite la vitalità della materia pittorica, dotata di una propria realtà. Ecco, Antonio Tamburro – invitato a ricordare i suoi maestri prediletti – cita subito questi nomi con ammirazione, proseguendo poi con artisti del calibro di Henri de Toulouse-Lautrec, Edward Hopper, Francis Bacon e Lucian Freud.
Ma a colpire è proprio quel riferimento a tre maestri della pittura italiana a cavallo tra Ottocento e Novecento e ciò ci dice molto su Tamburro. Prima di tutto l’artista molisano non teme, anzi insegue con orgoglio, l’approdo purificatore dell’inattualità, se lo si intende come libertà dalla schiavitù delle mode, del nuovo ad ogni costo e delle regole globali del sistema dell’arte. Tamburro appartiene a quella schiera di artisti che difendono strenuamente il concetto di stile, di coscienza storica della forma, di rapporto dialettico tra manualità e visionarietà.
Anche questa presa di posizione oggi è inattuale perché quasi tutti gli artisti che ottengono successo nel sistema globalizzato si basano invece sull’idea di personalità, rifiutando quella di stile e dunque di forma ed esaltando lo strapotere delle strategie del marketing pubblicitario. Troppo spesso l’opera scompare a favore del pensiero e delle parole sull’arte. E così oggi, con una escalation impressionante, sempre più frequente non vengono proposte opere d’arte visiva, ma banali lavori di intrattenimento, purtroppo simili ad una fiction o ad un talk show.
Come ha scritto recentemente Edward Lucie-Smith “gli attuali giudizi su certi artisti di fama internazionale, specialmente quelli la cui reputazione si basa su lavori di performance, installazioni e pezzi concettuali, si possono paragonare a quelli della società medievale su certi santi visionari. Questi santi imponevano la fede con le loro personalità carismatiche, grazie anche alla voglia di credere di quelli che li circondavano”.
Invece Tamburro, sia con le sue opere che con le sue riflessioni, dimostra di credere nell’intensità e nella qualità concreta, capace di farsi cosa, della pittura, caratteristica che, fatte le debite proporzioni e differenze, unisce tutti i pittori da lui scelti come punti di riferimento. Questa opzione è positivamente inattuale e proprio per questo autenticamente originale e necessaria. L’artista molisano è stato di volta in volta definito come autore di una “pittura narrativa” o come “pittore della realtà esistenziale” ( infatti, ha scritto Dario Micacchi “è pittore di una realtà nascosta e, soprattutto, un pittore che sa restituire lo stupore poetico per le cose ordinarie e banali, anche minime della vita quotidiana” ): ciò che eventualmente lo rende tale – pur nella diffidenza che è sempre opportuno avere per le definizioni univoche – non sono gli ambienti, le atmosfere o le scene predilette , ma l’irrequieta forza vitale ed evocativa oltre che la realtà metamorfica della pennellata e della materia pittorica, poiché esse stesse diventano “cose”.
Non a caso Tamburro si autodefinisce “pittore di cose”, ma intendendo con questa affermazione non gli oggetti o la realtà visibile nella loro accezione mimetica, quanto piuttosto dichiarando la sua volontà di dipingere la pittura in quanto “cosa” e quindi di trasformarla in unico soggetto della propria creatività.
Ciò porta il nostro artista a dare un nuovo senso alla realtà esistenziale tramite la realtà della pittura, superando quindi di gran lunga quell’arido documentarismo pseudo–sociologico e televisivo che alimenta tanta figurazione d’oggi.
Del resto è indubbio che anche il motivo o il tema più originale e sbalorditivo da un punto di vista immaginativo, per rimanere tale in un quadro deve diventare parte integrante della materia pittorica, identificandosi con essa o stabilendo un’osmosi strettissima. Ciò distingue un artista di razza – quale è Antonio Tamburro – da un puro e semplice illustratore.
Il senso di disagio esistenziale, di alienazione, di sperdutezza in un mondo sempre più mercificato e votato all’oblio, talmente invischiato nel vortice della velocità degli scambi sociali da aver perduto le ragioni stesse della riflessione, della contemplazione, della volontà di ascoltare l’altro, tutto questo promana dalla pelle della pittura di Tamburro, soprattutto perché la sua concezione del mondo si da interamente per immagini visionarie, in cui si addensa il magma del pensiero, al di là del tramite verbale.
Gabriele Simongini
Al giorno d’oggi è ben difficile trovare un artista che tra i suoi punti di riferimento ideali indichi pittori come Domenico Morelli, Antonio Mancini o Giovanni Boldini, gente che ha saputo dipingere la realtà del proprio tempo non tanto attraverso i soggetti scelti ma soprattutto tramite la vitalità della materia pittorica, dotata di una propria realtà. Ecco, Antonio Tamburro – invitato a ricordare i suoi maestri prediletti – cita subito questi nomi con ammirazione, proseguendo poi con artisti del calibro di Henri de Toulouse-Lautrec, Edward Hopper, Francis Bacon e Lucian Freud.
Ma a colpire è proprio quel riferimento a tre maestri della pittura italiana a cavallo tra Ottocento e Novecento e ciò ci dice molto su Tamburro. Prima di tutto l’artista molisano non teme, anzi insegue con orgoglio, l’approdo purificatore dell’inattualità, se lo si intende come libertà dalla schiavitù delle mode, del nuovo ad ogni costo e delle regole globali del sistema dell’arte. Tamburro appartiene a quella schiera di artisti che difendono strenuamente il concetto di stile, di coscienza storica della forma, di rapporto dialettico tra manualità e visionarietà.
Anche questa presa di posizione oggi è inattuale perché quasi tutti gli artisti che ottengono successo nel sistema globalizzato si basano invece sull’idea di personalità, rifiutando quella di stile e dunque di forma ed esaltando lo strapotere delle strategie del marketing pubblicitario. Troppo spesso l’opera scompare a favore del pensiero e delle parole sull’arte. E così oggi, con una escalation impressionante, sempre più frequente non vengono proposte opere d’arte visiva, ma banali lavori di intrattenimento, purtroppo simili ad una fiction o ad un talk show.
Come ha scritto recentemente Edward Lucie-Smith “gli attuali giudizi su certi artisti di fama internazionale, specialmente quelli la cui reputazione si basa su lavori di performance, installazioni e pezzi concettuali, si possono paragonare a quelli della società medievale su certi santi visionari. Questi santi imponevano la fede con le loro personalità carismatiche, grazie anche alla voglia di credere di quelli che li circondavano”.
Invece Tamburro, sia con le sue opere che con le sue riflessioni, dimostra di credere nell’intensità e nella qualità concreta, capace di farsi cosa, della pittura, caratteristica che, fatte le debite proporzioni e differenze, unisce tutti i pittori da lui scelti come punti di riferimento. Questa opzione è positivamente inattuale e proprio per questo autenticamente originale e necessaria. L’artista molisano è stato di volta in volta definito come autore di una “pittura narrativa” o come “pittore della realtà esistenziale” ( infatti, ha scritto Dario Micacchi “è pittore di una realtà nascosta e, soprattutto, un pittore che sa restituire lo stupore poetico per le cose ordinarie e banali, anche minime della vita quotidiana” ): ciò che eventualmente lo rende tale – pur nella diffidenza che è sempre opportuno avere per le definizioni univoche – non sono gli ambienti, le atmosfere o le scene predilette , ma l’irrequieta forza vitale ed evocativa oltre che la realtà metamorfica della pennellata e della materia pittorica, poiché esse stesse diventano “cose”.
Non a caso Tamburro si autodefinisce “pittore di cose”, ma intendendo con questa affermazione non gli oggetti o la realtà visibile nella loro accezione mimetica, quanto piuttosto dichiarando la sua volontà di dipingere la pittura in quanto “cosa” e quindi di trasformarla in unico soggetto della propria creatività.
Ciò porta il nostro artista a dare un nuovo senso alla realtà esistenziale tramite la realtà della pittura, superando quindi di gran lunga quell’arido documentarismo pseudo–sociologico e televisivo che alimenta tanta figurazione d’oggi.
Del resto è indubbio che anche il motivo o il tema più originale e sbalorditivo da un punto di vista immaginativo, per rimanere tale in un quadro deve diventare parte integrante della materia pittorica, identificandosi con essa o stabilendo un’osmosi strettissima. Ciò distingue un artista di razza – quale è Antonio Tamburro – da un puro e semplice illustratore.
Il senso di disagio esistenziale, di alienazione, di sperdutezza in un mondo sempre più mercificato e votato all’oblio, talmente invischiato nel vortice della velocità degli scambi sociali da aver perduto le ragioni stesse della riflessione, della contemplazione, della volontà di ascoltare l’altro, tutto questo promana dalla pelle della pittura di Tamburro, soprattutto perché la sua concezione del mondo si da interamente per immagini visionarie, in cui si addensa il magma del pensiero, al di là del tramite verbale.
25
maggio 2006
Antonio Tamburro – Fuga dall’ordinario
Dal 25 maggio al 10 giugno 2006
arte contemporanea
Location
MINIACI ART GALLERY
Milano, Via Brera, 3, (Milano)
Milano, Via Brera, 3, (Milano)
Orario di apertura
tutti i giorni 11-19
Vernissage
25 Maggio 2006, ore 19
Ufficio stampa
CRISALIS ARTNETCOMMUNICATION
Autore