Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Claudia Bianchi
dipinti
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Ed è proprio quando in fatto di figurazione si pensava che i giochi fossero già fatti che arriva l’imprevisto.
Si sa: nulla è più difficile ed insidioso per un pittore dell’essere figurativo. La rassicurante familiarità del visibile, con le sue forme e i suoi colori così quotidianamente riconoscibili, rappresenta in realtà un trabocchetto insidiosissimo, per vincere il quale, cogliendone e rappresentandone il “cuore segreto”, occorre un formidabile esercizio tecnico ed intellettuale. Eh sì, perché la fissità degli oggetti (o delle figure, oggetti animati, ma pur sempre “oggetti”) è solo apparente nel loro essere immersi, e noi con loro, in un divenire d’inesorabile mobilità. Ecco allora che, per rubare le parole di Vittorio Sgarbi a proposito di Gianfranco Ferroni, quello del pittore figurativo è un dipingere che “richiede una concentrazione superiore, qualcosa di simile al tiro a bersaglio. L’artista è in gara, deve afferrare la preda che continuamente tenta di sfuggirgli, anche se è ferma, immobile.”1
Figurarsi poi se l’ambito della ricerca di un pittore figurativo è un’idea: astratta entità, spesso soggettiva, che assomma la sua mobilità concettuale a quella del divenire reale: mobilità all’ennesima potenza, difficile da cogliere e difficile da fissare, soprattutto con pennelli e colori, come avviene, nonostante tutto, dalle grotte di Altamira fino a noi.Così può accadere che dopo l’iperrealismo americano, e le sue varie evoluzioni/degenerazioni, si pensava che nulla ci avrebbe più stupito: l’occhio del pittore che annulla la sua mente, trasformando il dipinto in una copia fedelissima della realtà, senza interpretazioni, senza interventi, senza alterazioni. Chiaro e sensato è immaginare una simile operazione nei pieni anni ’60, contrapposta alla totale soggettività e libertà interpretativa dell’astrattismo (espressionista o no poco importa) della Bad-Painting e delle ri-elaborazioni fotografiche della Pop-Art imperanti in quel momento, meno credibile ed anzi piuttosto ridicolo difenderne l’attualità oggi, quarant’anni dopo e in piena epoca del virtuale e del digitale. (L’idea di realis-mo, figuriamoci poi quella di iperrealismo, mi ha sempre lasciato piuttosto scettico. Anche nelle sue forme “storiche” – mi riferisco a Close, Estes,
Cottingham, Morley ed altri – ho sempre creduto che, per quanto estrema, la scelta di non scegliere – in questo caso di non intervenire interpreativamente sulla realtà – fosse invariabilmente una scelta, quindi una forma di interpretazione “altra”, che si realizza, ad esempio, con l’adozione di una determinata prospettiva o di un determinato scorcio, di un volto o di una figura anziché un’altra. E questa è già una forma di interpretazione della realtà. Ecco perché nego fermamente – e l’ho fatto già da tempo scrivendo di Torrens o Ventrone, due colossi dell’iperfiguratività più eccellente – l’idea che possa esistere un realismo in pittura. Può esistere un’adesione più o meno fedele al visibile, ma mai e poi mai una coincidenza fra immagine dipinta e realtà stessa, così come avviene, ad esempio, con la fotografia.)Ecco quindi, si diceva, che a giochi presuntamente fatti, quando da oltre oceano si credeva d’essere arrivati ad un punto morto, arrivano il Luciano Ventrone o il Bernardo Torrens di turno a mescolare nuovamente le carte, e l’enigma apparentemente risolto del visibile torna ad intricarsi, rendendo protagonista nuovamente l’invisibile. (E che non si tratti nemmeno in qui di “iperrealismo” è lampante: le idealità diversamente sospese e baroccamente intrise di mistero del madrileno e del romano di Collelongo sono fatte di tutto tranne che di rappresentazione anche di una sola delle tante realtà possibili. Tutto in Ventrone e in Torrens è idea, finzione, invenzione. La realtà è un’eco, un rimando solo apparente, una sicurezza pronta a sgretolarsi davanti al pensiero, una improbabile certezza solo di superficie, quindi senza sostanza.) Si parlava prima dell’innafferabilità della realtà e delle idee. In particolare di queste ultime, per ogni pittore un autentico “tiro a bersaglio” da bendati (un’idea è comunque invisibile). Figurarsi poi se l’idea è quella di “bellezza”, protagonista mortificata e svalutata di quest’epoca senza dei né eroi. Se, infatti, nell’antichità il “bello” era un’attributo dell’idea (bello=buono, vero, virtuoso), oggi, nella società democratica del consumo, il suo concetto, disponibile a tutti a basso costo, è per lo più legato ad un qualcosa d’effimero, da usare e consumare. E mai come nel corso del Novecento ci ci si è accaniti contro la bellezza, cencando di svilirne l’idea fino al punto da non attribuirle alcun significato reale nelle dinamiche sociali ed allontanandola tenacemente dal suo contesto più naturale: l’arte. Ma, soprattutto, scindedone il suo significato da quello di verità, di giusto, di bene, per trasformarla fastidiosamente e insidiosamente in un sinomimo d’effimero.
(Cosa ha rappresentato e rappresenta da oltre tre millenni, per fare un esempio “alla moda”, la guerra di Troia, evento all’origine della nostra civiltà e scatenata dal desiderio di possesso di Elena, corpo e immagine vivente della bellezza stessa? La lunga guerra per difendere/riavere la bella moglie di Menelao, oggi svilita a ridicola battaglia di corpi plasticosamente anabolizzati in un recente prodotto hollywoodiano, “rappresenta simbolicamente il conflitto che gli uomini dovranno sempre sostenere per afferrare, con la loro idea di bellezza, anche la loro idea di verità, di giustizia, di bene e di male”2.)
A questo concetto figlio degenerato di una modernità scriteriata, e nel tentativo continuo di rapire il significato dell’idea di bellezza, si oppone Claudia Bianchi, alla quale poco o nulla interessa dell’equivoco legato all’immediatezza più o meno “pop” dei suoi dipinti. Il punto focale della ricerca della Bianchi è e rimane il dubbio ingenerato dall’idea di bellezza stessa, quel continuo interrogarsi ostinatamente e appassionatamente sul senso di ciò che vediamo. Per la pittrice la bellezza (ed in particolare la bellezza femminile) non è solo e semplicemente il frutto di armonia o perfezione delle forme, ma è primariamente lo stimolo fondamentale a scoprire il segreto, il mistero in cui essa stessa si cela: per la Bianchi la bellezza non è la fine di un processo (creativo), il risultato di una ricerca, ma bensì l’inizio di un’esperienza cognitiva, di un nuovo viaggio basato sul dubbio. L’immagine dipinta, spesso desunta dall’immaginario o dal mondo patinato della moda, si carica, esaltandoli ed esaltandosi, di evanescenza, di transitorietà, di un’effimero ideale privo di significati reali, che la Bianchi contrappone alla verità, all’autenticità, alla durata del “fare pittura” in quanto tale. Lo scarto che la pittura inevitabilmente (in)genera consente a Claudia di creare un meccanismo concettuale tutto giocato sull’implicita contraddittorietà dell’immagine, croce e delizia dell’intera modernità: la solida verità rivelata dalla pittura unita e contrapposta alla finzione, all’effimero, al fuggevole del suo soggetto. (Oggi sappiamo quasi tutto su Tiziano, Caravaggio, Rembrandt o Velazquez, ad esempio, mentre poco o nulla sappiamo su molti dei soggetti da loro ritrattati, pur intuendone le caduche caratteristiche psicologiche ed umane…) La pittura della Bianchi è certamente figlia dei media, della fotografia e della televisione in primis, ma altresì profondamente legata ad un’idea di pittura che dal realismo “sociale” caravaggesco (un qualcosa di assimilabile al neo-realismo rosselliniano con quasi quattro secoli d’anticipo) arriva alla metafisica ideale ventroniana, al mistero visibile ed alle “verità nascoste”3 di Torrens, all’immaginario sensuale e irreale del reggiano Carlo Ferrari, “maestro” di vedere e sentire, non solo di pennelli, della Bianchi (per non dire dell’altra reggianissima Alessandra Ariatti, iperfigurativa al limite del sidereo e “rivelazione” in ritardo dell’ultima Biennale veneziana). Alla volgarità spettacolare di una certa “cultura dell’immagine” la Bianchi contrappone l’inquietudine di un divenire in costante evoluzione: le sue figure non sono mai credibili, mai intaccate da quella corruzione che
segna i volti e deturpa i corpi. E’ una tensione all’idealità che evidenzia, accentuandolo, lo scarto creato dalla pittura tra realtà e immagine (così come in Ferrari), creando trabocchetti ben nascosti e non fornendo facile soddisfazione allo sguardo, nel tentativo di creare un mistero in grado di generare sottili inquietudini e affascinanti incertezze. L’immaterialità dell’immagine si rende concreta: tassello, anzi fotogramma immobile di un film mentale e ideale in continua variazione e sempre pronto a negare se stesso, al pari di un’idea dipinta “come se” fosse realtà.
Claudia Bianchi corre abilmente (e vertiginosamente) sul filo di una figurazione dall’equilibrio inventivo delicatissimo; una figurazione che tuttavia non sconfina mai nella serialità fotografica né nell’illustrazione patinata, tale e tanta è l’attenzione al “fare pittura”, ad accentuare, cioè, quello scarto tra immagine reale (fotografia) e immagine dipinta che solo la pittura può creare.Il tutto calato in una realtà in continuo divenire, ma ben al di fuori da ogni realismo, vero o sospetto, possibile.E’ questo l’inizio felice di un percorso insidioso e che la Bianchi affronta con la serena certezza di un “sentire” autentico e con l’ostinazione caparbia di un “fare pittura” che si trasforma in necessità reale. Reggio Emilia, maggio 2004
1 Sgarbi, Vittorio, Gianfranco Ferroni, in La stanza dipinta, pag. 255, Palermo, Editrice Novecento, 1989.
2 Cfr. Zecchi, Stefano, Il brutto e il bello, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1995.
3 Cfr. Agazzani, Alberto, Bernardo Torrens. Le verità nascoste
Si sa: nulla è più difficile ed insidioso per un pittore dell’essere figurativo. La rassicurante familiarità del visibile, con le sue forme e i suoi colori così quotidianamente riconoscibili, rappresenta in realtà un trabocchetto insidiosissimo, per vincere il quale, cogliendone e rappresentandone il “cuore segreto”, occorre un formidabile esercizio tecnico ed intellettuale. Eh sì, perché la fissità degli oggetti (o delle figure, oggetti animati, ma pur sempre “oggetti”) è solo apparente nel loro essere immersi, e noi con loro, in un divenire d’inesorabile mobilità. Ecco allora che, per rubare le parole di Vittorio Sgarbi a proposito di Gianfranco Ferroni, quello del pittore figurativo è un dipingere che “richiede una concentrazione superiore, qualcosa di simile al tiro a bersaglio. L’artista è in gara, deve afferrare la preda che continuamente tenta di sfuggirgli, anche se è ferma, immobile.”1
Figurarsi poi se l’ambito della ricerca di un pittore figurativo è un’idea: astratta entità, spesso soggettiva, che assomma la sua mobilità concettuale a quella del divenire reale: mobilità all’ennesima potenza, difficile da cogliere e difficile da fissare, soprattutto con pennelli e colori, come avviene, nonostante tutto, dalle grotte di Altamira fino a noi.Così può accadere che dopo l’iperrealismo americano, e le sue varie evoluzioni/degenerazioni, si pensava che nulla ci avrebbe più stupito: l’occhio del pittore che annulla la sua mente, trasformando il dipinto in una copia fedelissima della realtà, senza interpretazioni, senza interventi, senza alterazioni. Chiaro e sensato è immaginare una simile operazione nei pieni anni ’60, contrapposta alla totale soggettività e libertà interpretativa dell’astrattismo (espressionista o no poco importa) della Bad-Painting e delle ri-elaborazioni fotografiche della Pop-Art imperanti in quel momento, meno credibile ed anzi piuttosto ridicolo difenderne l’attualità oggi, quarant’anni dopo e in piena epoca del virtuale e del digitale. (L’idea di realis-mo, figuriamoci poi quella di iperrealismo, mi ha sempre lasciato piuttosto scettico. Anche nelle sue forme “storiche” – mi riferisco a Close, Estes,
Cottingham, Morley ed altri – ho sempre creduto che, per quanto estrema, la scelta di non scegliere – in questo caso di non intervenire interpreativamente sulla realtà – fosse invariabilmente una scelta, quindi una forma di interpretazione “altra”, che si realizza, ad esempio, con l’adozione di una determinata prospettiva o di un determinato scorcio, di un volto o di una figura anziché un’altra. E questa è già una forma di interpretazione della realtà. Ecco perché nego fermamente – e l’ho fatto già da tempo scrivendo di Torrens o Ventrone, due colossi dell’iperfiguratività più eccellente – l’idea che possa esistere un realismo in pittura. Può esistere un’adesione più o meno fedele al visibile, ma mai e poi mai una coincidenza fra immagine dipinta e realtà stessa, così come avviene, ad esempio, con la fotografia.)Ecco quindi, si diceva, che a giochi presuntamente fatti, quando da oltre oceano si credeva d’essere arrivati ad un punto morto, arrivano il Luciano Ventrone o il Bernardo Torrens di turno a mescolare nuovamente le carte, e l’enigma apparentemente risolto del visibile torna ad intricarsi, rendendo protagonista nuovamente l’invisibile. (E che non si tratti nemmeno in qui di “iperrealismo” è lampante: le idealità diversamente sospese e baroccamente intrise di mistero del madrileno e del romano di Collelongo sono fatte di tutto tranne che di rappresentazione anche di una sola delle tante realtà possibili. Tutto in Ventrone e in Torrens è idea, finzione, invenzione. La realtà è un’eco, un rimando solo apparente, una sicurezza pronta a sgretolarsi davanti al pensiero, una improbabile certezza solo di superficie, quindi senza sostanza.) Si parlava prima dell’innafferabilità della realtà e delle idee. In particolare di queste ultime, per ogni pittore un autentico “tiro a bersaglio” da bendati (un’idea è comunque invisibile). Figurarsi poi se l’idea è quella di “bellezza”, protagonista mortificata e svalutata di quest’epoca senza dei né eroi. Se, infatti, nell’antichità il “bello” era un’attributo dell’idea (bello=buono, vero, virtuoso), oggi, nella società democratica del consumo, il suo concetto, disponibile a tutti a basso costo, è per lo più legato ad un qualcosa d’effimero, da usare e consumare. E mai come nel corso del Novecento ci ci si è accaniti contro la bellezza, cencando di svilirne l’idea fino al punto da non attribuirle alcun significato reale nelle dinamiche sociali ed allontanandola tenacemente dal suo contesto più naturale: l’arte. Ma, soprattutto, scindedone il suo significato da quello di verità, di giusto, di bene, per trasformarla fastidiosamente e insidiosamente in un sinomimo d’effimero.
(Cosa ha rappresentato e rappresenta da oltre tre millenni, per fare un esempio “alla moda”, la guerra di Troia, evento all’origine della nostra civiltà e scatenata dal desiderio di possesso di Elena, corpo e immagine vivente della bellezza stessa? La lunga guerra per difendere/riavere la bella moglie di Menelao, oggi svilita a ridicola battaglia di corpi plasticosamente anabolizzati in un recente prodotto hollywoodiano, “rappresenta simbolicamente il conflitto che gli uomini dovranno sempre sostenere per afferrare, con la loro idea di bellezza, anche la loro idea di verità, di giustizia, di bene e di male”2.)
A questo concetto figlio degenerato di una modernità scriteriata, e nel tentativo continuo di rapire il significato dell’idea di bellezza, si oppone Claudia Bianchi, alla quale poco o nulla interessa dell’equivoco legato all’immediatezza più o meno “pop” dei suoi dipinti. Il punto focale della ricerca della Bianchi è e rimane il dubbio ingenerato dall’idea di bellezza stessa, quel continuo interrogarsi ostinatamente e appassionatamente sul senso di ciò che vediamo. Per la pittrice la bellezza (ed in particolare la bellezza femminile) non è solo e semplicemente il frutto di armonia o perfezione delle forme, ma è primariamente lo stimolo fondamentale a scoprire il segreto, il mistero in cui essa stessa si cela: per la Bianchi la bellezza non è la fine di un processo (creativo), il risultato di una ricerca, ma bensì l’inizio di un’esperienza cognitiva, di un nuovo viaggio basato sul dubbio. L’immagine dipinta, spesso desunta dall’immaginario o dal mondo patinato della moda, si carica, esaltandoli ed esaltandosi, di evanescenza, di transitorietà, di un’effimero ideale privo di significati reali, che la Bianchi contrappone alla verità, all’autenticità, alla durata del “fare pittura” in quanto tale. Lo scarto che la pittura inevitabilmente (in)genera consente a Claudia di creare un meccanismo concettuale tutto giocato sull’implicita contraddittorietà dell’immagine, croce e delizia dell’intera modernità: la solida verità rivelata dalla pittura unita e contrapposta alla finzione, all’effimero, al fuggevole del suo soggetto. (Oggi sappiamo quasi tutto su Tiziano, Caravaggio, Rembrandt o Velazquez, ad esempio, mentre poco o nulla sappiamo su molti dei soggetti da loro ritrattati, pur intuendone le caduche caratteristiche psicologiche ed umane…) La pittura della Bianchi è certamente figlia dei media, della fotografia e della televisione in primis, ma altresì profondamente legata ad un’idea di pittura che dal realismo “sociale” caravaggesco (un qualcosa di assimilabile al neo-realismo rosselliniano con quasi quattro secoli d’anticipo) arriva alla metafisica ideale ventroniana, al mistero visibile ed alle “verità nascoste”3 di Torrens, all’immaginario sensuale e irreale del reggiano Carlo Ferrari, “maestro” di vedere e sentire, non solo di pennelli, della Bianchi (per non dire dell’altra reggianissima Alessandra Ariatti, iperfigurativa al limite del sidereo e “rivelazione” in ritardo dell’ultima Biennale veneziana). Alla volgarità spettacolare di una certa “cultura dell’immagine” la Bianchi contrappone l’inquietudine di un divenire in costante evoluzione: le sue figure non sono mai credibili, mai intaccate da quella corruzione che
segna i volti e deturpa i corpi. E’ una tensione all’idealità che evidenzia, accentuandolo, lo scarto creato dalla pittura tra realtà e immagine (così come in Ferrari), creando trabocchetti ben nascosti e non fornendo facile soddisfazione allo sguardo, nel tentativo di creare un mistero in grado di generare sottili inquietudini e affascinanti incertezze. L’immaterialità dell’immagine si rende concreta: tassello, anzi fotogramma immobile di un film mentale e ideale in continua variazione e sempre pronto a negare se stesso, al pari di un’idea dipinta “come se” fosse realtà.
Claudia Bianchi corre abilmente (e vertiginosamente) sul filo di una figurazione dall’equilibrio inventivo delicatissimo; una figurazione che tuttavia non sconfina mai nella serialità fotografica né nell’illustrazione patinata, tale e tanta è l’attenzione al “fare pittura”, ad accentuare, cioè, quello scarto tra immagine reale (fotografia) e immagine dipinta che solo la pittura può creare.Il tutto calato in una realtà in continuo divenire, ma ben al di fuori da ogni realismo, vero o sospetto, possibile.E’ questo l’inizio felice di un percorso insidioso e che la Bianchi affronta con la serena certezza di un “sentire” autentico e con l’ostinazione caparbia di un “fare pittura” che si trasforma in necessità reale. Reggio Emilia, maggio 2004
1 Sgarbi, Vittorio, Gianfranco Ferroni, in La stanza dipinta, pag. 255, Palermo, Editrice Novecento, 1989.
2 Cfr. Zecchi, Stefano, Il brutto e il bello, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1995.
3 Cfr. Agazzani, Alberto, Bernardo Torrens. Le verità nascoste
25
ottobre 2006
Claudia Bianchi
Dal 25 ottobre all'otto novembre 2006
arte contemporanea
Location
LIBRERIA BOCCA – SPAZIO BOCCA IN GALLERIA
Milano, Galleria Vittorio Emanuele II, 12, (Milano)
Milano, Galleria Vittorio Emanuele II, 12, (Milano)
Orario di apertura
9-19
Vernissage
25 Ottobre 2006, ore 18.30
Ufficio stampa
BC STUDIO
Autore