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In teoria Il ritorno di Casanova, ventesimo film di Gabriele Salvatores, dovrebbe essere un film sulla vecchiaia: quella del protagonista, il regista Leo Bernardi (Toni Servillo), e quella del suo personaggio Casanova, interpretato da Fabrizio Bentivoglio in un film-nel-film tratto, appunto, dal racconto Il ritorno di Casanova di Arthur Schnitzler (1918). Entrambi i personaggi hanno un passato glorioso, un presente depresso e un futuro angosciante; in entrambi i casi, a ricordarglielo è la bellezza di una giovane donna, la contadina Silvia (Sara Serraiocco) per Servillo e l’erudita Marcolina (Bianca Panconi) per Casanova. Inoltre, se a Casanova si contrappone come rivale in amore l’aitante tenente Lorenzi, Bernardi si trova a competere per il Leone d’oro con l’esordiente regista Lorenzo Marino, ed entrambi sono affiancati da un amico – il bonario Olivo, il montatore Gianni – che trattano con asimmetrica superiorità. Le corrispondenze sono evidenziate dal montaggio rigorosamente alternato dei due piani, che si richiamano per affinità di situazioni e spesso si sovrappongono nei gesti (la scherma) o nel parlato, mentre le divergenze – la distanza tra film e “vita vera”, fin troppo esplicitamente ribadita – sono ben condensate nella scelta di rendere in bianco e nero la vicenda del regista, e a colori quella “fittizia” di Casanova.
Questo gioco di specularità insistita, tuttavia, finisce ben presto per dichiarare non tanto la vicinanza di due destini, quando la distanza di due scritture. Mentre Casanova vive fino in fondo la tristezza e lo sbigottimento del venir meno delle proprie forze, provandole e riprovandole in un gioco di seduzione che è la natura stessa a rendere impossibile, la vecchiaia del protagonista-regista si risolve in un capriccio di intemperanza e testardaggine che lo svolgersi degli eventi non sembra mai davvero intaccare, e che scivola verso la sua (prevedibile) conclusione senza stupire né coinvolgere. Lo stesso vale per i personaggi circostanti: estremamente tipizzati in entrambi i casi, ma, se in Casanova la tipizzazione garantisce il sovrappiù espressivo della dimensione teatrale, nella vicenda del protagonista, che si vorrebbe realistica, l’effetto è spesso di un’inverosimiglianza grottesca.
Così, dopo un’ora e mezza (la snellezza, se non altro, è un pregio) si rimane con la sensazione straniante di aver visto un film riuscito letteralmente a metà: perché la storia di Casanova, sostanzialmente compiuta e quasi apprezzabile in autonomia, è un adattamento ben fatto, ben recitato, fedele alla lettera del testo originale ma capace di libertà e inventiva nella messa in scena; mentre la vicenda esterna, la cornice che dovrebbe arricchirla, finisce per appesantire e quasi sabotare il tutto, con buona pace delle interpretazioni anche buone, ma lasciate alla deriva in una sceneggiatura inconsistente. Peraltro, vista la scelta di avventurarsi nel campo del meta-cinema (anche rischiosa, dal momento che non si fa niente per evitare la presenza ingombrante di 8½), viene da chiedersi: che cosa dice questo film sul cinema stesso? In che modo lo scarto, il gesto vertiginoso di parlare del racconto nel suo farsi è giustificato da un accrescimento di senso?
Difficile dirlo. Il cinema, ne Il ritorno di Casanova, appare piuttosto un fondale vuoto, ovvio, dato in partenza; e, sebbene i ripetuti tentativi del film di spiegare se stesso tornino spesso sulla dimensione pratica del girare, del fare il film (equiparandola, persino, alle notti d’amore di Casanova), questa dimensione pratica è in realtà del tutto assente, anche perché il film-nel-film, la storia di Casanova è presentata come già girata e in fase di montaggio, ma del montaggio non si vede niente se non schermi affiancati e qualche facile gioco di accelerazione o interruzione. Così che, alla fine, l’unico vero spunto per un discorso meta-cinematografico è forse la sequenza alla Mostra di Venezia, quando Salvatores sceglie di mostrare, stavolta in modo frontale, il cinema nel suo aspetto più glamour, pubblico, superficiale — ma è appena un accenno, e per salvare il film (come si conviene, questo sì, a un’opera sulla senescenza) è davvero troppo tardi.
Condivido, quasi tutto. Complimenti per l’analisi
Vero purtroppo, il ventesimo film porta con se tutta la stanchezza del tempo, un film con le pantofole, che girovaga nella zona comfort di chi non ha, come i protagonisti, più le energie per stupire. In questo ha fatto centro. Dispiace poiché le aspetttaive erano alte, ma i dettagli di un cinema che soffre di staticità si notano. Tra una scena e l’altra un gran fracasso, per svegliare lo spettatore, un trucco da serie b, purtroppo.
Il bianco e nero senza bianchi, la sana follia visionaria, troppo delicata, timida e ricalcata dal passato del nostro antico stomaco colmo di immagini emotive.
All fine però l’amore per il cinema di Salvatores, è un qualcosa che da sempre piacere, che ristora in qualche modo. La sua raffinata intelligenza e i meravigliosi amici attori. Ecco insieme sono sempre carini.
Tutti commenti estraneità dal messaggio vero esistenziale psicanalitico e storico della vecchiaia nell’ uomo narcista nel ‘700 ed oggi. Tutto un fermarsi sulle tecniche del racconto e non sulla sostanza, comunicata benissimo in un caso e nell’ altro. Una meditazione sul Maschio , sul rapporto con se stesso, con la donna e sulla Apparenza e Vecchiaia nel corso del tempo. Stiamo purtroppo ancora a carissimo ami, anche peggio che nel ‘700 per quanto riguarda l’ Uomo. In genere sono deludenti i commenti nei confronti del film dei Maschi e delle Donne superficiali. Bravissimi i due Casanova