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Focus curatori in 22 domande: intervista a Paola Nicolin
Arte contemporanea
Prosegue il nostro “FOCUS curatori”, 22 domande (le stesse per tutti) destinate a curatori e curatrici spesso “outsider”, per raccontare attraverso declinazioni personali, caratteristiche, metodologie e modalità proprie della professione curatoriale odierna. Un mestiere relativamente nuovo che, nel corso di qualche decennio, ha cambiato radicalmente forma. Una pratica dinamica, basata su studio, fonti d’ispirazione e conoscenze interdisciplinari. Un ruolo di “cura” e responsabilità nei confronti degli artisti e delle loro ricerche, del pubblico, di attenzione ai cambiamenti nella società, nel dibattito sociale, politico e culturale del momento. La decima puntata della nostra rubrica ha per protagonista Paola Nicolin.
Come ti definiresti?
«Perfezionista e lunatica, con punte di timidezza che il mio lavoro ha trasformato in ironia».
Dove sei nata e dove vivi?
«Sono nata a Busto Arsizio e vivo a Milano».
Dove vorresti essere nata e dove vorresti vivere?
«Vorrei essere nata al mare e vorrei vivere al mare. Ho vissuto al mare i primi tre anni della mia vita. Forse sono anche nata lì – e nessuno me lo vuole dire».
Quando hai capito che ti interessava l’arte?
«C’è una foto, avevo circa 7 anni credo, dove la mia faccia tonda spunta dalla fontana di Mirò alla Fondazione Maeght di Saint-Paul de Vence. Non ho capito che mi interessava l’arte, ma ho capito che era qualcosa di bello dove stavo bene».
Quando hai deciso che avresti fatto la curatrice?
«Molto tardi. Ho fatto domanda per un dottorato di ricerca perché volevo dimenticare una grande delusione d’amore e, mentre studiavo, mi sono accorta che la compagnia degli artisti era – di nuovo – qualcosa di “bello dove stavo bene”».
Quali sono i libri che ti accompagnano nel tuo percorso professionale da curatrice?
«Per stare nella classica trilogia direi: Passagges in Modern Sculpture di Rosalind Krauss, Vision in Motion di György Kepes e Le Maître ignorant: Cinq leçons sur l’émancipation intellectuelle di Jacques Rancière. Poi c’è un catalogo che sta sempre sul mio tavolo che si intitola Museums by artists, edito da AA Bronson e Peggy Gale del 1983 che raccoglie bellissimi scritti di artisti e critici sul tema».
Quali sono le fonti, gli autori e le opere extra-arti visive, di cui ti nutri nello svolgimento della tua attività scientifica?
«Ho sempre letto e sfogliato riviste di ogni tipo. Dai Reader Digest al New Yorker, dalle riviste di moda a quelle di sport, dalle riviste d’arte e architettura come quelle di barche a vela, ai rotocalchi di attualità, pettegolezzo e costume, dagli inserti settimanali dei quotidiani nazionali e internazionali sino ai cataloghi di ogni tipo (dall’Ikea a Sotheby’s o Christie’s). Quando viaggiavo più spesso adoravo comprarne una mazzetta alle edicole degli aeroporti. Credo si possano citare in questo elenco anche le bibliografie, liste infinite di titoli ordinati con un criterio.
Leggo romanzi e poesie. Mi piacciono molto anche le biografie di uomini e donne famose. Autori tanti, spesso stranieri, che pesco un poco a caso dal bancone delle librerie. Ho la brutta abitudine di leggere più libri insieme: sul comodino adesso, per esempio, ci sono le poesie di Blaise Cendrars, la biografia di Sonia Delaunay scritta da Axel Mansen, Colette. Tuttavia quelli che ritornano alla mente alla fine sono sempre gli stessi: Yourcenar, Céline, Calvino, Ernaux, Carrère, Pavese…».
Qual è la mostra che ti ha segnato e perché?
«Futurismo Futurismi a Palazzo Grassi nel 1986 a cura di Pontus Hulten e la Documenta a cura di Okwui Enwezor nel 2002. La prima avevo 10 anni, non c’era consapevolezza ovviamente, ma ricordo benissimo ancora la sensazione di stare dentro a un mondo. Il catalogo per me è ancora un libro-matrice.
La seconda perché di anni ne avevo di più, ero stata invitata a unirmi in un viaggio in pulmino da Milano a Kassel passando da Francoforte – città di Manifesta quell’anno – organizzato da un gruppo di neo-curatori del corso di Brera. Era stata la mia prima Documenta. Era la prima volta che facevo fatica a ricordarmi i nomi degli artisti, che guardavo come un cantante rock un certo Okwui Enwezor che, con le sue due bellissime bambine, rispondeva impeccabile alle domande dei giornalisti.
Era la prima volta che vedevo una città/mostra tentacolare e insieme ordinatissima, la prima volta che facevo skate in un’opera d’arte, la prima volta che mi chiedevo: ma che diavolo di lavoro dovesse essere quello di girare per cinque anni per il mondo e poi raccontare con le opere d’arte quello che il mondo era stato in quei cinque anni? Insomma la prima volta non si scorda mai».
Qual è l’opera d’arte che ti ha avviato nei sentieri della professione nelle arti visive?
«L’atelier del pittore di Gustave Courbet».
Quali artisti contemporanei che hai personalmente conosciuto sono stati importanti nell’avviamento della tua professione? E perché?
«Alberto Garutti perché mi ha fatto capire l’importanza di stare nelle cose senza distrazioni, totalmente dediti alla pratica che chiede impegno e fatica. Sempre. Maurizio Cattelan, anche se non voglio vantare una amicizia fraterna che non c’è. Con lui tuttavia ho “vissuto” un anno grazie al progetto editoriale Being, un numero speciale della rivista Abitare diretta da Stefano Boeri dove, per un anno, un editor, insieme a un fotografo, seguivano e documentavano la vita e il lavoro di un archistar nel mondo. Lavoravo come art editor della rivista che, nel 2010-2011, decise di seguire Maurizio. Il fotografo era Pierpaolo Ferrari e il 2011 era l’anno della retrospettiva di Maurizio al Guggenheim Museum di New York. È stato un anno inteso dove ho conosciuto moltissime persone che, da allora in poi, sono cresciute anche grazie a Maurizio. Ho molto riso, ho molto viaggiato, ho molto amato la sua ossessione per il lavoro, la sua precisione chirurgica nel dire in poche semplici parole che cosa voleva. Punto. Ed era già scappato altrove.
Tania Bruguera perché è stato forse il mio primo studio-visit: dovevo scrivere un suo profilo per la rivista e non avevo preparato le domande, troppo sopraffatta com’ero dalla emozione e dalla tensione verso l’incontro con l’artista. In questo caso, sono stata salvata dalla sua capacità di raccontarsi, dalla sua empatia. La verità però è che il profilo che ho scritto era banale, perché non ho saputo interrogarla. Anche questo mi è molto servito in futuro. Alessandro Mendini, Italo Lupi, Michele De Lucchi e Stefano Boeri sono stati e sono architetti certamente importanti per quello che mi chiedi, e punti di riferimento imprescindibili per le mie scelte professionali».
Quali sono stati i tuoi maestri diretti e/o indiretti nella curatela?
«Mi piacerebbe averne avuti, ma non ho frequentato nessuna scuola curatoriale. Il mio è un percorso di ricerca accademica che scivola verso l’editoria, una mia grande passione e, forse, una maestra lei stessa per la curatela. E, infine, il lavoro per le istituzioni. Mi manca molto un maestro o una maestra in questo senso. Ho imparato studiando la storia delle mostre e le parole degli artisti che ho intervistato o sui quali ho scritto nel tempo. Con Francesco Bonami e con Hans Ulrich Obrist ho potuto lavorare, entrambi tuttavia hanno avuto altri allievi ben più strutturati di me».
Con quale progetto hai iniziato a definirti curatrice?
«Non me lo ricordo, sinceramente. Forse ho co-curato una piccola mostra, ma preziosa, insieme a Marco Baravalle e Nicolas Bourriaud a Lubjiana che faceva parte del saggio di fine anno del corso di pratiche curatoriali dello IUVA dove Nicolas ha insegnato per qualche anno e dove Marco e io gli facevamo da assistenti. Non ci ho mai fatto però tanto caso prima di questa domanda che mi fai ora».
Qual è la tua definizione di curatore?
«Chi si prende cura degli artisti e del loro lavoro».
Qual è la tua giornata tipo?
«Sveglia alle 6.30, 6.45. Porto fuori il cane, bevo un cappuccio con poco latte e tanta schiuma al bar vicino a casa dove compro anche le brioche per i bambini. Colazione alle 7.15, porto a scuola la più piccola, secondo caffè con qualche mamma se ce la faccio e, poi, vado a Piacenza in macchina. Se parto alle 9 alle 9.45/10 sono in XNL. E intanto telefono.
Lavoro, pausa pranzo (fosse per me mangio un frutto ma a Piacenza sta male e dunque faccio davvero pausa pranzo spesso con tortelli o comunque con piatti seri), lavoro sino a orari variabili – se ci sono eventi al museo mi fermo a volte a dormire, ma succede di rado perché preferisco tornare anche tardi a casa. Un piacentino doc una sera che c’era la nebbia densa e mi è venuto un attacco di panico da strada mi ha detto: “Ma dai, non avrai mica paura della nebbia?! È come il vapore della dossia”. Ho sempre pensato che fosse un’imitazione di Bersani, ma sta di fatto che crisi non ne ho più avute. E guido sempre volentieri.
Arrivo a casa, cena, controllo i compiti, gli zaini, faccio il tavolo della colazione e poi esco con il cane a fare due passi: mi rilassa e mi piace sentire il cambio delle temperature guardando il suo desiderio o meno di stare in giro. Vedo se tutti dormono, do una carezza a mio figlio e un bacio alla bimba e se non crollo prima, apro velocemente instagram – tipo una specie di buona notte alle vite degli altri – e prendo un libro per addormentarmi con una storia in testa.
Sono una abitudinaria. Mi piace ripetere i gesti che scandiscono la mia giornata. Stessa routine se sto a casa o se ho lezione in università, solo che mi muovo in bici, mangio un frutto e non telefono in strada».
Hai dei riti particolari quando lavori?
«Ho sempre con me una tavoletta di cioccolato. Fondente, alla menta, noisette. La mattina dei giorni importanti mangio una ciotola di lamponi e mirtilli che mi preparo la sera così non sono freddi al mattino. Indosso qualcosa di rosso alle inaugurazioni o nei colloqui finali dei concorsi – so che non serve ma aiuta. Non sono superstiziosa però come dice il mio papà, “meglio essere prudenti”. Non guardo mai la posta dopo cena. Bevo una tazza di acqua calda e limone ogni sera».
C’è uno spazio per l’imprevisto nel tuo lavoro?
«Sì, certo. Mai dire mai nella vita, e anche nel lavoro. L’imprevisto è parte del progetto: riservare uno spazio per questo credo sia una fonte di ricchezza».
Qual è il progetto, la mostra che hai curato che trovi più rappresentativa del tuo percorso scientifico?
«Ti devo dire l’ultima perché le mostre sono come le ciliegie: una tira l’altra. Sul vestito lei ha un corpo è il titolo della mostra in corso a XNL Piacenza, il centro d’arte di cui seguo la direzione artistica. Si tratta di un piccolo omaggio a Sonia Delaunay e, in modo particolare, all’Atelier simultanè dell’artista, interpretato da due artiste contemporanee con le quali ho sempre sognato di lavorare: Ulla von Brandenburg e Meris Angioletti. Entrambe hanno riletto l’opera di Sonia in modo originale inventando un’opera-mostra dove le tele dipinte di Ulla e i suoi film muti si intrecciano senza soluzione di continuità con l’opera sonora di Meris Angioletti. Mi ritrovo molto in questo progetto che parla di donne, di affettività artistica, di sintesi e simultaneità delle arti, di dialogo tra moderno e contemporaneo: che sono i temi che mi appartengono. È stato un granissimo onore per me lavorare con loro a questo progetto».
A tuo avviso, qual è lo stato della critica d’arte in Italia?
«C’è attenzione, c’è competenza, c’è il risultato di una o due generazioni che si sono formate in scuole specializzate, hanno viaggiato, hanno avuto la possibilità di crescere dentro a un Paese che ha prodotto, in questi ultimi vent’anni, riviste, giornali accademici e case editrici di altissima qualità come spazi di espressione e produzione di pensiero. Ci sono corsi di laurea, di specializzazione, scuole di alta formazione. Anche il sistema dei social media sta trovando una sua identità critica grazie al lavoro di musei e dell’editoria specializzata. Siamo – ancora – il Paese dove è nata l’Accademia. E questa è una ricchezza – critica – che abbiamo ereditato e che abbiamo la responsabilità di far crescere. Forse siamo un Paese che non legge tanto la critica ecco: piuttosto ci si limita a leggere se stessa quando scrive. In questo senso, secondo me la critica d’arte in Italia sta meglio di quanto possiamo pensare, solo che non la leggiamo abbastanza».
Quali sono i tuoi riferimenti critici?
«John Berger, Calvin Tomkins, Carla Lonzi».
La mostra di un altro collega che avresti voluto curare?
«Una qualsiasi mostra di Bruce Nauman. Lavorare con lui penso ti cambi la vita. Veramente».
Quale ritieni che sia il tuo più grande limite professionale?
«Sono impaziente e ho un’indole solitaria. E, invece, il mio lavoro chiede appartenenza e pazienza. Invecchiando miglioro, ma c’è ancora molto da lavorare».
Progetti in corso e prossimi?
«XNL Piacenza. Portare avanti il programma dell’istituzione e farla crescere è il mio compito».
Chi è Paola Nicolin
PhD è storica dell’arte contemporanea e affianca attività di ricerca alla pratica editoriale e curatoriale. Docente di storia dell’arte moderna e contemporanea all’Università Bocconi di Milano, è Direttore artistico di XNL Piacenza. Fa parte del comitato curatoriale del progetto Panorama delle Quadriennale di Roma ed è stata responsabile dei Servizi Educativi e delle Pubblicazioni di Palazzo Grassi-Pinault Collection.
Art editor della rivista Abitare e poi Editor at Large di Domus, membro del Comitato scientifico della Fondazione Carriero, ha lavorato per Treccani Enciclopedia Arte contemporanea come referente della area “Esposizioni” del progetto editoriale; curatrice del Public Program della Triennale di Milano, ha scritto e redatto testi per numerosi cataloghi e riviste specializzate quali Artforum, LOG, Abitare, Domus, Mousse, Kaleidoscope, Flash Art.
È stata responsabile della programmi di Arte Moderna e Contemporanea per il Comune di Milano – Assessorato alla Cultura e ha curato per istituzioni pubbliche e musei mostre personali di artisti quali Alberto Garutti, Adrian Paci, Susan Philipsz, Markus Schinwald, Francesco Simeti, Ulla von Brandenburg, Meris Angioletti e sviluppato i rispettivi programmi pubblici. Con il centro nomade di arte e educazione the classroom, fondato con Giovanna Silva e Giulia Mainetti, ha costruito progetti speciali come la riattivazione del Piper per Artissima con Seb Patane e aule d’artista disegnate da Masbedo, Linda Fregni Nagler, Diego Perrone, Piero Golia, Hilario Isola, Adelita Husni-Bey, Rä di Martino.
Tra le sue pubblicazioni si ricordano: Materia verso Immagine (Postmediabooks, 2018), Susan Phillipsz. Follow me, (Humboldt, 2015), She. La figura femminile nel lavoro di Adrian Paci (Johan & Levi, 2014), Alberto Garutti. Didascalia/Caption (Mousse-König, 2012), Addio anni 70. Arte a Milano 1969-1980, (Mousse, 2012), Being Cattelan (Abitare-RSC, 2011), Palais de Tokyo (Postmediabooks, 2006). Per Quodlibet è autrice di Diario Psichico (2017) e Castelli di carte. La XIV Triennale di Milano, 1968 (2011). Vive a Milano con sua famiglia.