-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Qual è stato il tuo percorso artistico?
Possiamo dire che si tratta di una strada tortuosa che si è intrecciata al mio percorso personale e professionale. Sono partita piccolissima dall’osservazione di spazi e oggetti, forme e colori: da quelli dell’erba e dei fiori in campagna agli spazi interni che mio padre, architetto, mi insegnava a “progettare” seduta sulle sue ginocchia. Ho continuato a guardarmi intorno, a studiare anche il modo in cui altri disegnavano, dipingevano o avevano dipinto prima di me, perché la curiosità è forse la caratteristica che mi definisce di più, insieme alla passione per lo studio, la ricerca e la conoscenza.
La pittura mi ha così accompagnata, in varie forme, fasi e tempi, per tutta la vita, malgrado non abbia una formazione di Accademia. Si è anzi intrecciata alle esperienze che andavo compiendo, nel frattempo, a livello professionale con gli studi di lettere e le specializzazioni prima in filologia classica e poi in letterature romanze. Oggi sono una ricercatrice, lavoro in Germania, e tra i miei interessi scientifici vi sono proprio le “intersezioni” tra letteratura e arti figurative.
Quali sono gli elementi principali del tuo lavoro?
Dal punto di vista tecnico la scelta definitiva è arrivata attraverso… un semplice errore, uno di quegli errori che poi si rivelano piuttosto produttivi. Avevo dieci anni, prima media, per il corso di educazione artistica ci era stato richiesto di portare i pastelli a cera. Bene, si va in cartoleria, mi mettono davanti anche una confezione di pastelli a olio, non ricordo più se perché avessero solo quelli, oppure come alternativa; ma ricordo i colori vivi e il profumo di olio di lino, e me che dico “mamma, prendiamo questi, sarà la stessa cosa”. Che non fosse la stessa cosa me ne accorsi l’indomani: sembrava di stendere del rossetto sulla carta. Fu l’insegnante ad aprirmi la porta su un mondo interessantissimo, passando una spatola sul tratto: “ecco, questi non sono a cera, sono ad olio, si sfumano così”: la coda del pesce che stavo disegnando diventò il primo passo per una passione definitiva. Da allora i pastelli a olio sono diventati la tecnica che prediligo, malgrado alcune eccezioni.
Mi interessa, infatti, esplorare le combinazioni dei colori, delle sfumature, la possibilità di comunicare attraverso di essi delle emozioni. Alcune composizioni possono apparire, talvolta, vicine a tendenze naïf, ma nello stesso tempo non si intendono come art brut o spontanea, perché sono il risultato di una riflessione e di un preciso progetto compositivo.
La mia natura eclettica, direi quasi “intrinsecamente eretica”, emerge molto anche nei temi. Molti dei miei lavori mettono in scena dei paesaggi dell’Europa mediterranea o del Nord. Sono tutti luoghi dell’anima, che mi appartengono perché li ho vissuti, in momenti diversi, e amati, in maniere diverse e legate a situazioni diverse. Altri rinviano ad esperienze, persone amate o a temi che mi impegnano a livello di riflessione personale, come le convenzioni legate al femminile; altri ancora sono di impronta astratta o surrealistica, oppure elaborano motivi simbolici, come nel caso delle serie dedicate alle meduse o alle stelle morte. Questi motivi hanno un significato di partenza per me, ma, una volta trasferiti sulla carta, li intendo (come tutti i miei temi, in fondo) come immagini-simulacro nel senso descritto da Platone nel Sofista: immagini che implicano una molteplicità di significati, interpretabili in modi differenti a seconda dello sguardo che li osserva, in modo tale da comprendere in sé, per così dire, anche l’osservatore stesso; o, se vogliamo, dispositivi pulsionali nel senso di Lyotard, che vorrebbero suscitare reazioni emozionali al di là della loro valenza narrativa e/o mimetica.
In quale modo secondo te l’arte può interagire con la società, diventando strumento di riflessione e spinta al cambiamento?
L’arte ha interagito da sempre con la società e continuerà a farlo; ma oggi, forse, con una maggiore complessità, dovuta al fatto che tutto è immagine, tutto è visibile e immediatamente fruibile, e che, per questo motivo, il prodotto artistico stesso è esposto al rischio di diventare un semplice oggetto di consumo. In questo senso, non so se esso possa essere davvero una spinta al cambiamento o al pensiero critico quando è costantemente associato ad un branding, ad un’auto-messinscena dell’artista a cui viene suggerito di imitare il ruolo dei cosiddetti influencer. Il vero potenziale dell’arte come strumento di riflessione risiede, secondo me, nella possibilità dell’immagine (per immagine intendo anche scultura o installazione) di entrare in un dialogo diretto con l’osservatore, lontano da “filtri” di qualsiasi tipo, portando all’attenzione temi, suscitando domande a livello individuale. A mio parere, l’artista deve lasciare parlare l’opera, senza attribuirsi l’onere di fornire delle risposte o insegnare qualcosa, ma semplicemente indicando delle piste, lanciando dei segnali che possono essere colti o meno, o elaborati in diverse direzioni. L’arte, come la letteratura, è preziosa perché l’opera finita, una volta messa a disposizione dell’osservatore, cessa di appartenere a sé stessa per rivolgersi a chiunque, ma questo concetto di condivisione non coincide con la “condivisione” a livello di marketing social. Ovviamente serve la comunicazione, serve raggiungere la gente, ma non a costo di trasformare l’opera artistica snaturandola fino a ridurla a oggetto di puro consumo, prodotto di tendenza.
Quali sono i tuoi programmi per il futuro?
In questo momento, dal punto di vista artistico, intendo proseguire nella ricerca per affinare la tecnica, sperimentare formati più grandi e nuovi argomenti. Mi interessa anche, sulla lunga durata, rendere conoscibile il mio lavoro, comunicare, insomma. Il fatto che la mia attività principale sia quella accademica è, in questo senso, tutto il contrario che un freno, perché mi sento molto libera da regole e convenzioni e più che mai aperta al dibattito. La pittura resta, per dirla con Virginia Woolf, quella “stanza tutta per me” in cui posso evolvermi continuamente ancora più che in altri settori, nella piena consapevolezza che non esiste un punto d’arrivo definitivo e che ogni conquista apre una nuova sfida.
In quale modo le istituzioni potrebbero agevolare il lavoro di artisti e curatori?
Su questo piano, credo che ci sia tanto da fare. Qui in Germania, dove vivo, gli spazi sono più ampi rispetto all’Italia, almeno per gli artisti professionisti: esistono molte gallerie locali, spazi pubblici concessi ad artisti e collettivi e perfino laboratori a disposizione, come pure, a livello economico e fiscale, diverse agevolazioni e un sistema previdenziale. Però stiamo parlando di professionisti con formazione regolare e per cui il lavoro artistico è l’attività principale. Dal mio personale punto di vista, trovo che bisognerebbe assolutamente promuovere iniziative che consentano ad artisti emergenti o poco conosciuti di presentarsi e avviare dei rapporti di networking. I numerosi siti di aggregazione per chi non può vantare un percorso tradizionale di accademia mettono insieme, spesso, situazioni molto varie; gli eventi collettivi a cui si può avere accesso sono spesso in un contatto molto vago con istituzioni e curatori, così che discernere quali sono quelli da seguire e quali invece nascondono solo un interesse da parte degli organizzatori è molto difficile e richiede dell’esperienza. Sarebbe bene quindi creare molti più spazi pubblici aperti agli emergenti – i quali, a differenza di quanto si può credere, non sono alla ricerca del successo facile o di parole qualsiasi per sentirsi elogiati, ma di momenti di confronto serio – agevolando la partecipazione anche in termini economici.
Conosco la Antonella Ippolito per conoscenza virtuale in altro luogo e altro sito e mi pregio di essere un suo amico. Avevo già intuito la sua posizione accademica, non certo in Germania, e quindi docente per cultura e capacità personali, artistiche e non, ma la conoscevo solo come collega di poesia, una eccellente collega e meno come pittrice che appare essere la sua vera dimensione di artista. Ho letto l’intervista con molto interesse e curiosità e apprezzato le sue risposte sempre puntuali e precise nella dialettica di un discorso ad ampio raggio. Voglio bene ad Antonella per sé stessa, come persona, al di là delle sue notevoli capacità di pittura e poesia, perché solo chi poeta lo è può veramente capire la sua essenza, il suo humus fertile che genera la Bellezza a cui tutti siamo portati. Auguri Antonella, meriti una grande fortuna perché donna rara e speciale.