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Concerto per natura morta: intervista a Roberto Pugliese
Arte contemporanea
di Elisa Longo
Si è da poco conclusa, presso il Parco della Biodiversità Mediterranea di Catanzaro, sede del Parco Internazionale della Scultura, la seconda edizione del progetto “Musei [e] Pubblici. Verso una rivoluzione inclusiva dei musei come spazi relazionali”: un’interessante ed efficace nuova narrazione dei Musei, sempre più intesi come luoghi in cui coltivare, prima di tutto, idee e pratiche finalizzate all’inclusione. La rassegna, curata dall’Associazione culturale DI.CO Servizi Museali, ha potuto vantare quest’anno la collaborazione dell’ENS – Ente Nazionale Sordi/Sezione Catanzaro e il patrocinio del Ministero della Cultura.
L’evento di presentazione del progetto è inoltre rientrato all’interno dell’iniziativa “Appuntamento in giardino”, dal tema “Le musiche del giardino”, promossa dall’APGI- Associazione Parchi e Giardini d’Italia, con il patrocinio del Ministero della Cultura e in accordo con l’iniziativa “Rendez-vou aux jardins”, svoltasi in contemporanea in oltre 20 Paesi europei.
Per l’occasione abbiamo raggiunto e intervistato Roberto Pugliese, tra i più importanti esponenti della Sound Art in Italia, docente di Multimedialità al Conservatorio di Napoli, protagonista dell’evento conclusivo della rassegna con un’opera dal titolo Concerto per natura morta (variante, 2023), sotto la curatela di Silvia Pujia. Un intervento pensato per corrispondere la missione del progetto, attraverso la rivisitazione di un’opera sonora capace così di raggiungere, in maniera inclusiva, le percezioni e le emozioni di tutti i presenti.
L’imponente tronco d’albero cavo che Pugliese ha installato tra gli interventi scultorei e le varietà botaniche del parco calabrese, rivitalizzato e riconvertito attraverso l’utilizzo della tecnologia, si è trasformato in cassa di risonanza, nello strumento di un concerto inusuale e inatteso. Comprenderne appieno la forza espressiva ha preteso una serie di azioni di avvicinamento e relazione con l’opera che ne ha manifestato sin da subito le peculiarità, la complessità di un sistema in grado diffondere il suo come energia fisica, tangibile e vibrante.
L’universo della Sound Art è un’alcova di pratiche ed esperienze differenziate. Come entra e come si muove, in questa pluralità, Roberto Pugliese artista del suono? Quali i tuoi riferimenti, quali le tue prospettive?
«Parto subito col dire che io nasco come musicista, studiando percussioni, composizione e in ultimo musica elettronica. Grazie al mio Maestro di Conservatorio, Agostino di Scipio, e alla mia perenne curiosità verso l’universo dell’arte contemporanea, ad un certo punto del mio percorso ho iniziato a pensare al suono come mezzo al di fuori del contesto musicale più consueto. La mia ricerca trae energia da due correnti artistiche specifiche, da una parte l’influenza dell’Arte Cinetica e programmata – e infatti alcuni miei lavori hanno proprietà e funzioni cinetiche – e dall’altra la Sound Art: l’incontro tra queste due realtà mi ha portato a focalizzarmi, specie in passato, sull’interazione tra fruitore e suono, tra fruitore e macchina, tra macchina e macchina, come pure tra natura e artificio, il tutto mediato chiaramente dal suono. Per me il suono così inteso è dunque un mezzo d’indagine che va a lavorare sia sull’ambiente, nella sua accezione di spazio fisico, ma anche verso la sua dimensione più etica.
Col termine Sound Art si tende molto spesso a inquadrare qualsiasi tipo di operazione che esce dal conforto della musica tradizionale per fare sperimentazione. Ma dunque, a questo punto, qual è il confine tra la musica sperimentale,la composizione elettroacustica e la Sound Art? Da questo punto di vista, cerco di definire la mia permanenza nel sistema dell’arte sonora in maniera chiara e assolutamente specifica».
Quello che si nota subito è che tu lavori parallelamente sull’estetica del suono, e dunque nella dimensione dell’immateriale, e sull’estetica dell’oggetto del suono, ossia sulla superficie più imminente del veicolo sonoro. Questa operazione quanto incentiva o rafforza l’esperienza ricettiva, potendo il fruitore dare anche una specifica connotazione audio-visiva a ciò di cui fa esperienza? E poi, quanto e in che modo interviene l’interazione?
«Dici bene. So che non è così scontato che nella Sound Art l’interesse per l’oggetto sonoro sia altrettanto rilevante quanto l’attenzione verso il suono in sé. Io invece cerco appositamente di trovare un equilibrio tra l’aspetto visivo e quello sonoro perché altrimenti mi risulterebbe obsoleto parlare di Sound Art. Dal mio punto di vista, ci dovrebbe essere sempre una commistione tra l’arte visiva e quella sonora: dal momento in cui si va a lavorare solo sul sonoro o sul visivo o prevalentemente sull’uno a discapito dell’altro, è difficile e riduttivo parlare di Sound Art in tutta la sua complessità.
Ma a prescindere da questo, c’è di base in me la convinzione che un’opera d’arte debba necessariamente essere principalmente il risultato dell’azione e dell’equilibrio di tre fattori: estetico, concettuale e tecnico. È l’unico modo, a mio avviso, per garantire una buona ricezione, che quindi l’opera possa essere letta a vari livelli e compresa universalmente. L’arte per me non può e non deve avere un atteggiamento di superiorità nei confronti del fruitore, lasciare a lui soltanto la responsabilità della comprensione. Se noi partissimo dal principio inequivocabile e sereno che l’arte non può essere altro che un’estrema necessità di comunicazione, capiremmo che, in primo luogo, nella sua urgenza comunicativa, è l’artista che deve prendersi la briga di essere leggibile e accessibile a tutti».
L’opera che presenti al Parco della Biodiversità di Catanzaro, nella rassegna curata da Silvia Pujia in collaborazione con Dico-Servizi Museali ed ENS è “Concerto per Natura morta”: il titolo è forse emblematico della tua ricerca finora emersa. Si tratta di una scultura sonora che, ad un primo livello di lettura, partendo del titolo, evidenzia la scelta di due concetti: “concerto” e “natura morta”. Nel caso della natura morta, il gioco di parole è giustificato anche dall’utilizzo di un tronco morto per cause naturali, ma il termine (restando sempre nella tua ottica di valorizzazione di tutti gli aspetti, sonori e visivi) rimanda inevitabilmente ad un genere dell’arte figurativa che proprio sulla struttura compositiva degli oggetti pone le fondamenta della propria specificità. Così come il termine “concerto” ragiona su una struttura compositiva specifica in campo musicale…
«È così. Nella scelta del titolo di quest’opera, la volontà era quella di accostare intanto due realtà apparentemente distanti tra loro, che però qui trovano uno spazio comune e un dialogo. La natura morta ha, nella storia dell’arte, una tradizione lunghissima e ben consolidata. L’immaginario comune ricollega a questa categoria composizioni di oggetti inanimati, così come ormai inanimato è il tronco di cui si compone la mia scultura sonora. In questo caso, il suono interviene attraverso le sue vibrazioni costituendosi come nuova linfa vitale, come motivo di una nuova armonia. Ovviamente, nel pieno rispetto dell’ambiente, ho utilizzato un tronco di un albero giovane che purtroppo, per via di una malattia, è morto.
Mi piaceva l’idea di fare in modo che la sua presenza – non solo fisica, sicuramente molto notevole – all’interno del suo ciclo vitale potesse in qualche modo perdurare. Ho immaginato di poter dare a quest’albero l’opportunità di far tramutare la linfa in suono, regalandogli oltre che un’altra possibilità anche un nuovo scopo. Promuovere così un utilizzo tecnologico più poetico e “sensibile” tentando un riavvicinamento emotivo dell’essere umano nei confronti dell’ambiente, ma anche una sensibilizzazione su tematiche purtroppo ancora troppo scottanti come quella della deforestazione».
Infatti, a un secondo livello di lettura, si comprende che l’opera pone l’accento, in maniera approfondita, su tematiche molto attuali come la relazione tecnologia/sostenibilità ambientale ma soprattutto, in questo caso specifico, apre una riflessione sulla questione dell’accessibilità. Come suggerisce la presenza di uno dei partner principali della rassegna, ossia l’Ens, questa è un’opera che ha la possibilità di rivolgersi anche ad un pubblico speciale. È la prima volta per te e come hai lavorato su questo scopo?
«In via del tutto sperimentale, l’opera si presta ad essere fruita da un pubblico con cui, per ovvi motivi, non sono abituato a confrontarmi nell’ordinarietà. Per me è stata a tutti gli effetti una sfida, quella di riuscire a far percepire un’opera che nasce con finalità diverse ad un pubblico che non è abituato a questa tipologia di operazioni. Per entrare nella questione più propriamente tecnica, punto di partenza della composizione sono stati alcuni field recording registrati in contesti naturalistici, ai quali sono stati poi miscelati suoni elettronici di diversa natura al fine di creare una relazione dinamica tra suoni di origine naturale e suoni sintetici. L’azione più importante è svolta sicuramente dagli exciters, altoparlanti che funzionano per vibrazioni meccaniche e permettono al suono di propagarsi sulla superficie degli oggetti su cui sono posizionati. In questo caso, è il suono con la sua propagazione a rendere vibrante e animato il tronco, regalando la percezione di una nuova vitalità.
La cosa che ne rende possibile l’accessibilità è dunque la restituzione di una dimensione corporea del suono, percepibile attraverso il contatto fisico: i fruitori per “sentire” in maniera ottimale l’opera hanno bisogno di abbracciarla; tra le altre cose, è proprio questa l’azione, il gesto simbolico di un riavvicinamento tra l’essere umano ed il simbolo per eccellenza del suo habitat naturale».