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Tracce di futuro alla Biennale Architettura 2023: il punto di vista della Generazione Z
Architettura
Ci incontriamo all’ingresso dei Giardini io e i miei studenti. Sono futuri ingegneri-architetti venuti a Venezia pieni di curiosità apposta per la 18ma Biennale di Architettura e sono un’annata particolare: tutti più che bravi e, tra loro, qualche fuoriclasse, di quelli che, se hai fortuna, in dieci anni puoi allenarne uno. Nati nel 1999, un anno prima che iniziassimo a mettere quel due davanti alle tre cifre che identificano la nostra era, sono auto-ironici, volano leggerissimi sulle loro capacità, sul loro aspetto, sul loro destino professionale. Sembrano immuni all’ambizione – quella brutta, che ti fa sgomitare – e rassegnati a un futuro di aria rovente, carestie, tempeste e inondazioni. Quando ne parlano si commuovono, però la rabbia evapora subito, trasformandosi in un’espressione tenera ed elegante.
Immersi nel sole puntiamo subito al padiglione centrale. Si sente, mentre approcciamo alla grande scritta bianca “Biennale” sostenuta dalle ancor più bianche colonne (tra le quali fluttua una pensilina di lamiere forate i cui tagli ricordano l’ala del leone stilizzato) che sono tutti un po’ emozionati. Loro che sono pura potenza, che sentono che un domani, dentro questa cattedrale, potrebbero esserci proprio i loro progetti e cioè le loro idee, le loro fantasie, i loro desideri, le loro paure. Sanno bene cosa significa questo luogo, questa ricorrenza globale. La ricerca architettonica mondiale contemporanea selezionata da un mostro sacro – il super curatore – e da queste stanze lanciata in una dimensione di eternità. E anche se ridacchiano e fanno finta che non sia affar loro, sperano di trovare qui dentro qualche risposta, qualche conferma, qualche aiuto.
Iniziamo a girare tra i monitor, le scritte, i tappeti, i fili, le grafiche. Ci sono formelle strane appese a un soffitto, sedioline di plastica vecchia con dietro certi cassettoni, un orecchio sospeso da cui si sentono dei suoni, motivi ornamentali un po’ vintage che sanno di una specie strana di povertà ricercata. Però di architettura se ne vede poca e quella che si vede non ha l’aria di essere troppo coraggiosa. Sembra ancora intenta a evocare una grandeur che, seppur non fondata sulle zoccolature doriche della civiltà europea, è sempre grandeur. Certo, si capisce che c’è un tentativo di mostrare finalmente un mondo diverso da quello nostro, da quello occidentale, ma i miei ragazzi che combattono con la forma di un’architettura che stia su e ispiri un mondo nuovo – quello giusto, a prova di futuro, capricciosamente invocato dai terroristi che ogni tanto colorano con la vernice lavabile i nostri sacri italici monumenti – emettendo meno CO2, ospitando altre forme di vita, producendo energia elettrica e cibo con acqua marina, vento e sole, dopo un po’ non sanno bene cosa guardare. Qualcuno girovaga qua e là, qualcuno cerca un’inquadratura suggestiva di un misterioso oggetto appeso alle travi, qualcun altro si guarda intorno con lo sguardo annoiato e mi chiede perché si chiami Biennale Architettura.
La visita ai Padiglioni nazionali dei Giardini non sembra produrre risultati diversi. Si vedono tanti strani e buffi allestimenti, qualche deposito di materiali edili che fa pensare agli scaffaloni di un’Ikea in ristrutturazione, molti video in inglese troppo lunghi per essere guardati nella speranza di vedere un disegno interessante, un sacco di altri monitor del tipo cattivissimo video-arte-super-ultra-concettuale. C’è persino un sondaggio estorto al visitatore dandogli l’illusione di partecipare a un quizzone: gli viene chiesta l’opinione riguardo al tipo di morte che faremo durante le fasi avanzate del cambiamento climatico per poi esporre in vetrina i risultati.
Però la Biennale è dotata di un bel bar all’aperto dove tutti insieme brindiamo al futuro, qualunque esso sia senza rancore, e io a furia di Spritz torno ai miei 24 anni per una sera, finendo a lottare sul lastricato di San Marco protetto dal vecchio, rugginoso, MOSE.
Fortuna che il giorno dopo c’era la seconda parte: l’Arsenale. Anche qui tantissimi tappeti decorati, tantissime stoffe con stampe tenute insieme da opportune cuciture povere – non può non venire in mente la perfida suocera di Midnight in Paris: «Se è cheap, è cheap» – ma, poco prima di perdere definitivamente le speranze e lanciarci verso inesplorati livelli alcolici, ci imbattiamo nella 18esima Mostra Internazionale di Architettura. Finalmente, come un acquazzone dopo un’infinita estate caustica, ci piovono addosso dozzine di splendidi plastici di architetture low-cost strafighe, capaci di trasformare vecchie finestre in inedite pelli vetrate continue ma irregolari, di rendere gli incastri tra vecchi edifici industriali e aggiunte residenziali poetici come quegli oggetti spuri realizzati dalle creature marine più fragili e minute.
E poi decine di progetti che usano con coraggio e creatività gli strumenti della contemporaneità – digital design e digital fabrication – in maniera vera, sincera, audace, per modellare spazi nuovi, diversi da quelli di ieri, meno grandiosi ma più adatti e più capaci a entrare in sintonia con il cielo, il mare, con le topografie del nostro corpo e del pianeta. Eccola, finalmente, la più autentica ricerca architettonica contemporanea, la sola che abbia rinunciato ai colonnati per tentare disperatamente di progettare nuovi linguaggi, nuove tettoniche, cioè una nuova visione di mondo fondata sulla coesistenza simbiotica tra tutti i viventi. È questa la sola chiave della nostra sopravvivenza, lo zeitgeist a cui dedicare speranze ed energie creative, e il fatto che da un certo punto in avanti sia il cuore della mostra testimonia che non è mai – mai – il caso di perdere le speranze.
È proprio qui, in mezzo a questi plastici stampati in 3d oppure in legno e cartone, che avviene il miracolo che tutti stavamo aspettando, per il quale, in fondo, siamo venuti fino a Venezia. Tra i progetti uno spicca, attirando l’attenzione dei ragazzi: è identico al basamento che una di loro ha disegnato per connettere armonicamente la sua vertical farm all’orizzontalità di un parco urbano. E loro l’osservano increduli, sentendosi parte della più grande esposizione.