21 giugno 2023

exibart prize incontra Eleonora Del Giudice

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Il mio “espressionismo” è  riconducibile a una semplificazione formale e all’enigmaticità degli sguardi delle figure femminili, da sempre protagoniste assolute della mia produzione.

Eleonora Del Giudice

Qual è stato il tuo percorso artistico?

Dopo il diploma al Liceo Artistico Statale di Napoli nel 2002, studio pittura con Domenico Palombo a Laureana Cilento, con il maestro Salvatore Ciaurro a Napoli, e scultura in gesso con l’artista Tony Salvo. Continuo il mio percorso artistico laureandomi in Conservazione dei beni culturali nel 2011 all’Istituto Suor Orsola Benincasa di Napoli e poi in Storia dell’arte e conservazione del patrimonio storico artistico nel 2015 nella medesima facoltà, discutendo la tesi, di cui un estratto è pubblicato in “Grafica d’arte” n. 107 del 2016, con la direttrice dei Musei Vaticani Barbara Jatta. Successivamente frequento i corsi di Grafica d’Arte con i maestri Erminia Mitrano, Agnese Brusca e Aniello Scotto, altresì seguo le lezioni di fotografia con Aniello Barone, presso l’Accademia di Belle arti di Napoli. Molto significativi sono poi i miei incontri con gli artisti Roberto Stelluti e Carlo Guarienti. Dal 2009 studio danza orientale al “Centro Halima” ad Arzano e dal 2016 frequento il laboratorio di scrittura creativa dell’autrice letteraria Vincenza Alfano “L’Officina delle parole”. Mi sento un’artista la cui creatività spazia liberamente tra varie forme artistiche, consapevole del legame profondo e indissolubile che le lega, per cui quando mi dedico all’incisione, necessariamente porto quell’esperienza nella pittura, e viceversa. La mia scrittura, ad esempio, è fortemente visiva, quindi si rifà, irrimediabilmente, alla mia attività pittorica. Pertanto condivido pienamente le parole del filosofo e docente di estetica Giovanni Piana, il quale nel  suo Mondrian e la musica del 1995,  chiama in causa il principio dell’unità profonda della produzione artistica, quindi contempla la necessità di valutare l’esperienza creativa oltre i limiti imposti dalla tradizionale separazione tra le discipline. Non importa che si tratti di musica, architettura, letteratura o pittura, il punto focale è altrove, ed egli lo individua tramite una singolare «teoria delle coincidenze», secondo cui i grandi interpreti di un’epoca sono, in ambiti e con esiti diversi, portavoce del medesimo sfondo culturale. In quest’ottica è utile chiedersi, dunque, secondo costui, se si possa parlare ancora di belle arti o possiamo parlare di una sola espressione artistica in forme diverse.

 

Quali sono gli elementi principali del tuo lavoro?

Dopo aver acquisito le tecniche di base, ho attraversato una fase “espressionista” con la serie Rosso Endometriosi, dedicata a un evento autobiografico, in cui il dolore  della malattia viene raccontato con la dominante rosso fuoco e un significativo ricorso all’iconografia cristiana delle sofferenze di Gesù Cristo al Calvario. Dal 2018 sto lavorando alla serie Armonie sospese, che consta di dipinti e incisioni, le quali sono il frutto della maturazione di un linguaggio avvenuta in questi anni grazie allo studio dell’incisione che, sotto la guida abile e fondamentale del maestro Erminia Mitrano, è divenuta la mia realtà, anche nella consapevolezza che la grafica d’arte è ormai per me elemento inscindibile e inseparabile dalla pratica pittorica, essendo le une e le altre, come sostiene la Mitrano da sempre, “vasi comunicanti”. In questa serie sono forti i rimandi agli stilemi degli artisti Massimo Campigli e Pippo Gambino. All’autore siciliano mi sento vicina per quella  vena espressionista  ed emotivamente vibrante che si percepisce nelle sue opere, alle quali ho aggiunto quell’apparente rigore formale che è tipico, invece, delle opere di Massimo Campigli, non esenti, a chi ha uno sguardo capace di andare oltre l’ apparente compostezza e serenità delle sue figure, da un tormento interiore che si intravede in quegli “occhi senza sguardo”, come ha detto qualcuno, in una enigmaticità che è poesia ed emozione essa stessa. I miei lavori di incisione sono realizzati su lastre di zinco, spesso in doppia o a tripla battuta, ove la linea, forte e corrosiva, è sempre protagonista assoluta, anche laddove ci sia stato l’ausilio delle tecniche sperimentali e quindi di una valenza tonale, la quale, indi, è sempre sfondo, accompagnamento espressivo, mai protagonismo. Il mio “espressionismo” è  riconducibile a una semplificazione formale e all’enigmaticità degli sguardi delle figure femminili, da sempre protagoniste assolute della mia produzione. In esse ricerco tagli compositivi particolari che siano espressione della mia visione del mondo. Queste figure, enigmatiche e assorte, sono come “sospese”, emblematiche di un tempo che ci riduce a fantasmi, ad anime vaganti senza sosta.

 

In quale modo secondo te l’arte può interagire con la società, diventando strumento di riflessione e spinta al cambiamento?

L’arte è un sistema di comunicazione simbolica, un essenziale elemento organizzativo dei sistemi culturali, e nelle opere degli artisti si è pensato di poter leggere le tendenze profonde di una società, come sosteneva Erwin Panofsky nel 1939. Credo che l’arte possa espletare il suo reale compito di trasformazione culturale solo se smettesse di essere strumento di controllo sociale da parte della politica, divenendo coscienza critica.

 

Quali sono i tuoi programmi per il futuro?

Oggi mi sento pronta per realizzare una personale importante che possa raccogliere i frutti di un’intensa attività artistica che caratterizza la mia quotidianità, soprattutto da cinque anni a questa parte. Inoltre è in progetto la creazione e la pubblicazione di un’antologia che unisca buona parte dei miei racconti. Chi è interessato a conoscere gli sviluppi del mio lavoro e a vedere le mie opere, può consultare il sito www.eleonoradelgiudice.it e seguire la mia pagina Instagram  Eleonora Del Giudice Artist 2.

 

In quale modo le istituzioni potrebbero agevolare il lavoro di artisti e curatori?

Innanzitutto ho notato che molti storici dell’arte che insegnano all’università e non, si crogiolano nei loro studi accademici sugli artisti del passato, ma spesso si disinteressano degli artisti odierni e soprattutto non vanno a caccia di nuovi talenti, salvo eccezioni come i grandi  storici e critici d’arte Vittorio Sgarbi e Daniele Radini Tedeschi. Così, non ci si stupisce che vi siano pregevoli collezionisti come Giuseppe Iannaccone o giornalisti di spessore come Camillo Langone, che sopperiscano a questa carenza, sostituendosi agli storici di professione nella valorizzazione degli artisti. Il gallerista poi, salvo rare occasioni, non investe sull’artista emergente, a meno che non faccia già parte di filoni precostituiti. Negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta nella mia città, Napoli,  la situazione era molto diversa, se pensiamo che storici dell’arte di chiara fama come Ferdinando Bologna, scoprì Elio Waschimps, e a livello nazionale, l’immenso Roberto Longhi fu la fortuna di Giorgio Morandi, giusto per fare degli esempi. Esiste, poi, una miriade di critici d’arte di professione più o meno valenti, molti dei quali disposti a fare la curatela a chiunque per questioni di guadagno, squalificando il mestiere dell’arte. Questi ultimi, nella maggior parte dei casi uniti ad associazioni, start up e case editrici, che spesso fanno la fortuna sui grandi nomi, sfruttano le velleità artistiche delle persone, costituendo, di fatto, un sottobosco parallelo al sistema dell’arte che non aiuta veramente gli artisti, ma vive sulla pelle di artisti o pseudo tali. In generale, poi, l’ approccio alla ricerca degli artisti viventi o emergenti è spesso subordinata a ragioni di gusto personale, a idiosincrasie e simpatie più o meno evidenti, a ragioni di interesse economico e di potere, e spesso nasce da studi critici affrontati precedentemente, di cui tali artisti rappresentano l’ideale “suggellamento”. Su tutto prevale la paura di investire sugli artisti un po’ più fuori dagli schemi e di prendersene poi le dovute responsabilità. Altresì sono persuasa che il sistema attuale dell’arte privilegi fortemente la figura del critico, spesso inavvicinabile perché ammantato di un’aura di prestigio, a discapito di quella dell’artista, senza il quale, voglio ricordarlo, non esisterebbe alcuna esigenza critica. A fronte di ciò, risulta illusorio e mitizzato che il critico, il gallerista o il giornalista possa farsi, attualmente, promotore di artisti realmente sconosciuti, e la nascita della nuova figura di artista manager di sé stesso esperto di social e digital marketing come quella di Jago, appare significativa in questo senso.

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