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Ritratto di Umberto Boccioni, oltre il Futurismo: la mostra alla Fondazione Magnani Rocca
Mostre
di Luigi Abbate
La presentazione inganna: sotto il celebre Autoritratto di Brera del 1908, utilizzato come immagine per mostra e catalogo, attrae il nome dell’autore, Boccioni. In realtà l’interesse vero sta sotto, in piccolo: «Prima del futurismo», ed è ciò che fa della mostra in essere alla Fondazione Magnani Rocca di Mamiano di Traversetolo, nel parmense, uno dei momenti più importanti di questo scorcio di stagione espositiva. Non a caso ci son voluti ben tre curatori, Virginia Baradel, Francesco Parisi e Niccolò D’Agati, esperti nei rispettivi ambiti, coadiuvati dal “padrone di casa” Stefano Roffi, per indagare la Bildung boccioniana a prescindere dalla successiva, ben più nota stagione futurista.
I tre studiosi si son spartiti il lavoro, destinandosi altrettanti luoghi e ambienti frequentati da Boccioni in un periodo compreso fra il 1899 e il 1910-11. Parisi s’è occupato della Roma a cavallo fra i due secoli, dove Umberto vi giunge diciassettenne e vi resta cinque anni, respirando a fatica l’aria di neoidealismo e crepuscolarismo, ma anche quella di Prini (in mostra Ritratto della fidanzata Orazia Belsito) e soprattutto di Balla, del quale assorbe l’iridescente divisionismo, esemplato qui in Villa Borghese dal balcone. Nello studio di Balla stringe amicizia con Sironi (Autoritratto, pastello su cartoncino nei toni del grigio) e Severini. Le facce opposte, naturalista/antinaturalista, del simbolismo, ovvero Segantini e Previati (di questi in mostra Assunzione, olio del ’03), sono i riferimenti milanesi del terzo periodo; ai due maestri s’aggiungono fra gli altri, Longoni, Morbelli, Sottocornola.
Ma se Milano e Roma potevano essere più facilmente documentabili, anche per i contatti diretti con i citati maestri, più ardui da individuare gli autori che hanno abitato il periodo di mezzo, dal 1904 a Padova e dall’aprile del ’07 al ’09 a Venezia. Scontata la presa di distanza dal vedutismo veneto – «Ciarpame romantico, veristico, simbolico», annota Boccioni nel Diario – cui si contrappone l’ammirazione per Dürer, Roffi nel contributo al catalogo edito da Dario Cimorelli, ne sottolinea il comune amore condiviso con Luigi Magnani, spingendosi verso correpondances musicali nel nome di Busoni.
Virginia Baradel è riuscita a immaginare possibili sguardi di Boccioni sui veneti Valeri, Moggioli, Favai, Milesi, i triestini Fragiacomo e Marussig, con la visita alla Sala del Sogno alla Biennale del 1907, dove incrocia il Garibaldi di Nomellini e i Monaci dalle occhiaie vuote di Mario de Maria, non rimanendo estraneo a certo simbolismo nordico e mitteleuropeo – Böcklin e Franz von Stuck, quest’ultimo ravvisabile nella Diavolessa di Alberto Martini. «I Ciardi vecchi e vecchi, Nono senile e Zanetti Zilla buone tecniche senza vie», scrive ancora. Eppure di Zilla la curatrice sceglie un olio su cartone, Armonia verde (Monocromo), che non lascia indifferenti; e proprio Baradel sottolinea acutamente che Boccioni non distingue «Tra il sentimentalismo patetico del verismo e la poetica degli stati d’animo accordati alla natura».
Preconcetti? Idiosincrasia a pelle? Forse né una cosa né l’altra, ma semplicemente la febbre che anima la ricerca di una strada da intraprendere, ancor più radicale nella posizione del “futurista” (le virgolette solo per rammentare una collocazione che in Boccioni suona riduttiva alla luce dell’inattesa, drammatica morte del maestro pochi anni dopo, nel ’16).
Il Chiostro (in basso, a sinistra, ben leggibile “Boccioni-Padova-1904”), è esemplare dell’attenzione per il farsi dell’opera attraverso momenti stilistici successivi, come pare rivelare il “ritocco divisionista” sul prato operato forse a Milano. O, sempre del ’04, il Ritratto della sorella, dove il bianco della camicetta contrasta nella sua ruvida matericità con lo sguardo languido di lei. Si arriva poi al 1909 del Ritratto di gentiluomo, la cui posa convenzionale è desumibile dalla committenza, senza con ciò privare il dipinto di accattivanti giochi cromatico-luministici. Sempre del ’09 Nudo di spalle (Controluce), ritratto della madre nel quale i filamenti di colore sono segno della lezione balliana ma anche risultato di un apprendistato che ormai si affranca dalla lezione del maestro per acquisire confidenze più strette appunto con i “controluce” che preludono a virtuosismi del divisionismo boccioniano di stampo futurista. La madre è soggetto ricorrente e lo sarà ancora in un dipinto e, soprattutto, in un celebre bronzo, l’Antigrazioso, del 1912-13, non presente.
È invece in mostra, ancora del ’09, Il Romanzo di una cucitrice, opera quasi tardodivisionista, al punto che l’autore, segnala D’Agati, viene additato non senza gusto per il paradosso come “vecchio futurista”. Per arrivare al Ritratto di Fiammetta Sarfatti: saggio della stagione “barbarica” (il termine è di Boccioni), orgia di colori eccitati ed eccitanti del 1911 che si ammira nonostante si spinga un anno oltre la datazione circoscritta per la mostra. Fiammetta era la piccola figlia di Margherita, con la quale l’artista ebbe una liaison presto incompatibile con l’apparire di “eritemi” sulla pelle della musa di Novecento al solo pronunciare la parola Futurismo.
Mostra ricca (più di 200 opere) e completa, con la sala d’ingresso, a cura di D’Agati, dedicata ai primi lavori del Boccioni illustratore a Roma, e impreziosita dalla presenza di lastre e incisioni.
Aperta fino al 10 dicembre.