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In ricordo di Giovanni Chiaramonte: immagini da un peregrinare nel mondo
Fotografia
«La fotografia è scrivere con la luce un istante in modo permanente». Nella frase pronunciata dal fotografo Giovanni Chiaramonte c’è il suo viaggio che intreccia luoghi e vite degli uomini, un percorso di conoscenza e salvezza, che si conclude all’età di 75 anni, vissuti in simbiosi con la fotografia, nella costante ricerca di un realismo da lui stesso definito “infinito”. È proprio questo il titolo di una delle sue ultime mostre infatti, tenutasi nel complesso monumentale di Astino, Bergamo, nel 2022, curata da Corrado Benigni. La retrospettiva e la monografia (Electaphoto) a lui dedicate rappresentano un poema del viaggio attraverso l’Italia, l’Europa e l’America, una sorta di pellegrinaggio che mediante le fotografie mostra la sacralità e la devozione dell’artista nei confronti dei luoghi, della loro storia e memoria, di chi li ha abitati e abita oggi il mondo.
Secondo Chiaramonte, a parlare allo spettatore è l’opera, poetica comune a molti artisti del panorama attuale dell’arte contemporanea. Lo sguardo occupa lo spazio, instaurando un rapporto alla pari tra ambiente, tempo, uomo, in una superficie relazionale e architettonica che si costruisce lentamente e si muove su piani di realtà e irrealtà. A tal riguardo tanti sono i riferimenti cinematografici, dalle immagini dell’Oriente cristiano di Andrej Tarkovskij a Michelangelo Antonioni, filosofici, teologici, letterari, in cui il racconto cede il posto alla scoperta, al mistero, all’enigma. Dunque la rappresentazione del paesaggio non è realistica, piuttosto trascendente. E’ la sintesi di esteriorità e interiorità umana, uno sguardo che va dal particolare all’universale attraverso la luce, fra tradizione e modernità.
Fotoreporter, critico, storico e teorico della fotografia, docente, studioso di filosofia e con una laurea honoris causa in architettura, Chiaramonte ha raccontato il presente dando bellezza al caos che lo caratterizza, eternità al paesaggio e ai luoghi della memoria storica, molteplicità e senso alle forme del reale. La sua opera fotografica è densa di rimandi artistico-architettonici in cui forma e sostanza coincidono, dalla luce prospettica chiara e cristallina della “Città ideale”, tema pittorico del XV secolo, al classicismo dello Sposalizio della Vergine di Raffaello del 1504, oggi alla Pinacoteca di Brera, in cui l’edificio sul fondo crea un vuoto e un enigma, dalla luce della Scuola di San Rocco di Venezia e Tintoretto a quella metafisica di De Chirico, che dona sospensione e mistero. Chiaramonte supera la fotografia concettuale, sovrapponendosi quasi alle architetture del paesaggio e al realismo pittorico americano di Hopper, passando attraverso quello caravaggesco, che diviene infinito grazie all’arte.
Lo strumento fotografico immortala la realtà e restituisce l’esistenza dell’uomo nel momento vissuto e nella storia passata. Le opere assumono talvolta la forma di cornici interiori in cui gli oggetti e la presenza umana diventano simboli collettivi e non individuali della civiltà occidentale. Una delle tematiche maggiormente affrontate dal Nostro è quella della città e del paesaggio, oggetto di studi dagli anni Ottanta al Duemila, lungo periodo in cui, oltre a essere autore di riviste prestigiose come Domus, Abitare, Casabella, ha diretto numerose collane dedicate alla fotografia, come la cooperativa editoriale Punto e Virgola, fondata insieme a Luigi Ghirri nel 1977.
“Paesaggio italiano” è una mostra del 1983 tenutasi allo Studio Marconi di Milano, con prefazione di Arturo Carlo Quintavalle, che ha segnato l’inizio della longeva vita della fotografia italiana, seguita l’anno successivo dalla prima manifestazione collettiva Viaggio in Italia, progetto ideato e curato dal fotografo Luigi Ghirri, scomparso nel 1992, con Giovanni Chiaramonte, Guido Guidi, Vittore Fossati, Fulvio Ventura, Vincenzo Castella, e altri ancora, un fotoreportage non di denuncia, bensì immaginario architettonico, urbanistico, ecologico, officina di creatività, tale da affrontare aspetti legati al paesaggio, all’ambiente, alla conservazione e al patrimonio culturale storico-artistico.
Una fotografia quindi antropologica, storica, esperienziale, che ha attraversato Milano e Roma, il mondo mediterraneo e quello germanico, Atene a Gerusalemme, tramite la cultura ebraica, greca e bizantina, dove le colonne testimoniano la tradizione, le città le sovrapposizioni del tempo, i segni gli strati della realtà.
L’insegnamento che Giovanni Chiaramonte ci lascia oggi è che luce e ombra hanno un valore simbolico e accadono in un attimo esatto, che coincide con l’accadere della vita stessa. La luce va immortalata in quell’istante miracoloso. È la luce universale e simbolica, e direi anche il silenzio, a unire l’opera di Chiaramonte e la poesia, pensiamo di nuovo a Caravaggio o a Montale. Mi piace allora concludere questo ricordo con i versi del testo Verbi, tratto dall’ultimo libro di poesie della Garzanti Editore, Autoritratto automatico di Umberto Fiori, che avrebbe dovuto dialogare con lui a breve, ancora una volta, come in passato, quando con il suo amico fotografo lavoravano insieme in progetti come Abitare il mondo, Dolce è la luce, Cerchi della città di mezzo, In corso d’opera e la fotografia e la poesia si fondevano, unendo linguaggi universali e autentici.
«Chissà chi l’avrà inventato/ il verbo immortalare/ che ogni tanto riaffiora,/ giulivo e rancido,/ quando si parla di fotografia./ Un creativo? Un parroco?/ Un letterato? Chiunque sia,/ non conosceva la foto automatica./ Qui dentro, di posa in posa,/ altro che eternità: /quando la striscia spunta dalla scatola / uno si trova là, fresco e vitale/ come il giornale dell’altroieri./ Zigomi, labbra, palpebre da archiviare./ Denti: bianchi; capelli: neri./ Tutto perfettamente mortalato».