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Un teatro che parla di vita: L’Avaro di Enzo De Caro al Parioli di Roma
Teatro
Con L’avaro immaginario, Enzo De Caro torna al teatro Parioli di Roma fino a domenica, 19 novembre, e appassiona il pubblico con una compagnia di giro in viaggio per Parigi per raggiungere Moliere. Uno spettacolo applauditissimo al suo debutto romano. Sul palco, Enzo Decaro, con Nunzia Schiano e sei attori della Compagnia di Luigi De Filippo: Luigi Bignone, Carlo Di Maio, Massimo Pagano, Giorgio Pinto, Fabiana Russo e Ingrid Sansone. E un carretto. Insieme, sono un’orchestra in perfetta armonia per raccontare un viaggio.
Un atto unico dove ogni quadro è una tappa, un equilibrio armonico tra i testi di Moliere e di Luigi De Filippo, i pensieri di Giordano Bruno, le musiche di Nino Rota e della tradizione popolare del Seicento napoletano, la recitazione di un teatro dove “tutto è vero e tutto è falso” e dove “ ‘a meglio parola è chella ca nun se dice”.
L’avaro, Il malato immaginario e qualche battuta da Il tartufo, Il Candelaio di Giordano Bruno, riarrangiati in un idioma musicale, ritmato, ancestrale, teatrale, che comunica con lo spettatore anche quando va al di là della sua comprensione (siamo a Roma): quella lingua napoletana che “si azzecca ai personaggi di Moliere”.
Ma quello del capocomico Oreste Bruno/Enzo De Caro è un teatro dotto che solo veste panni popolari, che ricorda come studiare sia fondamentale per non essere un gregge di pecore, che “i figli so di chi se li cresce, come diceva San Giuseppe”, che “la libertà del pensiero è più forte dell’arroganza del potere” (da Il Candelaio di Giordano Bruno), che non c’è mediazione tra l’uomo e Dio perché siamo tanti suoi frammenti. Una commedia dell’arte che racconta un secolo di guerre, peste, malattie e ignoranza; che vive oggi come nel Seicento di Moliere; dove “nessuno nasce, nessuno muore, si cambia solo vestito”. Un teatro vivo, senza tempo, dove “non è che fuori sei falso e poi in teatro vuoi essere vero”.
L’avaro immaginario è una commedia che racconta una tragedia; un teatro che parla di teatro, di vita. E De Caro, nel rispetto dello spirito degli autori, usa la commedia come una critica alla società del tempo, dominata dalla superstizione, dall’ignoranza e dalla corruzione. Allora come ora.
Il lavoro di Enzo De caro è alto. Lui è “Oreste Bruno: la maschera senza la maschera”. Soprattutto è nipote di Filippo, detto Giordano, Bruno, morto nella Roma papalina e che sarebbe stato ancora vivo se fosse rimasto a Napoli dove “la Santa Inquisizione non uccide nessuno”. Uno di cui “per fortuna nessuno si ricorda più”.
Al teatro Parioli di Roma, Enzo De Caro dà voce a un filosofo sopravvissuto alla damnatio memoriae di una Chiesa dogmatica, alla visione lucida e potente di un grande iniziato che diventa più accessibile se filtrata attraverso la teatralità di Moliere, ma che ancora oggi ci sfugge: Giordano Bruno, il filosofo nolano arso vivo in piazza Campo de’ fiori a Roma il 17 febbraio del 1600 e non ancora riabilitato. (Ad agosto di quest’anno, il teologo ottantenne Frei Betto, ha nuovamente chiesto a Bergoglio la riabilitazione del frate domenicano).
E con Enzo De Caro chiacchieriamo di una pièce teatrale che affonda le sue radici in scritti del Cinquecento e del Seicento, ma che ha in sé una frase de “Il Candelaio” di Giordano Bruno: “Il tempo tutto toglie e tutto dà; ogni cosa si muta, nulla s’annichila”.
In scena lei è Oreste Bruno, “la maschera senza maschera”. Cosa resta in teatro senza una maschera?
«Resta la persona, la sua innovazione rispetto al tempo in cui vive. Soprattutto in un periodo in cui la commedia dell’arte si doveva vestire delle maschere di Pulcinella, Scaramouche, Pantalone, Arlecchino. Oreste, nella sua povertà, vuole fare una piccola rivoluzione teatrale e dice che la vera maschera è quella che resta quando uno si è tolto la maschera.
Io ho avuto il privilegio di condividere alcuni anni con colui che è stato la maschera senza maschera più importante del nostro teatro moderno, Massimo Troisi. Credo sia stata una maschera senza maschera. Che sia stato in grado di creare un personaggio attingendo profondamente alla sua non maschera. E quando la maschera diventa la persona, hai creato qualcosa che resta nel tempo».
Credo che appartenga alla tradizione partenopea: pensavo a Edoardo De Filippo…
«È anche quello che succede quando dietro la maschera di Totò si intravede, se lo sai cercare, la genialità creativa di Antonio De Curtis, che si serviva di Totò per dire quello che gli interessava dire».
In scena Oreste ripete, parlando di Giordano Bruno, “per fortuna nessuno si ricorda più”. Dell’uomo o della sua filosofia e del suo messaggio?
«Di tutti e due. È stata fatta un’operazione certosina per cui non si poteva più neanche nominarlo. La Chiesa del tempo capì la potenzialità, per lei distruttiva, del pensiero di Giordano Bruno e decise, scientemente, non di dirne male, ma di cancellarlo. Non se ne parlò più. Il suo pensiero venne occultato. Non solo la morte e il rogo, ma il silenzio su idee alle quali non erano in grado di contrapporre nulla».
Ne Il candelaio, Giordano Bruno mette in ridicolo la superstizione, le pratiche magiche, le credenze popolari. Come fa anche Molière. L’avaro immaginario non è solo una fusione tra Moliere e Luigi De Filippo, ma tra Moliere e Giordano Bruno. Cosa lega tutti e tre?
«La coscienza a diversi gradi di Giordano Bruno, il fatto di essere degli innovatori di un tempo diverso da quello che stavano vivendo. Tutti e tre erano più avanti. Ancora adesso Giordano Bruno è più avanti di noi. Neanche noi siamo ancora pronti per il pensiero di Giordano Bruno. Ognuno di loro, a modo suo, ha un piede nel suo tempo e uno fuori: vivono le contraddizioni del loro tempo, ma hanno uno sguardo nel futuro».
Se voglio sapere quale futuro sto costruendo, guardo quello che sto facendo nel presente…
«E soprattutto mi apro a quello che non so. Quella che Giordano Bruno chiama “la porta chiusa del mistero”: accettare questa parziale conoscenza per accoglierne una nuova. In un tempo come il suo, che in certi versi è anche il nostro, fatto di certezze, di dogmi, di dover controllare anche la natura del pianeta. Non andava bene allora, con un’idea di profitto spirituale, dove c’era bisogno di un controllo delle persone per poterle dominare. E non va bene oggi, dove abbiamo solo sostituito i poteri. Non c’è più il potere teologico, spirituale, ma l’economia è il tiranno del pianeta, che gestisce e decide addirittura le emozioni. Oggi il tiranno è il profitto economico, che non guarda in faccia neanche la vita del pianeta. Giordano Bruno, nel Cinquecento, era già cosciente di quello che la generazione di Greta sta scoprendo ora: che la vita è a suo modo intelligente; che il pianeta, Gaia, ha una sua anima. Ci sono parole e pensieri di Giordano Bruno complicati anche oggi; immaginiamo cosa dovessero essere nel Cinquecento, in un mondo che aveva altri alfabeti differenti dal suo».
L’avaro immaginario chiude con un monologo potente, che dice che l’umano non ha limiti, che siamo divini e che possiamo generare il cambiamento
«Sono due punti che sembrano contrastanti. Giordano Bruno dice che siamo divini. Ma, a un certo punto, riflette sul fatto che, quando l’uomo accetterà questo pensiero, si renderà conto a chi ha ceduto le redini della sua esistenza. Avrebbe potuto scriverlo stamattina e non cinquecento anni fa. Questa intuizione, sua come di altri antichi maestri, non ha tempo. Bruno è lucido nel vedere la perdita del senso di divinità dell’uomo che è, piaccia o meno, il responsabile delle cause della sua vita. E nel perdere la possibilità di tenere in mano le redini della sua vita, dice Bruno, si renderà conto in mano a chi le ha messe. Il filosofo nolano analizzava il suo tempo, ma oggi abbiamo solo cambiato i dogmi. Abbiamo questa apparente libertà individuale di poter fare tutto, ma è evidente che, come diceva Gaber, è una libertà da voliera. Sì, puoi volare un pochino, ma c’è una rete intorno che difficilmente permette di volare oltre questa gabbia».
Qual è stato il suo lavoro sui testi?
«Ho cercato di rispettarlo, anche lessicalmente, e magari estrapolare qualcosa che in dieci pagine rischia di perdersi, mentre in tre righe è chiarissimo».
Lo spettacolo chiude con la notizia che la compagnia si scioglie. Che traduzione ne dà?
«Che non muore, che cambia solo vestito. È legato alla trasformazione, anche dolorosa, ma che fa parte della vita. I giovani andranno a fare qualche altra cosa, da qualche altra parte, ma quel viaggio, che sembra chiudersi, continuerà semplicemente con un vestito diverso».
E chiude anche con la frase, detta in napoletano, “ce ne ritorniamo a casa”…
«È il mantra del personaggio di Nunzia Schiano. È un desiderio. Come quando alla domanda: ma tu che scegli: di restare qui nella Reggia di Versailles con Molière o a casa con pane e pomodoro? E lei risponde: “ma nessun dubbio, a casa con pane e pomodoro. Cacciafà co stu Molière?”. È la necessità delle proprie radici, della propria essenza che non può essere corrotta da nient’altro. Neanche le apparenze più golose possono mettere in dubbio qual è l’appartenenza di se stessi a che cosa. Lei è una donna di terra, attaccata alle radici, ed è evidente fin dalle prime battute. È la donna che parla per proverbi, consapevole di dove sta la sua casa e che il suo è un viaggio».