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Black Star, ferocia e oscenità dell’Occidente al teatro Fabbricone di Prato
Teatro
Indossa una maschera da clown e canta per sopravvivere mendicando sulla strada. Lo abborda una ricca donna adulta. L’accattone diventa oggetto del suo desiderio erotico, poi vittima sociale, avversario politico, capro espiatorio, di una coppia borghese, di un poliziotto, della società tutta, noi compresi. È un immigrato congolese di nome Grock, un afrodiscendente di quel Continente sfruttato da sempre dall’Occidente. È lui, un anonimo cantante, la “stella nera” dello spettacolo Black Star (al teatro Fabbricone di Prato), testo d’urto di Fabrizio Sinisi, che scardina senza timori luoghi comuni sullo straniero, sul diverso, sull’altro da additare sospetto, colpevole o meno, sul quale scaricare la violenza repressa, e immolarlo sull’altare delle nostre “buone” coscienze. Nelle mani di Fabrizio Arcuri, la regia ne fa un affresco paradigmatico di cronaca contemporanea, di modello persecutorio e violento, dove il teatro diventa il luogo dell’atto sacrificale.
Costruito drammaturgicamente come un ingranaggio di spietatezza disturbante, dove l’oscenità di chi siamo culturalmente non teme di essere detta, dove la violenza è tutta verbale, evocata e mai mostrata, il testo, e la sua lucida rappresentazione del razzismo latente e della paura del diverso che serpeggia nella società, arriva come un pugno allo stomaco con colpi ben assestati via via si procede nel racconto visivo e ritmico di Arcuri, dall’estetica pop. Scanditi dallo stridore rock della chitarra e del basso elettrico di un musicista live (Giulio Ragno Favero), i quattro stratificati episodi sono segnati dalla gigantografia di grattacieli notturni dietro una tenda di strisce argentate, da fumi e luci, dall’irruzione di un’alta passerella mobile, da un televisore e altri oggetti domestici che infine deflagreranno.
In un crescendo che non concede tregua, già il primo episodio dilaga lentamente fino ad esplodere nell’inarrestabile flusso di parole che la donna di mezza età – una impeccabile Aglaia Mora, per presenza scenica e vocalità emotiva, fredda e carnale insieme – tracima senza sosta in un gorgo viscerale amoroso insospettabile, tutto declamato attraversando la platea, irrompendo sulla scena, muovendosi col microfono in mano e guardandoci, mentre l’uomo di colore l’ascolta distratto seduto con accanto un mappamondo.
Il secondo episodio ci introduce tra le mura domestiche di una coppia borghese (Gabriele Benedetti e Maria Roveran) con l’uomo che, per spirito altruistico, apre la casa a uno sconosciuto che chiede aiuto, il quale però li immobilizzerà, e userà violenza alla figlia uccidendola. Il misfatto li farà balzare alla cronaca, con sequel di interrogatorio del marito da parte di un turpe e viscido poliziotto xenofobo (Michele Guidi), quindi della moglie che accusa l’inettitudine del coniuge per la morte della figlia, sancendo così una crisi matrimoniale già in atto. Il terzo episodio vedrà un raid a sfondo razzista nella periferia di una grande città, fomentato dal poliziotto in borghese e culminante col linciaggio del “ragazzo nero” innocente accusato a tutti i costi.
Con i personaggi che dialogano anche in terza persona descrivendo le azioni e i luoghi, le storie si innescano l’una nell’altra chiudendo con il finale accusatorio di Grock. A luci accese in sala, con la maschera di clown in mano, l’uomo ci parla, ci interpella, ci accusa col suo apologo richiamando alla memoria l’epica di quella terra d’Africa violentata e sfruttata dagli interessi di un Occidente ambiguo – dalla gomma, al rame, all’uranio, al coltan… -, intrecciando la sua storia personale che inizia alla foce di un fiume «…dove mancano ancora novantamila anni all’arrivo dell’uomo bianco», fino a quella di profugo scappato dalla Libia su una barca scalcinata «…che mi ha portato qui, mi sono travestito da clown e ho vagato per le vostre strade e sotto le vostre case e la notte insonne pensavo alla poesia di Birago Diop (poeta senegalese, ndr) che mia madre mi aveva insegnato da bambino: “Ascolta più spesso / le cose che le persone. / La voce del fuoco, dell’acqua, del vento. / Coloro che sono morti non sono mai andati via. / I morti non sono sotto terra: / sono nell’albero che stormisce, / sono nel bosco che geme, / sono nell’acqua che scorre, / sono nell’acqua che dorme, / sono nella capanna, sono nella folla. / I morti non sono morti”».
E lui è lì (Martin Chishimba), col suo canto libero, dicendoci che il finale che aspettavamo non c’è. E noi restiamo senza più parole, raggelati nei nostri pensieri. Cinque attori encomiabili da lodare in blocco, e una messinscena superba, al servizio di un testo, Black Star – quasi una sceneggiatura cinematografica -, che fonde l’intelligenza creativa di due menti, Sinisi e Arcuri in perfetta alchimia; e di quest’ultimo condividiamo il suo auspicio nelle note di regia: «…mi piacerebbe che ci si portasse a casa uno sguardo più ampio e più aperto sull’altro e sulla diversità e ci si ricordasse che noi siamo cittadini fortunati di uno stato ricco bianco e di questa parte del mondo e che questo non è’ il risultato delle nostre capacità o delle nostre scelte ma della fortuna».
Una co-produzione CSS Teatro stabile di innovazione del FVG, Teatro Metastasio di Prato e TPE – Teatro Piemonte Europa.