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L’arte contemporanea nelle Soprintendenze: intervista ad Anna Imponente
Attualità
La tanto criticata Riforma Franceschini del 2015 ha ridimensionato drasticamente il ruolo, un tempo fondamentale, delle Soprintendenze. Tomaso Montanari, in Contro le mostre (Einaudi, 2015), ha analizzato quanto il lavoro dell’allora Ministro per i beni e le attività culturali e per il turismo, Dario Franceschini, abbia essenzialmente agito modificando radicalmente l’assetto di musei e istituzioni culturali. La perdita costante di responsabilità è stata accompagnata da una perdita ancora più sostanziale di credibilità, per cui oggi le Soprintendenze appaiono come apparati burocratici così intricati da diventare farraginosi.
Quando l’arte contemporanea appare nelle Soprintendenze
Anna Imponente, con una lunga carriera in differenti incarichi pubblici, nel testo Quando l’arte contemporanea appare nelle Soprintendenze (ancora inedito) mostra quanto l’esecrato ruolo del Soprintendente sia stato, effettivamente, veicolo di un profondo rinnovo delle strutture museali italiane, portando esperimenti all’interno di istituzioni che necessitavano di un nuovo afflato di ammodernamento.
La conservazione del vasto patrimonio della penisola appare prima istanza per procedere a nuovi tentativi che possano permettere una riconsiderazione sul ruolo del museo e sull’ontologia stessa dell’arte contemporanea. Imponente analizza i casi dell’Abruzzo, del Lazio e della Campania, e se, come si può osservare nelle numerose ibridazioni, ciò che conta è andare «Oltre la moda di colonizzazioni effimere spettacolari», sarebbe forse necessario mettere in discussione un certo modello di produzione scenografica. Costruire dei veri Encounters – come nella storica mostra curata da Richard Morphet e Robert Rosenblum alla National Gallery di Londra nel 2000 – e non dei meeting effimeri.
Bisogna comprendere quale sia la “necessarietà” di questa pratica metodologica e identificarne limiti. Per uscire dal Cuore di tenebra di rimandi superficiali e non efficaci, che possono solo deviare dalla reale comprensione dell’Arte in tutte le sue forme, bisogna concepire nuove vie interpretative. In altri termini, all’artista sta la libertà illimitata di effettuare scorribande oltre i confini del tempo e dello spazio, mentre l’istituzione deve poter comprendere e distinguere l’utile efficace dall’inutile inefficace.
Gli spazi dell’arte: intervista ad Anna Imponente
Come è cambiato oggi il ruolo delle soprintendenze per quanto riguarda l’arte contemporanea? Cosa è andato perso?
«Si è persa questo questa unicità, una totalità della visione dell’arte, ma anche i luoghi da rendere fruibili. Quando ho diretto la Soprintendenza del Lazio che aveva sede a Palazzo Venezia, si viaggiava nei luoghi del territorio: Roma nel Lazio, il Lazio a Roma, per portare il locale nel globale. Far sentire il territorio, far sentire questa ricchezza, come qualcosa che può entrare nella nostra comprensione. Il MAN, il grande Museo Archeologico di Napoli, in realtà è costituito da opere che provengono da Palazzo Reale e da tutto il territorio della Campania. Il mio tentativo, al polo museale della Campania, è stato di far pesare il contributo dato da questi piccoli musei, che sono quelli che hanno bisogno di attenzione. Queste operazioni che sono state fatte in passato hanno convogliato tutto in questi santuari della civilizzazione, vale la pena mantenere la memoria di una cultura, in un certo senso, minore».
Esempi spettacolari si concretizzano in mode effimere. In che modo trova necessario l’incorrere dell’arte contemporanea in queste istituzioni, in un confronto che sia diretto con la nostra cultura?
«Lo trovo naturale, avvicinare queste opere dal punto di vista non solo formale, ma di genius loci. Non c’è straniamento, bensì una convergenza nella differenza. Al Museo Nazionale D’Abruzzo si cercava uno sguardo unico. Pensiamo all’inserimento di Pascali, Spalletti, Cucchi, richiamati per ripensare quel luogo. Questo porsi, dell’artista, come personaggio totale, che riesce a dare una chiave di lettura della realtà fa emergere la necessità di un’unione alchemica: un artista-sciamano, come Giovanni Anselmo.
Ho avuto la fortuna di poterlo invitare a Verso l’Aleph di Napoli. Su un punto che affacciava sul Chiostro Grande della Certosa di San Martino, Anselmo ha inserito un rettangolo con l’oltremare che indicava est. Aveva questa capacità di trasformare la natura, l’indicare il particolare, l’infinito. Era indimenticabile come, nella sua casa francescana a Stromboli, c’era una serpe in un pozzo con cui lui aveva costruito un dialogo: non l’ha cacciata ma ci conviveva, con la razionalità del saggio orientale. È la grandiosità dell’universo, vista da un uomo che, andando in cima allo Stromboli, si era avvicinato un po’ di più alle stelle, e ne sentiva il peso insostenibile. Questo è il dono dell’arte: trasformare e dare un esempio di trasformazione. Siamo in un mondo completamente e pericolosamente virtuale. L’arte può essere uno degli antidoti più indispensabili perché nulla sostituisce la capacità di emozionare».
Se invece il ruolo dell’artista cambia, non è per via di un paradigma artificiale, virtuale, che continuiamo a vivere?
«Ciò che lega naturale e artificiale è il fare esperienza. Io ho una certa passione per il cinema. Un film/documentario, Fire of love, narra di due vulcanologi, assetati di conoscenza diretta di cosa sia questa natura che improvvisamente si manifesta come materia magmatica. Ed è impressionante, come poi questi fenomeni hanno un’influenza anche sull’immaginario artistico. Questa curiosità spinta alle estreme conseguenze o ai pericoli fino all’essere vittime di queste forze della natura si lega molto alla mostra Vesuvio quotidiano, Vesuvio universale. Una dimensione di forte difesa di una realtà che è da tutelare, da proteggere da tutti gli assalti possibili. C’è un film di Wim Wenders, Anselm, che è dedicato ad Anselm Kiefer da cui emerge questo Kunstwollen, questa volontà d’arte come qualcosa che si avvicina ad una dimensione religiosa e spirituale».
Kiefer è il moderno Vulcano, estrae dalla terra, distrugge, ricostruisce, forgia, come descritto da Vincenzo Trione in Prologo Celeste (Einaudi, 2023). Questa pratica così radicata, così cruda, che sviscera la natura, la realtà, è un modo per contrastare un distacco, una atopia della realtà, come se non esistesse più nessun luogo in cui l’artista possa vivere libero?
«Credo che gli artisti si sentano rassicurati se comprendono in quel momento, in quel posto, il momento giusto, il luogo giusto. Nella mostra un altro esperimento è questo meteorite di Bizhan Bassiri che adesso è all’ingresso della Certosa. Bassiri dice che la sua vocazione all’arte gli è venuta proprio in cima al Vesuvio. Un museo è le collezioni che ha, non tanto gli allestimenti, che possono cambiare: l’elenco delle opere donate o acquisite deve essere in progress. Le opere possono transitare, ma la consistenza è ciò che resta, e questo ce lo insegna la storia, i grandi committenti. Quelli che possono sembrare errori apparenti per l’opinione pubblica, a distanza poi si rivelano dei successi, come testimoniano le collezioni della Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Tutto il resto è, come ho concluso, l’ombra del vento».
Quale sarà il ruolo delle Soprintendenze nell’arte contemporanea e dell’arte contemporanea nelle istituzioni? Cosa manca, ora, e dove si andrà a parare?
«Credo nella creatività che può mettere a disposizione un direttore di un museo, la sua personale impronta. Quando Bergmann faceva un film non pensava a quanto quel film potesse costare. Non ci dimentichiamo che ci sono stati proprio artisti che hanno diretto i musei. In Cina, il Museo di Arte Contemporanea di Canton è stato diretto per lungo tempo da un artista. Una questione culturale presuppone una leadership culturale, fa una politica culturale. Non è necessario avere il consenso per poter costruire degli esperimenti, il consenso viene, è una conseguenza. L’arte può occupare spazi altri, dove le opere trovano una luce diversa perché hanno una collocazione atipica che le rende pionieristiche. Quello che è stato fatto a Palazzo Venezia non era esattamente figlio di una progettualità, ma nasceva dalle necessità di quel momento. Si ha l’impressione che tutto quello che sfugge alle maglie della comunicazione non esista. Le cose, invece, esistono».