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Come le aziende collaborano con gli artisti: le praline d’autore di Mara dei Boschi
Arte contemporanea
Dalla ristorazione al clubbing, dal gelato al caffè, Riccardo Ronchi prosegue la sua esperienza imprenditoriale, fortunata e visionaria, sempre fianco a fianco dell’arte in tutte le sue forme. Le sue imprese non avrebbero lo stesso sapore senza la presenza dell’arte che per lui è condizione necessaria di sperimentazione e continua scoperta.
Riccardo, cominciamo da te. Provieni da un percorso professionale e di vita sfaccettato, dove l’arte è sempre stata un elemento costante.
«Ho fatto diverse cose ma l’arte è sempre stata il trait d’union. Sono figlio e nipote di galleriste, mia mamma aveva una galleria a Santa Margherita Ligure e mia nonna a Barcellona. L’arte l’ho appresa per osmosi. Nel 1997 a Torino con Luca Conzato, ho aperto la galleria Maze e parallelamente una brasserie in stile francese che si chiamava Société Lutèce. Un doppio lavoro, due binari che ho sempre percorso: arte e cibo. Dopo Société, che era un ristorante, un club, una casa dove ricevere amici, si sono susseguiti diversi progetti di contaminazione come la Drogheria e l’Esperia, sempre a Torino, Freni e frizioni a Roma. Questi non erano solo locali, ma rappresentavano un modo di stare e di ritrovarsi. Qui l’arte non era un oggetto ma una componente attiva e catalizzante che ci portavamo dai nostri percorsi di vita».
Vista la centralità dell’arte nel tuo percorso perché hai deciso di porre fine all’esperienza della galleria?
«Dopo dieci anni di attività, io e Luca abbiamo deciso di chiudere la galleria sostanzialmente per due motivi. Primo perché i progetti erano diventati tanti e impegnativi. Secondo perché non avevamo intenzione di entrare nel circuito più establish dell’arte. Eravamo giunti all’apice delle nostre capacità e del nostro successo. Per crescere ancora avremmo dovuto sottostare a una serie di leggi. A noi è sempre piaciuto essere fuori dal coro. Malgrado questa chiusura ho continuato nel campo dell’arte con il progetto no profit Art At Work, sempre con Luca, e con Ilaria Bonacossa, Paola Clerico e Ilaria Gianni. E, nel medesimo periodo, ho seguito il Lira Hotel, un albergo nel cuore di Torino le cui camere erano progettate da artisti come Jonathan Monk, ideatore del progetto con Sonia Rosso».
Da questo background come sei passato al gelato e all’apertura di Mara dei Boschi?
«Mara dei Boschi nasce nel 2012 senza particolari velleità se non quella di rendere omaggio all’altra mia nonna che aveva un piccolo albergo a Rapallo. Lei, siciliana d’origine, cucinava in continuazione e confezionava dei gelati che ad oggi sono ricordi indelebili nella mia memoria. Decisi di ripercorrere quei ricordi e di dargli nuovamente forma. Esempio su tutti è il gusto pistacchio, per me è una religione, per il quale ho impiegato anni per avvicinarmi a quell’epifania».
E dal gelato come sei arrivato al cioccolato e alle praline d’artista?
«Dopo la nascita di Mara dei Boschi gelato, ho deciso di lavorare in altre due direzioni che secondo me hanno temperature diverse ma condividono aromaticità molto simili: il caffè, e il cioccolato. Quest’ultimo laboratorio è nato nel 2019 nei nostri spazi in Piazza Carlo Emanuele II a Torino».
Scelta audace quella del cioccolato che, come sai, a Torino è cosa molto seria.
«In un contesto di grandi maestri del cioccolato abbiamo deciso di differenziarci con un’offerta d’eccellenza. Lavoriamo seriamente sulle materie prime e soprattutto con le capacità creative e immaginifiche dell’arte. Con gli artisti infatti condividiamo il processo di creazione della nostra proposta di cioccolatini, partendo da un concetto e arrivando poi ad un gusto e infine a una forma».
Con quali artisti avete collaborato in questi anni e con quale esiti?
«Il primo lavoro è stato Untitled (My Gold is Yours) con Piero Golia. Abbiamo scelto l’opera presentata alla Biennale di Venezia nel 2013: un cubo di cemento e oro che poteva essere “saccheggiato” dai fruitori della manifestazione. Ci siamo trovati subito di fronte ad una sfida: come realizzi il gusto cemento o il gusto oro?! Ci abbiamo impiegato mesi, siamo andati nella sua cultura partenopea a ricercare il gusto del caffè, della mandorla, e abbiamo utilizzato l’oro alimentare. Alla fine abbiamo creato una pralina unica che non trovi da nessun’altra parte».
Dopo Pietro Golia ci sono stati altri progetti?
«Abbiamo proseguito con l’artista candese Dana Wyse. L’ho conosciuta perché vendeva ad Art Basel, a Basilea, delle confezioni di “pillole” che in modo miracoloso promettevano cura per ogni cosa. Insieme abbiamo scelto otto “cure” da tradurre in praline. Tra queste la pralina grigia per capire le cose, composta da due nocciole immerse nel gianduia che come due neuroni che si toccano e creano una sinapsi, oppure quella rosa per capire l’arte contemporanea, composta da caramello alla soia e sesamo, sorprendente e spiazzante come dovrebbe essere l’arte. Poi, con Henrik Plenge Jakobsen, siamo partiti da una sua mostra intitolata Das Kapital. All’interno della mostra era esposta una macchina volkswagen e una serie di sette pannelli coloratissimi che riportavano la citazione dal Manifesto comunista “All that is solid melts into air”. Questa frase, che mi piace da pazzi, mi fa pensare al cioccolato. Così come i sette pannelli della mostra, abbiamo realizzato una scatola composta da tavolette di cioccolato riprendendo i medesimi colori».
Ci puoi fare altri esempi?
«Durante la pandemia di covid19 ci siamo dedicati al progetto Resist Sister con Nico Vascellari realizzando delle praline al pistacchio, dato che la pianta del pistacchio è simbolo di resistenza e di adattamento. Infine, con Alfredo Aceto abbiamo realizzato un’ironica targa di benvenuto, come quelle che si trovano all’ingresso delle case svizzere, ovviamente in cioccolato, per tutti coloro che desiderano entrare nel mondo dell’arte. Ora stiamo lavorando a due progetti su cui non voglio fare spoiler: uno con Ryan Gander e l’altro con Alessandro Sciaraffa. Mi stanno dando molti stimoli e mi sto divertendo tantissimo».
Da queste collaborazioni e in generale dal rapporto con l’arte nei tuoi progetti, mi sembra di capire che il confronto con gli artisti ti permetta di esplorare vie inedite e raggiungere risultati inaspettati.
«Sì, l’arte per me è una condizione necessaria nella realizzazione di questi progetti. Non è un mero mezzo di promozione o una trovata commerciale. Inoltre è anche un impegno, una responsabilità. Con le nostre operazioni sosteniamo gli artisti. Durante l’ultima edizione di Artissima ad esempio, presso il nostro laboratorio, tra i macchinari e l’aroma di cioccolato, abbiamo ospitato una nuova tappa del progetto Case chiuse di Paola Clerico con la mostra personale della pittrice Sofia Silva».
Qual è il punto di contatto tra l’ambito del food e la ricerca artistica?
«Credo fortemente che un gusto debba essere collegato ad un concetto, perché altrimenti non funzionerebbe altrettanto bene. Malgrado la percezione del gusto sia qualcosa di primario, l’aderenza ad un concetto permette di arricchirlo e di diventare comprensibile e complesso allo stesso tempo. Allo stesso modo nell’arte, non basta la tecnica per realizzare un’opera che garantisca un’esperienza estetica e poetica significativa».
Perché gli artisti decidono di collaborare a questi progetti?
«Prima di tutto per una questione di fiducia. I nostri sforzi, la passione e la tenacia da quando siamo stati galleristi ad oggi ci sono stati riconosciuti. Ci siamo guadagnati il rispetto del sistema dell’arte e degli artisti, per questo hanno piacere a collaborare con noi.
Inoltre ad oggi le dimensioni del nostro business, che è sostanzialmente artigianale, ci permette di relazionarci con una certa genuinità. Poi, se domani dovesse diventare un progetto world wide capiremo come costruire rapporti di fiducia che ci permettano di avere collaborazioni della medesima qualità».
C’è una sorta di gratuità e un piacere nel collaborare assieme, giusto?
«Sì, anche perché praticando da outsider non dobbiamo scendere a compromessi. Non abbiamo l’obbligo di fare per fare. Ci prendiamo il tempo che serve, senza scadenze.
Lavorare così è anche un piacere per gli artisti che, a differenza di una mostra in galleria ad esempio, si sentono liberi di esprimersi senza sovrastrutture, in un campo più neutro ma altrettanto di sperimentazione».