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Se c’è un classico nella storia universale della danza che più di ogni altro rappresenta un banco di prova cruciale per coreografi e coreografe di ogni generazione, questo è il capolavoro stravinskiano Le Sacre du Printemps messo in danza da Vaslav Nijinsky nel 1913. Tanto contestato al suo primo apparire al Théâtre des Champs-Elysées di Parigi, quanto riabilitato, riscritto, risemantizzato nel corso di tutto il Novecento e oltre, con le sue infinite e più ardite versioni.
Troppi riferimenti alti accompagnano l’immaginario a essa legata, a partire dalle intramontabili versioni – per chi ha avuto la fortuna di vederli in scena – di Maurice Bejart, e quella, potentissima, di Pina Bausch, capisaldi della storia della danza del Novecento. Due versioni rivoluzionarie, come lo furono al debutto la musica di Igor Stravinskj e la coreografia di Nijinsky per i Ballets Russes. L’incredibile freschezza e potenza espressiva della musica che ancora oggi suscita all’ascolto, spiega quel continuo stimolo creativo, da cento anni, a tradurla in partitura coreografica, pur vincolata, perlopiù, dal tema originario che ha come fulcro un propiziatorio e primitivo rituale primaverile in cui viene scelta una giovane ragazza come vittima sacrificale destinata poi a ballare fino alla morte. Lunghissimo è l’elenco di coreografi, illustri o meno, che si sono cimentati, ciascuno col proprio stile, in una personale interpretazione. Ed è inevitabile, per chi si avventura, che affiorino pur inconsapevoli riferimenti e citazioni. Benvenga comunque chi prova ad aggiungere una nuova lettura.
Ecco ora la versione di Roberta Ferrara – coreografa e direttrice artistica della compagnia barese Equilibrio Dinamico – dal titolo La Sagra della Primavera. Il rituale del ritorno, ridisegnata sui corpi dei danzatori di Eko Dance Project, Centro torinese diretto da Pompea Santoro qui nel ruolo di dramaturg (debutto al Teatro Astra di Torino per Palcoscenico Danza 2024). Quel sottotitolo indica una visione che sottende un diverso finale, una danza di vita che vuole vincere sulla morte: concept interessante che unisce un tempo cronologico simboleggiato da un orologio in scena, e uno psicologico nel voler ritardare la corsa del destino.
A segnare la coreografia è il consumarsi del rito primordiale verso una liberazione. Velocità e destrezze muovono tutto l’ensemble dei bravi, giovanissimi, danzatori di Eko. Uno di loro, sperduto, arriva dalla platea seguendo un fascio di luce. Appoggerà la testa e l’orecchio ad ascoltare la terra, alzando poi le gambe come a piantarsi su quella zolla sconosciuta. Si aggiungeranno altri usciti da più lati, anch’essi pervasi da un senso di smarrimento, popolando la scena che risuona di suoni cupi, metallici, minacciosi, di sonorità elettroniche (autore Benedetto Boccuzzi, il quale ha intestato la sua composizione Electronic Augmentations to Stravinsky’s Rite of Spring) che si aggiungono alla partitura stravinskiana. Questa verrà interrotta in più momenti dilatando il tempo per ritardare il sacrificio finale già presagito, e riprendere, dopo attimi di sbigottimento, il ritmo selvaggio.
Un timer impazzito posto in alto scandisce i minuti della musica originale che recupera la sua corsa dopo aver lasciato attimi di sospensione agli interpreti, al loro pensiero interiore, al loro scomporsi e ricomporsi in comunità sempre più consapevole e solidale. Sparsi in assoli irrequieti, abbracciati in file di spalle o frontali, con stacchi e reunion, alternando saltelli e passi claudicanti, pose a terra, carponi e trascinamenti, i danzatori ripetono sequenze – qua e là la sensazione di movimenti déjà vu –, con le braccia in avanti, unite come in preghiera, e in alto; corrono e indietreggiano verso chi, poi riassorbito, si stacca osservato dal gruppo; formano cerchi, attimi di roteazioni da dervisci e cenni di trance in odore di tarantismo; alzano una donna nella corsa, sollevano altri, ingaggiano brevi lotte, fino a ritrovarsi intrecciati tenendosi per mano e andare insieme verso il fondo, illuminato prima dal pulsare di fari puntati in controluce, poi da una luce azzurra.
Nessuna vittima da sacrificare in questa Sagra, dove l’immolazione diventa scelta condivisa di ideali, e la morte – sintetizza Roberta Ferrara – «Un metaforico volo verso un oltre celato, onirico». Lo spettacolo è atteso il 21 giugno ad Armonie d’Arte Festival, nel suggestivo Parco archeologico di Scolacium (Cz), e il 26 al Dap Festival di Pietrasanta.