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La casa dov’è: intervista a Marta Czok, a margine della sua mostra a Venezia
Arte contemporanea
di redazione
In risposta alla tematica proposta dal curatore Adriano Pedrosa per la 60ma Biennale d’Arte di Venezia, Foreigners Everywhere, la Fondazione Marta Czok presenta EX_PATRIA, a cura di Jacek Ludwig Scarso, con il patrocinio dell’Ambasciata di Polonia a Roma: una collezione di opere recenti e storiche di Marta Czok, dagli anni Ottanta ai giorni odierni, che riflettono sulla costruzione del concetto di patria e sulle ideologie che rendono tale concetto ambiguo.
Il lavoro di Marta Czok si sviluppa di pari passo con la sua identità “senza patria”. Nata in Libano nel 1947, proviene da una famiglia di rifugiati politici polacchi: la famiglia di sua madre, all’inizio della guerra, risiede nella città di Ostrog, ora parte dell’attuale Ucraina, e viene deportata in Siberia, prima di riunirsi all’esercito polacco e agli Alleati. Negli orrori della Seconda Guerra Mondiale, i suoi familiari vengono sottoposti a campi di prigionia e lavori forzati, vivendo il massacro di Katyn. Durante la Guerra e alla fine, la sua famiglia si trova in Medio Oriente: in Iran, in Libano, in Palestina, poi di ritorno in Libano, prima di arrivare in Egitto. Il loro sperato ritorno in Polonia però non è possibile e trovano asilo politico a Londra, dove ricominciano da zero e dove cresce Marta Czok, per poi trasferirsi in Italia negli anni Settanta.
Della sua vita e della sua ricerca artistica, confluita in questa ultima mostra, ne parliamo con la stessa Marta Czok.
Ci racconta la sua esperienza come figlia di rifugiati politici?
«Le persone che non sono state rifugiate non hanno assolutamente idea di cosa significhi essere un “ospite” spesso indesiderato nel Paese di qualcun altro. Per quanto si possa essere “naturalizzati”, con documenti che lo dimostrino, arriverà un momento, anzi molti, in cui al rifugiato verrà chiesto, in modo accusatorio, “perché sei qui?”. Per evitare questo, i miei genitori, al nostro arrivo a Londra, decisero di non parlarci mai in inglese, in modo che io e mia sorella non copiassimo il loro accento straniero. Parlavamo in polacco a casa e in inglese a scuola. Ora mi rendo conto che questo era il loro modo per proteggerci dall’essere “scoperti”. Detto questo, ho cercato spesso di evitare di dare il mio cognome (quella preoccupante prova di non appartenenza) ad ogni evenienza. Essere un rifugiato, è evidente, colpisce molto duramente».
In che modo il suo passato di rifugiata ha influenzato il suo lavoro?
«La generazione dei miei genitori non è stata la prima a cercare rifugio. In realtà sono stati i miei nonni da parte di mia madre che hanno dovuto lasciare la loro casa in Ucraina a causa della Rivoluzione Russa del 1917. Lo fecero nel 1920, quando la direzione che stavano prendendo gli eventi divenne sempre più evidente e dopo una “visita” alla loro proprietà da parte dei bolscevichi. Nel giro di 20 anni furono deportati dagli stessi bolscevichi in Siberia, su carri di bestiame chiusi a chiave. Quando nel 1942 gli fu concesso di unirsi all’esercito polacco per combattere i nazisti, furano evacuati in Medio Oriente, per poi prendere parte nella campagna d’Italia e ritornare in Medio Oriente dove i familiari erano rimasti, trovando infine asilo politico in Inghilterra nel 1948. Con una storia familiare del genere (e senza dubbio c’erano/ci sono/ci saranno peggiori) l’interesse per l’esperienza dei rifugiati era automatico. Il giocherellare con il futuro delle persone da parte di politici di cui ci fidavamo e ammiravamo è sbalorditivo. Anni fa mi venne in mente un’idea potente: nessuno di noi sa se, quando o come sarà un giorno trascinato a forza in un altro posto. Chiunque di noi potrebbe in futuro essere un rifugiato e le probabilità sono sempre stranamente alte; ma almeno ho l’opportunità di dire quello che penso davvero attraverso la pittura».
Perché la guerra è un tema così ricorrente nei suoi dipinti?
«La guerra, che, essendo nata nel 1947, non ho vissuto personalmente, ha però condizionato ogni giorno della mia vita. Sono addirittura nata apolide. Il Libano, dove ho visto la luce per la prima volta, non rilasciava certificati di nascita a coloro che vi transitavano come rifugiati temporanei, nonostante tutta la generosità dei Libanesi, per la quale sono davvero grata. A causa della guerra, la mia stessa “patria”, la Polonia, fu assegnata all’Unione Sovietica, i suoi confini ulteriormente spostati. Concetti del 19° secolo in cui la vita del piccolo popolo era di scarso valore, continuarono ad essere messi in pratica nel 20° secolo, e, sicuramente, lo sono ancora adesso. La mitologia della patria continua a essere promossa per giustificare gli orrori dei conflitti bellici: ma non esiste gloria in nessuna guerra, quindi la dipingo per quello che veramente è».
L’idea di casa è anch’essa un leitmotiv nei suoi dipinti. Perché questa immagine è così prevalente nel suo lavoro?
«La casa è, o dovrebbe essere, il luogo in cui possiamo chiudere la porta e sentirci al sicuro. I quadri dove la ritraggo sono spesso volutamente appesi accanto a quelli più politicamente critici: spero sempre che questo ispiri chi è al potere che quello che fanno riguarda tutti noi, nell’intimità della nostra vita domestica. Speriamo che un giorno se ne accorgano. In questa fase della mia vita, mi sento a casa e al sicuro in Italia. Mi piace qui. A dire il vero amo anche l’Inghilterra e la Polonia, ma qui a volte provo sollievo nel fatto che mio marito e i miei figli sono italiani. Forse è un’esagerazione, ma la loro “appartenenza” qui mi dà la sicurezza di pensare che ne faccio parte anch’io».