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Gli Arcangeli di Berlinde de Bruyckere arrivano a Venezia
Mostre
di Zaira Carrer
L’abbazia di San Giorgio Maggiore, capolavoro d’ingegno palladiano, possiede già di per sé, indiscutibilmente, un qualcosa di mistico. Si trasforma ora, per tutta la durata della Biennale d’Arte, in un vero e proprio luogo incantato, ma incantato, in questo caso, come una di quelle foreste contorte, stregate, dove i tronchi sembrano richiudersi intorno al visitatore disattento. Negli spazi benedettini ha infatti preso dimora il progetto espositivo City of Refugee III, personale dell’artista belga Berlinde de Bruyckere (Gand, 1964), curata da Carmelo A. Grasso, Ory Dessau e Peter Buggenhout e realizzata in collaborazione con la Benedicti Claustra Onlus. Come suggerito dal titolo, la mostra è la terza di una serie di esposizioni che tematizzano l’arte come santuario e rifugio, significato che si fa ancor più calzante nel contesto stesso dell’abbazia: basti pensare, infatti, al ruolo di riparo che le chiese hanno svolto, nel corso dei secoli, per i più bisognosi.
Il percorso si articola su una serie di tre spazi, primo dei quali è proprio la basilica palladiana, la quale apre le proprie porte a tre inquietanti arcangeli velati: messaggeri divini, in punta di piedi tra il cielo e la terra, collocati nella navata centrale, in quelle laterali e nel transetto della chiesa. La De Bruyckere lavora per la prima volta con la figura dell’arcangelo durante la pandemia di COVID-19 e decide di sviluppare quest’immagine come un qualcosa che possa infondere conforto in un momento tragico, ispirandosi in particolar modo al cinquecentesco Cristo morto sorretto da un angelo, precedentemente attribuito al Giorgione. Allo stesso tempo, però, gli arcangeli, con le loro gambe anemiche, ricoperte di cera sottile, e i volti nascosti da pesanti panni, non possono che riportarci a temi quali la morte e la fugacità della vita, ma anche ad immagini di prigionieri politici torturati e condannati. D’altronde, per l’artista, la morte è un qualcosa che troppo spesso ignoriamo, nascondiamo e che fatichiamo anche solo a nominare. Ma la morte, con tutta la sua forza annientatrice, è parte integrante di questo spazio: la De Bruyckere vuole ricordarci quali sono le forze che, costantemente, guidano e governano i nostri movimenti sulla terra.
«Il mio obiettivo qui – spiega infatti – è quello di far sì che non si guardi alle mie sculture come a qualcosa di bello. Voglio toccare le persone laddove hanno paura di essere toccate. Affrontare quello che non riescono a descrivere a parole». Il percorso espositivo continua poi nella Sacrestia, con un’imponente installazione site-specific realizzata con metalli, tronchi d’alberi e cera, simili a enormi creature dissezionate con cura su tavoli anatomici. E poi ancora: un libro corale contemporaneo nel Coro Maggiore, decorato con preziosi fili d’oro. Lungo le tre sale della galleria, è disposto poi tutto un insieme di opere recenti della De Bruyckere, come la delicata serie di collage It almost seemed a lily e le vetrine murali contenenti un legno nodoso, lavorato, che prende forme organiche e ci parla di ferite, martirio e della sublimazione della sofferenza umana.
I polmoni si riempiono poi dell’inconfondibile odore di cera nella sala dedicata all’installazione Anderlecht, del 2018, opera nata dalle visite dell’artista ad un venditore di pelle nell’omonimo quartiere di Bruxelles. Qui, tutti i temi esplorati in mostra si ritrovano nelle grandi sculture a pavimento: la dimensione tattile, il sacrificio quale veicolo di morte e di salvezza, il conforto. Sono tutte quelle emozioni profonde, impalpabili, che si trasformano, qui, in qualcosa di estremamente palpabile: sembrano quasi, addirittura, chiedere di essere toccate, riconosciute in tutta la loro innegabile presenza. Spiega l’artista a proposito dell’esperienza del mattatoio che ha ispirato questi lavori: «In nessun altro luogo ho sperimentato la morte e la vita così da vicino come qui, Eros e Thanatos».