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Other Identity #113. Altre forme di identità culturali e pubbliche: Edoardo Pasero
Fotografia
Tratta dall’omonima rassegna ideata dall’artista e curatore indipendente Francesco Arena, la rubrica “OTHER IDENTITY – Altre forme di identità culturali e pubbliche” vuole essere una cartina al tornasole capace di misurare lo stato di una nuova e più attuale grammatica visiva, presentando il lavoro di autori e artisti che operano con i linguaggi della fotografia, del video e della performance, per indagare i temi dell’identità e dell’autorappresentazione. Questa settimana intervistiamo Edoardo Pasero.
Other Identity: Edoardo Pasero
Il nostro privato è pubblico e la rappresentazione di noi stessi si modifica e si spettacolarizza continuamente in ogni nostro agire. Qual è la tua rappresentazione di arte?
«Per quanto i social siano sicuramente entrati prepotentemente nelle nostre vite penso che dovremmo ridimensionarli a quello che sono, degli amplificatori. Generalmente consiglierei a tutti di abbassare il volume e di concentrarsi maggiormente sul privato. L’arte per interessarmi deve avere almeno in parte qualcosa che la renda universale e fuori dal tempo per cui anche fuori dal dualismo dentro/fuori».
Creiamo delle vere e proprie identità di genere che ognuno di noi sceglie in corrispondenza delle caratteristiche che vuole evidenziare, così forniamo tracce. Qual è la tua “identità” nell’arte contemporanea?
«Sono banalmente uno interessato alla fotografia e che in qualche modo ne ha fatto una carriera. Se proprio vogliamo parlare di “identità” ho da non molto cominciato un lavoro più strutturato ma con una falsa identità che quasi nessuno sa essere legata a me. Il lavoro che faccio in questo caso è molto legato alla scomparsa del futuro e del tempo in generale».
Quanto conta per te l’importanza dell’apparenza sociale e pubblica?
«Molto poco».
Il richiamo, il plagio, la riedizione, il ready made dell’iconografia di un’identità legata al passato, al presente e al contemporaneo sono messi costantemente in discussione in una ricerca affannosa di una nuova identificazione del sé, di un nuovo valore di rappresentazione. Qual è il tuo valore di rappresentazione oggi?
«Banale ormai parlarne perché mi pare sia un concetto un po’ trito ma in quanto tale forse oggi ancora più vero. Fukuyama dettò la fine della storia nel 1992 ed è esattamente dove mi sento, in un mondo dove neanche più l’evoluzione tecnologica è sbalorditiva perché già tutto immaginato anni prima, un mondo di realizzatori ma non di inventori, un mondo che da l’impressione di essere senza futuro perché è in stallo o forse semplicemente privato del velo di Maya che lo ricopriva. Capitalismo, produzione/consumo e storia si sono fusi in un unico apparato digerente che va ormai in loop».
ll nostro “agire” pubblico, anche con un’opera d’arte, travolge il nostro quotidiano, la nostra vita intima, i nostri sentimenti o, meglio, la riproduzione di tutto ciò che siamo e proviamo ad apparire nei confronti del mondo. Tu ti definisci un’artista agli occhi del mondo?
«Assolutamente no e anche se fosse non ne avrei le credenziali».
Quale “identità culturale e pubblica” avresti voluto essere oltre a quella che ti appartiene?
«Dopo anni di domande e di risposte incomplete sono giunto a questa conclusione, in qualche modo ho scelto di vivere nella società, questo vuol dire che ho scelto il dubbio e il dilemma perché penso che vivere nella società, soprattutto oggi, cercando di essere liberi pensatori, sia una posizione molto scomoda, di equilibrio nello squilibrio se possibile. Mi ci sono fatto portare dagli eventi ma se avesse prevalso la parte più concreta ed estrema di me penso che le “identità” che mi hanno sempre affascinato siano quelle del monaco, del soldato o di qualcuno interamente dedicato agli altri, identità dove forma e funzione in un certo senso trovano una perfetta corrispondenza».
Biografia
Nasce ad Alessandria nel 1978. Studia filosofia alla Statale di Milano e si dedica subito dopo al mondo dell’immagine. Attualmente vive e lavora a Milano.