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Un dialogo con l’artista Giovanni Termini, che “come lo metti sta”
Personaggi
di Marina Dacci
Come sempre il rapporto di Giovanni Termini con gli spazi storici non delude. Il palazzo gentilizio Tiranni Castracane a Cagli di origine cinquecentesca è uno spazio difficile: porta all’interno i segni di stratificazioni e slabbrature congiuntamente a sovrabbondanti stucchi, decorazioni e bassorilievi che rendono ancor più complessa la convivenza con una mostra.
Giovanni vorrei partire con un argomento che caratterizza il tuo rapporto con lo spazio che è uno degli elementi centrali del tuo lavoro. In questa nuova mostra c’è una sfida interessante determinata dalla forte presenza dell’edificio così potente: il titolo è anche un può provocatorio: “Come la metti sta”… mi dici cosa intendi con questo titolo riferito a una tua opera ma anche e soprattutto alla mostra in sè?
«Mai come in questo caso, nel mio percorso di ricerca, lo spazio mi ha chiesto di essere ascoltato con così tanta insistenza. Un luogo con cui ho desiderato confrontarmi da tempo, dal 2001 quando ebbi la fortuna di visitarlo in un uno dei miei tanti passaggi a Cagli. Da anni dentro di me ho sentito il desiderio di esporre il mio lavoro in questa cittadina dell’entroterra marchigiano, soprattutto dalla scomparsa, di Eliseo Mattiacci, luogo dove è nato. La mostra è dedicata proprio a lui in occasione della nomina di Pesaro e di tutta la sua provincia, a capitale della cultura italiana 2024. Il luogo ha suscitato in me da subito un certo interesse perché il palazzo, originariamente, di una delle famiglie più nobili di Cagli, i Tiranni, con la loro magnifica cappella, poco distante, nella chiesa di San Domenico dipinta da Giovanni Santi (l’Annunciazione), dal 1500 ai giorni nostri ha subito numerosi interventi. Per me è stato come sfogliare e consultare le pagine di un libro nelle pareti e nello spazio: tracce stratificate di un tempo trascorso. Quindi uno spazio sincero, non artefatto, quasi un luogo di cantiere in continuo divenire. Il titolo ironico della mostra, come ben dicevi, ha un tono volutamente provocatorio: la vita non sempre è Come la metti sta e neanche le opere in uno spazio. Spesso sono loro che ti chiedono dove vogliono essere posizionate e dove vogliono andare, basta sapere ascoltare».
Sembra un paradosso ma portare opere di derivazione “industriale ” – che consistono in assemblaggi e ricomposizioni di materiali che vanno oltre la loro funzione originaria – in uno spazio antico nelle tue mostre non crea mai conflitto. L’opera in alcuni casi si adagia in altri casi sovverte… Mi sembra di capire che le tue opere, anche se non sono realizzate appositamente per un luogo, hanno una caratteristica interessantissima: sono come elastici che creano tensione, costringono a rivalutare vuoti e pieni e sovvertire il modo di guardare l’architettura e di guardarsi in uno spazio: un esempio chiaro è l’opera La misura di una distanza. E’ sempre così per te?
«Beh si, lo spazio, ma soprattutto i luoghi, quindi comunque spazi segnati dalla storia, dal tempo, nella mia ricerca, diventano la metafora della nostra vita con cui i miei lavori sono destinati a confrontarsi. Palazzo Tiranni, per quanto nel passato un nobile palazzo, attraverso le proprie cicatrici mostra tutte le sue ferite e sono proprio questi i luoghi che mi interessano e con cui mi piace relazionarmi. Non amo gli spazi ideati e progettati per le mostre perché il mio fare, i miei lavori si nutrono del tempo e quindi della storia che può trapelare in ognuno di essi. Spero che questo luogo non subisca mai un lifting e che quindi non diventi mai la parodia di se stesso. Scrive Marcello Smarrelli, il curatore della mostra … “l’intero palazzo sottratto al flusso del tempo, in virtù di uno scarto concettuale, è diventato un ready-made, assunto dall’artista a opera d’arte autografa”».
Sei d’accordo se definisco le tue installazioni formalmente scomposte ma disciplinanti per lo sguardo spingendolo verso nuove possibili visioni?
«Si dici benissimo, come nella vita sono i piccoli tasselli, come mattoni, che costruiscono la nostra esistenza; credo in quello che sosteneva Kurt Schwitters con Merzbau sulla costruzione di un’opera totale, fatta di episodi e quindi di elementi che si incastrano e si relazionano tra di loro. All’inizio le mie sculture erano scomponibili adesso mi rendo conto che sono gli stessi materiali che adopero ad essere predisposti all’incastro o all’assemblaggio. Credo nell’ intrusione, in tutti quegli oggetti che inaspettatamente mi chiedono di essere partecipi. Anni fa per la quadriennale diedi come titolo ad un mio lavoro Divaga ma non troppo perché sentivo il bisogno di essere continuamente sorpreso dal mio fare e quindi di lasciare piena autonomia al processo di agire e anche di poter divagare».
Avevo definito l’opera Intervallo (che hai realizzato appositamente a Reggio Emilia due anni fa per Orizzonti del corpo) una costante cantierizzazione del nostro mondo, un’avventura senza fine in cui è richiesto di districarsi nel labirinto in cui siamo soggetti agenti in cui gli oggetti che spesso sono un ostacolo vengono ripensati e ri-costruiti. Una cosa che vedo sempre nel tuo lavoro è l’elemento dell’instabilità, della ricerca perenne di equilibrio che fluidifica il lavoro ma fluidifica anche la staticità della struttura architettonica. Cosa significa per te instabilità e ricerca di equilibrio nel tuo lavoro?
«Quello che mi interessa e riuscire a tradurre e a dare forma a quel equilibrio instabile, quasi impossibile, che si crea tra l’uomo, con il proprio essere, e tutto quello che lo circonda. In Intervallo l’installazione cercava di occupare lo spazio totalmente, ed il pubblico era quasi invitato a praticarne una parte e quindi, quegli intervalli di spazio e di tempo erano creati dalla sospensione degli elementi che componevano l’opera. In questo caso desideravo sottolineare l’attesa; non dimentichiamoci che avevamo da poco vissuto quello che non si pensasse potesse mai accadere: il lockdown, quindi l’essere privati di una vita “libera” mettendo anche fortemente in discussione molte di quelle cose che l’uomo dava sempre per scontate».
Parlami del valore simbolico dell’acqua che ho visto in un paio di tue installazioni… non è la prima volta che la usi nel tuo lavoro, così come l’inserimento di un elemento vegetale nell’opera Circoscritta…
«L’acqua e il cipresso in Circoscritta, rappresentano la natura. Sono gli elementi necessari all’’uomo per la sua sopravvivenza. Quello che però mi interessa è come l’uomo si relaziona con tutto ciò, in alcuni casi, il suo essere inappropriato. In Circoscritta fu Gilles Clement ad ispirarmi. Il susseguirsi di cipressi, spesso forzatamente in riga, si accompagnano alle strade ai viali e nel paesaggio spesso indicano un percorso; l’acqua imbottigliata nella plastica è una presenza costante che mi affianca in studio durante il mio lavoro. È quell’oggetto sempre presente, che però il nostro sguardo tende a perdere di vista».
Ho ritrovato anche qui l’opera Dialogo costruttivo del 2017 (l’avevo già vista in mostra a Palazzo Fabroni nel 2021) : c’è un chiaro riferimento a Eliseo Mattiacci. Che ruolo ha avuto nella tua formazione e cosa ti ha ispirato maggiormente nella sua ricerca artistica?
«Ho conosciuto Eliseo Mattiacci nel Montefeltro (per la precisione a Pietrarubbia) dove lui teneva un corso, il TAM, come direttore artistico, ed io in quegli anni era stato suo studente. Diventammo subito amici ed alcune volte ebbi il piacere di aiutarlo nel suo lavoro. A quel punto ho scelto di fermarmi e vivere a Pesaro perché in quegli anni si percepiva un forte fermento culturale e molti artisti erano già sul territorio: ad esempio Paolo Icaro, anche lui un suo carissimo amico. Di Eliseo ho sempre ammirato la sua energia, quella sana ma concreta leggerezza nell’essere scultore. Credo che osservare lui mi abbia aiutato a capire come leggere lo spazio. Non amava ripetersi, amava la sfida, ed era una persona con una grande umanità».
Considerato il tuo rapporto particolarmente intenso con i luoghi in cui installi, nel tuo processo di ideazione e realizzazione di un’opera (quando non è una commissione site specific) visualizzi già un modo e uno spazio ideali in cui proporla?
«Diciamo che i viaggi che spesso intraprendo nel site specific spesso mi aiutano anche a risolvere alcune cose nel mio studio. Comunque lo spazio dello studio è sempre uno spazio, quindi una dimensione esistenziale. Certo faccio di tutto per non rendere la mia pratica ripetitiva: una volta ho dichiarato che al mattino quando apro la porta, il desiderio è sempre quello di non ritrovarlo mai come l’ho lasciato. Non sono interessato ad uno spazio equilibrato, non seguo un progetto preciso: voglio pormi di fronte a uno spazio instabile che può apparire inquietante e confortevole allo stesso tempo».
E inoltre nel processo di lavoro parti da bozzetti / disegni o ti confronti direttamente con la materia nel farsi dell’opera muovendo energia?
«Ogni volta è diverso, tutto parte da delle suggestioni. Senza dubbio come dicevi prima sono i luoghi sia fisici che mentali da cui parto e prendo ispirazione, ma mi piace anche pensare che il mio studio possa essere la mia auto. Spesso tutto si risolve in un viaggio».