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Più che oro: al Museo Rietberg di Zurigo 400 opere raccontano la Colombia indigena
Mostre
L’archeologia e le mostre sui reperti archeologici consistono il più delle volte in spettacolari ammassi di oggetti sepolti, legati al passato e dal grande fascino poiché appartenenti ad una specifica epoca storica. L’esposizione del Museo Rietberg parte da un presupposto diametralmente opposto che ci pone dinnanzi ad un nuovo accesso curatoriale. La curatrice Fernanda Ugalde, assieme al team del museo svizzero, è partita dalla ricerca di Julia Burtenshaw e Diana Magaloni del LACMA di Los Angeles in merito agli oggetti e alle tradizioni della comunità indigena degli Arhuaco in Colombia – che ha preso attivamente parte all’organizzazione dell’esposizione concepita anche grazie al Museum of Fine Arts di Houston. I contenuti dello studio sono stati ampliati grazie al contributo del team di archeologi del Museo de Oro di Bogotà, grazie ai quali sono stati coinvolti diversi partner della comunità stessa ed esponenti dell’arte colombiana.
Il saper fare di una comunità secolare è posto al centro dell’esposizione zurighese già dalla prima sala, con una grande proiezione che mostra un gruppo di Arhuacos intenti a svolgere le attività più importanti della comunità colombiana: pensare e agire. Il gruppo, spiega la curatrice, è solito radunarsi su delle panchine di legno per poi passare diversi minuti a riflettere, a pensare a come realizzare una serie di attività tra cui in particolar modo la costruzione di oggetti. La Ugalde sottolinea la centralità della Coca nel Sud America, pianta utilizzata dai gruppi indigeni del passato e che ancora oggi viene coltivata e masticata come pianta medicinale. La sezione che apre l’esposizione accoglie una serie di oggetti realizzati dalla comunità in legno e ceramica e mette in luce la conoscenza dei materiali da parte degli indigeni, che si servono di calce e altri materiali naturali per favorire la masticazione delle foglie di coca.
Alcune vetrine raccolgono invece oggetti realizzati completamente in oro. La curatrice racconta la storia di El Dorado e dell’importanza che l’oro ha rivestito per le popolazioni dell’epoca. Rimarca inoltre la scelta curatoriale di posizionare in sala una mappa della Colombia preispanica ma di non suddividere le sezioni secondo un criterio cronologico. Questo, suggerisce, aiuta alla comprensione di un concetto sollevato dai partecipanti della comunità stessa, secondo cui un oggetto che esiste già in natura è senza tempo, per cui è inutile provvedere ad una ripartizione dei reperti secondo il consueto principio storico. Piuttosto, la materia prima è sempre esistita, dunque quegli oggetti – che siano figure votive, raffigurazioni umane o ibride o anche semplici ornamenti in oro – hanno posseduto un’anima sin dal principio della loro esistenza. I Tunjos, figure votive, racchiudono in sé la fisionomia di creature diverse, animali e umani ma anche oggetti inanimati, fatti di materiali esistenti in natura. Per le comunità indigene non esistono neanche specie o distinzioni di razza, siamo tutti parti di una “Extended Family”.
Questi popoli sono inoltre noti per la loro abitudine di sedersi in cerchio e pensare a come realizzare quegli oggetti che utilizzeranno per comunicare, mangiare, suonare. La Ugalde giustifica così la decisione di mettere in piedi una sorta di teatro naturale al centro della mostra. Un prisma che all’esterno riflette una serie di video di paesaggi mozzafiato della Colombia, accompagnati da effetti sonori che proiettano il visitatore in una dimensione naturalistica ed esotica, mentre al suo interno accoglie delle panche sulle quali è possibile sedersi e immedesimarsi nell’arte – perché è considerata una vera e propria tradizione culturale – del “thinking” caro agli Arhuacos. La connessione con la natura è il tema centrale della mostra del Rietberg. Spiega ancora Fernanda Ugalde: «Per queste popolazioni tutto il mondo è interconnesso. L’universo è un cosmos, tutti ne facciamo parte. Gli oggetti in mostra riassumono questo concetto: forme umane o animalesche o addirittura ibride che rimandano a concetti di casa. La casa intesa come corpo, come abitazione ma anche come urna per le nostre ceneri future. L’uomo, l’acqua, l’aria, gli animali e la natura sono la stessa cosa, siamo noi in Occidente che spesso pensiamo di essere distinti gli uni dagli altri».
Questa visione romantica della connessione presente tra l’essere umano e ciò che lo circonda raggiunge il culmine grazie all’allestimento delle sezioni che concludono la mostra. Oggetti che raffigurano pesci e molluschi sono posizionati più in basso rispetto a quelli che ritraggono gli uccelli. Altri hanno forme umane e animali condensate in piccoli ornamenti, collane con figure di rane, orecchini e braccialetti con piccole scimmie dorate che adornano la composizione. «É interessante notare come queste popolazioni abbiano avuto così tanto oro a disposizione e lo abbiano usato non tanto per goderne nel presente, quanto piuttosto per comunicare qualcosa alle generazioni future. Questi oggetti manifestano la volontà delle comunità indigene di mandare un messaggio ai posteri, ponendosi già come avi. Il materiale diventa dunque un espediente e la suddivisione in epoche storiche non è rilevante per queste popolazioni: ciò che conta realmente è prepararsi ad essere buoni antenati già in vita».
Un’ulteriore peculiarità della mostra zurighese consiste nella giustapposizione di oggetti, come al solito ornamenti, e di raffigurazioni umanoidi che ne testimoniano l’effettivo utilizzo da parte delle comunità. Una mostra, dunque, che si scrolla di dosso diverse etichette e che realmente ci pone di fronte ad una visione distaccata da quella delle tradizionali mostre sull’arte cosiddetta “indigena” o, peggio, esotica. Un’immersione totale in una cultura sconosciuta ai più, in cui convivono arte, musica, artigianato ma soprattutto una filosofia dell’universo secondo cui siamo tutti figli del medesimo cosmos.