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Al Museo Diocesano la grande retrospettiva dedicata a Robert Capa
Fotografia
Fino al 13 ottobre 2024 il Museo Diocesano di Milano spalanca le porte per accogliere una completa retrospettiva sul fotografo di guerra Robert Capa. La mostra, curata da Gabriel Bauret con il patrocinio di Regione Lombardia e del Comune di Milano, si snoda attraverso 300 opere, articolate in 9 sezioni, che raccontano la carriera del fotografo ripercorrendo gli eventi politici e sociali più caldi intercorsi tra il 1932 al 1954, anno della morte di Capa. La mostra è promossa da Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, in collaborazione con Magnum, e prodotta da Silvana Editoriale.
Il viaggio del fotografo assume le sembianze di un’Odissea senza ritorno, a causa della morte provocata da una mina antiuomo nel 1954 in Indocina. La veste eroica di Capa si concilia con la necessità di avvicinarsi il più possibile al momento da documentare, sia questo un conflitto, un evento politico o uno spaccato più sereno della società. Il sapiente occhio di Capa si dedica all’assoluzione di questo compito, tutt’altro che banale, restituendo una narrativa che ricostruisce la drammaticità della guerra come condizione di per sé, tanto quanto la dimensione umana di chi la subisce.
In mostra ritroviamo opere di fama mondiale come Morte di un miliziano lealista, fronte di Cordoba, Spagna, inizio settembre 1936 e Truppe americane sbarcano a Omaha Beach, D-Day, Francia, Normandia, 6 giugno 1944. Capolavori iconici come quelli citati convivono con storie più intime che affiorano dal retroscena degli scatti, combinando la sensibilità di Capa con quella dei soggetti ritratti. Ne è un esempio la documentazione delle ondate migratorie al nord di Haifa, Israele, che Capa documenta tra il 1948 e il 1950. Tra gli scatti di questo periodo spicca il volto di una bambina il cui pianto contiene una disperazione molto più grande della sua età, molto più grande di qualsiasi età.
Nel corso della sua carriera Capa attraversa innumerevoli momenti storici, partendo da un servizio su LevTrockij nel 1932, dagli avvenimenti politici legati al Fronte Popolare francese, alla Guerra Civile spagnola, al conflitto tra Cina e Giappone, alla risalita in Italia degli Alleati, allo sbarco in Normandia, di cui sopravvivono solo 11 fotografie delle 106 scattate quella mattina. Il viaggio continua in URSS dove il fotografo si scontra con circostanze differenti e rimane colpito dalla volontà di ricostruire che le persone dimostrano nonostante le atrocità vissute, per proseguire toccando Israele e i suoi flussi migratori, fino al ritorno in Asia, dove Capa trova la morte in Vietnam nel 1954.
Ad essere rappresentati non sono solo i momenti di conflitto, ma anche quelli di una realtà parallela più spensierata, come il Tour de France del 1939. Negli anni Quaranta Capa vive principalmente in Francia e, al finire della guerra, racconta della vita che vuole riappropriarsi della propria quotidianità. Vengono dunque immortalati la gente che torna nei caffè, la ripresa delle funzioni nelle sinagoghe, ma anche balli, sfilate di moda, personaggi famosi e artisti. Iconiche sono le fotografie di una Berlino che risorge dalle macerie, o il ritratto di Henri Matisse all’interno del proprio studio a Nizza. Il sorriso di persone in festa crea quasi un ossimoro di fronte alla drammaticità degli episodi di guerra, giustapponendo momenti che in realtà si muovono in parallelo di continuo anche oggi.
Negli scatti di Capa regna una filosofia imprescindibile, quella dell’essere presente, presenza da intendersi come vicinanza anche fisica. E se il soggetto da scattare è una guerra, è accanto ad essa che bisogna stare. Celebre è infatti la frase «Se le tue foto non sono buone non sei abbastanza vicino», ricordata anche dal fratello Cornell nella prefazione dell’autobiografia Leggermente fuori fuoco.
Come affermato dal curatore della mostra Gabriel Bauret, Capa non si limita ad essere protagonista solo dei così detti tempi forti «che solitamente mobilitano l’attenzione dei giornalisti e richiedono loro di essere i primi e più vicini», ma si muove anche in quelli che il fotografo Raymond Depardon definiva «tempi deboli». È proprio in questi tempi deboli che la storia del singolo emerge in superficie e completa, a volte in modo anche morbido, un quadro troppe volte immensamente complesso.