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Pergolesi e Donatoni, sul filo della commedia, al Teatro Ariosto di Reggio Emilia
Teatro
di Luigi Abbate
Senza dubbio ciò che Alfred Alfred di Franco Donatoni e La serva padrona di Giovanni Battista Pergolesi hanno in comune è la debolezza della trama. Nel primo titolo il susseguirsi di improbabili vicende raccontate dal letto dell’ospedale “Alfred” di Melbourne (nome e luogo reali) nel bel mezzo di un coma diabetico sofferto (realmente) dall’autore della musica. Nel secondo, ben più noto e storicamente acquisito, le astuzie di una “colf” del Settecento finalizzate al convolare a nozze con il più attempato datore di lavoro. Non è dunque la trama ad aver spinto la Fondazione I Teatri di Reggio Emilia all’accoppiata e alla loro messa in scena al Teatro Ariosto.
Vero è, d’altro canto, che, nonostante l’esile filo che le tiene insieme, e i quasi trecento anni di storia che le separano, altri, sotterranei, sono i legami fra le due partiture. Per esempio l’ingessata, meccanica drammaturgia dei personaggi, ben ravvisabile in entrambe le operine (mezz’ora di durata la prima, tre quarti d’ora la seconda). Tratto comune anche la corda comica, anche se ovviamente espressa con diverse sfumature. Una comicità “pane-e-salame” quella pergolesiana, l’altra ormai congelata, se non in fase di Erstarrung, d’irrigidimento post-mortem. Così come in termini ironico-postmoderni va letta la stessa dicitura del titolo di Pergolesi, altrimenti il termine “servo” declinato al maschile (Vespone) come al femminile (Despina) oggi suonerebbe politically uncorrect.
Linguisticamente, in modo ben più felice di quanto avvenuto in Atem, unico precedente teatralmusicale di Donatoni nel quale la trama neppure esisteva, qui il compositore governa il proprio stile con cristallizzata sapienza compositiva, e con sovrana autoironia si mette in gioco sulla scena. Qui no, ma chi c’era alla prima assoluta di Alfred Alfred a Strasburgo nel 1998 ricorderà ancora la presenza di Donatoni sul palco, a rappresentare se stesso.
Non manca il ricorso a citazioni da celebri passi verdiani, a cominciare, anzi terminare, dal fugato conclusivo del Falstaff (“Tutto nel mondo è burla” che diventa “Il diabete è una burla” ). E, sempre sul filo della suggestione operistica, il pensiero non può non andare al capolavoro del teatro comico di primo Novecento, Gianni Schicchi: anche in casa di Buoso Donati, come nella camera dell’ospedale Alfred, è tutto un vai-e-vieni da corte dei miracoli, gli assatanati parenti nella prima, le eccitate infermiere e i medici malandrini nella seconda.
Se poi in Puccini lo stesso Buoso è già morto, a F.D. – immaginate a chi si riferiscono le iniziali – poco ci manca. Fatto sta che questa corda viene abilmente sfruttata da Muta Imago (Claudia Sorace regista e Riccardo Fazi drammaturgo, coadiuvati da un pool di ottimi collaboratori). Simpatica l’idea, nell’allestimento, di immaginare una continuità, per così dire, à rebours dall’oggi di Alfred Alfred al Settecento di Uberto, il Padrone del titolo di Pergolesi, che così, come scrive Sorace, “al mattino si risveglia dall’incubo allucinato di Donatoni per affrontare la lotta quotidiana con la sua serva preferita”. Leggerezza che deve qui convivere con un cospicuo numero di personaggi, fra cantanti, narranti, recitanti e mimi; viceversa con tre soli nel titolo pergolesiano: Despina il soprano, Uberto il baritono, il muto Vespone, agiti attraverso recitativi secchi e numeri chiusi – arie e duetti – geometricamente distribuiti nelle due parti, dette “intermezzi”.
Piacevoli anche le immersioni visuali delle scene: realismo luministico, fra Hopper e Hockney per Donatoni, con le ormai consuete sottolineature in video di dettagli dei personaggi; storicamente coerenti i costumi e gli arredi in Pergolesi, con il richiamo alla Liberté di Delacroix a far da simbolo di garbata denuncia del riscatto femminile.
Ottimo il côté musicale, dove la produzione reggiana ha puntato sull’economia della linea verde. Lungo sarebbe l’elenco. Citiamo almeno i tre impegnati in entrambi i titoli e in simpatici incroci di funzioni: la Samantha Faina di Serpina e della felliniana Maristella degli Spiri, Giuseppe De Luca, l’Uberto e il muto F.D. – il noto compositore di Alfred Alfred -, e infine Gabriele Matté, a sua volta mimo in Donatoni e muto Vespone in Pergolesi. Linea verde anche sul versante strumentale: lo storico Icarus Ensemble ha ceduto definitivamente il nome a un gruppo di giovani interpreti promossi in prima squadra dalla “cantera” (si chiamava Icarus-versus-Muzak, e, improbabile dicitura a parte, aveva partecipato a prestigiose produzioni e tournée, e prodotto ottimi cd). In questa occasione l’ensemble era diretto con equilibrata competenza da Dario Garegnani.