01 luglio 2024

Matteo Cremonesi, ritorno al fantasmagorico: la mostra da Banquet Gallery di Milano

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A margine della mostra alla Banquet Gallery di Milano, Matteo Cremonesi ci parla della sua ricerca, tra pitture, manufatti, ceramiche, residui e frammenti da un mondo oscuro, potente e vivissimo nel nostro tempo

Matteo Cremonesi, Fantasmagorie, veduta della mostra, Banquet Gallery, 2024, Milano
Matteo Cremonesi, Fantasmagorie, veduta della mostra, Banquet Gallery, 2024, Milano

Banquet Gallery, co-fondata da Giangiacomo Cirla e inaugurata il 20 febbraio 2024 con UNALINE di Mario Silva, si focalizza sulle pratiche di artisti mid-career affermati e di solida ricerca intellettuale, nel cuore della zona di Lambrate. Nelle parole di Cirla, la galleria nasce dalla necessità di far convergere un lungo percorso a contatto con artisti e professionisti del settore e l’esperienza di OPR Gallery in un nuovo spazio. La galleria si struttura in due spazi: l’ingresso di vetrina sulla strada funge da “antipasto” a quello sarà il cuore dell’esposizione, al piano inferiore.

In Fantasmagorie, l’artista Matteo Cremonesi espone pitture, oggetti manufatti e ceramiche di tinte oscure e cupe, figli di un profondo ragionamento sulle dinamiche magiche e inquietanti dei fantasmi dei poteri contemporanei legati all’universo ancestrale. Resti biologici corrotti da innesti di prodotti plastici, soggetti inquietanti che si mostrano come feticci dell’inconscio contemporaneo. La collaborazione tra Cirla e Cremonesi inizia molti anni fa e i due fondano Phroom, piattaforma internazionale di ricerca e archivio di cultura visuale e fotografica.

Matteo Cremonesi ci ha raccontato il processo di produzione e i significati semantici del suo lavoro.

Matteo Cremonesi, Fantasmagorie, veduta della mostra, Banquet Gallery, 2024, Milano

Nella tua pratica hai prodotto serie fotografiche catturando soggetti del nostro paesaggio contemporaneo che tu definisci “immobili, normalizzati, indifferenti”. Le Dark Printer esibivano le loro qualità anonime e il valore plastico come sculture. Qui invece vediamo pitture ad olio e sculture. Cos’è successo?

«A Banquet vediamo uno scomodamento della mia prassi artistica. Nelle fotografie lavoro sull’idea che in virtù della globalizzazione si vada creando una sorta di linguaggio universale di “oggetti medi” che rimangono sempre uguali, con la stessa pelle. Questi oggetti incarnano un’idea di meta-tecnologia neutra e insieme l’appiattimento causato dalla normalizzazione delle diversità. Un “territorio piatto” dentro una superficie universale che nasconde una piccola vertigine: le mie immagini ripetevano questa questione. Una stampante, un albero, la cover di un telefono, il portellone di un aereo: tutto poteva essere un territorio medio. Siamo alla fine delle grandi narrazioni sullo sviluppo tecnologico – o, forse, solo all’inizio-. Negli anni, la tesi è deceduta e questo ha influenzato la mia pratica: ecco il ritorno al fantasmagorico, alla magia, all’ancestrale».

Didi-Huberman in Davanti L’immagine scrive che il colore bianco dell’annunciazione del Beato Angelico è il vero sintomo del visibile, “l’avvenimento” della pittura, la vertigine appunto. Il nero delle tue pitture mi ricorda questo concetto.

«Sì, il nero come il bianco presenta se stesso. Nelle tele ho combinato pittura ad olio su una base fotografica di stampa. Per questo l’esito del tratto è incerto, in transizione: una pittura “di mezzo”, ibrida, che snatura entrambi i media e che si esibisce in velature, tradendo un’immagine pienamente realizzata – cosa può essere stampato o raccontato chiaramente, oggi? -. In questi lavori si nota il richiamo alle pinturas negras di Goya, all’urlo baconiano, al Magnasco, pittore genovese del ‘700 che partiva sempre da basi nere. Preferisco stare sotto questa fuliggine, come tra i fumi delle prime fabbriche dell’Ottocento. Volevo parlare di una temperatura, di un microclima sotto una coltre irrazionale, alterata e dolente».

Matteo Cremonesi, Fantasmagorie, veduta della mostra, Banquet Gallery, 2024, Milano
Matteo Cremonesi, Fantasmagorie, veduta della mostra, Banquet Gallery, 2024, Milano

Titoli la mostra Fantasmagorie: un susseguirsi di immagini, di supposizioni infondate? Di illusioni ottiche?

«Il termine definisce una tecnica utilizzata a inizio ‘800 nei salotti della borghesia, classe che si stava elevando a potenza economica e industriale e che vantava un sapere scientifico illuminato. Quella stessa borghesia che, la sera in luoghi privati, aveva il vezzo di assistere alle fantasmagorie, spettacoli spiritici, apparizioni vivide di fantasmi tramite oggetti ottici, tipo lanterne magiche, evocazioni insomma. È in questi contesti che Allan Kardec codifica lo spiritismo come dottrina filosofica, catalogando le anime in serissime “tabelle scientifiche”. Il rovesciamento ancestrale della cultura illuminata, una sorta di logoramento del razionale. Questo mi interessa molto».

Matteo Cremonesi, Fantasmagorie, veduta della mostra, Banquet Gallery, 2024, Milano
Matteo Cremonesi, Fantasmagorie, veduta della mostra, Banquet Gallery, 2024, Milano

Una sorta di fuga dalle fascinazioni della scienza e della tecnica, un ritorno “all’analfabetismo”. I tuoi oggetti contengono questo ritorno al selvaggio e al magico. Da cosa stiamo fuggendo?

«Sì, in questo senso oggi attraverso l’ancestrale si rifugge dalle notizie, dei media, vivendo le informazioni più di pancia che di testa. Lo scritto criptico sta venendo meno a causa dell’iper-velocità, delle nuove AI, dei deep fake etc. Le ceramiche e le sculture sono idoli votivi, feticci, luoghi di miscelazione tra l’estremo contemporaneo e l’animalesco originario. Sono come resti in un campo di battaglia, dopo un conflitto distopico, uno scenario alla Il Signore delle mosche. Ho in mente anche le immagini più crude della guerra in Ucraina, crani e scarpe da ginnastica abbandonate, come totem inquietanti: il reale che accade».

Il feticcio allora assurge a testimonianza della brutalità della politica e del mercato contemporaneo, la sua indigestione. Merci idolatrate dalla società capitalista, ma vuote di valore intrinseco. 

«Sì, gli oggetti testimoniamo l’ebollizione del mercato, la sua incapacità di trattenersi dal consumare, dove per consumare intendo rovinare, agitare, rovinare, produrre. Contemporaneamente si vede un ritorno ad una dimensione animale, ancestrale, che è feticizzante, apotropaica. Il feticcio è costruzione combinatoria di due elementi, sacro e sacrilego. Oggi, la feticizzazione della tecnologia e la resistenza agli idoli contemporanei implica una riconfigurazione della nostra percezione e delle nostre pratiche sociali».

Guardando le tue sculture innestate, mi è tornato in mente Capitol Hill e lo sciamano, nemesi dell’America upper class, una sorta di capovolgimento dell’immagine medievale del barbaro, simbolo dei coloni in lotta contro una politica corrotto.

«Capitol Hill è proprio la manifestazione performativa di quanto diciamo. “L’indiano metropolitano” e il tribale sono concetti passati dagli anni ’60 che sono rimasti maldigeriti e si esprimono in queste violenze reazionarie ma tutto sommato mediaticamente formalizzate come “news”, per un utente medio che si informa solo su internet. Le corna di bufalo davanti alla Casa Bianca: è la costruzione di un Signore delle mosche, davanti a vecchi adulti. L’esplosione di un cortocircuito, un sintomo che l’America non riesce a nascondere, che combina i suoi aspetti più estremi quali l’informazione disinformata, l’analfabetismo, la rabbia di una classe disagiata e bianca. Non se ne esce».

Matteo Cremonesi, Fantasmagorie, veduta della mostra, Banquet Gallery, 2024, Milano

Mi fai ripensare al concetto di animalità per come lo intende Agamben, qualcosa che si oppone alla sovranità antropocentrica. Dove hai trovato questi scheletri animali e perché li hai così ricomposti?

«Sono resti di cinghiale, volpe, corna di cervo, capre e uccelli, raccolti nei boschi altoatesini, innestati con cinghie e oggetti di mercato come una scarpa Nike. La questione è la combinazione: è tra la plastica d’uso consunta e l’aspetto ancestrale dei resti biologici che si crea la vertigine. Mi sono inspirato ai Luster, antichi lampadari kitch antropomorfi che si trovano in vari paesi austriaci, sospesi nei salotti o nelle case. Gli uomini si affidavano a queste figure apotropaiche per vigilare sulla pace domestica, allontanando il maligno. Siamo in un pre medioevo dove il cristianesimo non aveva ancora del tutto attecchito sulla cultura locale. Demoni per scacciare altri demoni: così nasce tutta la demonologia. Penso ai demoni arabi, a Satana, al Pazuzu. Volevo ricreare un oggetto che denunciasse ed esorcizzasse un vizio, una indigestione delle estetiche e delle tendenze».

Queste piccole Teste di Trump in ceramica creano una sorta di sottobosco, incorniciando lo spazio. Come si inseriscono in questo ragionamento?

«Sono ceramiche cave ottenute da una testa di silicone di Donald Trump impiegata durante la campagna elettorale, che ho comprato online dal sito ufficiale e usato come stampo. Il colore nero è ricavato da una pasta cruda di betulla seccata, tecnica locale del Trentino, dove la tintura si usa anche per tatuaggi. Parlo sempre di cattivi presagi in un mondo votato al nichilismo e alla negazione, che si riversa in una politica irrazionale venduta facilmente alle masse. Racconto una storia locale, usando feticci idolatrati e compromessi dalla Storia».

Matteo Cremonesi, Fantasmagorie, veduta della mostra, Banquet Gallery, 2024, Milano
Matteo Cremonesi, Fantasmagorie, veduta della mostra, Banquet Gallery, 2024, Milano

Insegni Teorie dei nuovi media: credi che la rete e il WWW contengano un aspetto ancestrale e selvaggio, nelle sue immagini e linguaggi? 

«Sì, disinformazione “fatta in pizzeria”. È nella frequentazione aberrante della rete che si trova il peggio del post-internet. Nella rete collettiva si ricrea un immaginario primitivo, hackeraggio del sistema. Studiando e praticando la fotografia, mi sono reso conto che non potevo più “rappresentare” tutto, perdevo sempre qualche passaggio, qualcosa che prima era vero ma adesso già non lo è più. La protesi è questo, l’incontro violento tra due mondi. Prima di Capitol Hill, pensiamo allo jihadista che carica su internet un video in cui è vestito griffato mentre decapita un essere umano: un’azione medievale compiuta con una borsa Gucci sulla spalla. Quando l’Isis si è presentato online, i suoi militanti parlavano un inglese Cambridge portando tesi da fantamedioevo, rigurgito di immaginari culturali. Ho viaggiato molto in Medio Oriente e ho notato che nei paesi medi, di passaggio di confine, si sente forte una europeizzazione maldigerita, dove i conflitti riemergono in maniera grave, irrazionale. Tornando alla rete…il meme cos’è, se non un feticcio?».

Il cannibalismo ha qualcosa a che vedere con i lavori che esponi? Penso all’ultimo film di Cronenberg, alle “teste senza volti” di Bacon. Recentemente ho letto Metafisiche Cannibali, saggio che parla di totemismo, sciamanesimo trasversale e sacrifici come sistemi trasformativi della cultura.

«Ho letto tanto Ewald Volhard, che sulla materia è il caposaldo. Nel suo testo Cannibalismo fa una ricognizione del fenomeno viaggiando tra nord Africa, nord America e Asia. Siamo a inizio Novecento e il suo lavoro era del tutto controcorrente. Se al tempo l’antropofagia era studiata solo come un vizio abominevole e mostruoso, Volhard parte dal substrato psicologico e di costume degli indigeni che attuavano la pratica come forma di autosostentamento o per ritualità religiose o profane. Secondo i suoi studi, al pari di condizioni geografiche, queste civiltà erano paradossalmente molto più elaborate e consapevoli di quelle non cannibali dal punto di vista sociale, tecnologico e narrativo, scalzando i preconcetti dell’opinione pubblica. Si racconta che Volhard stesso, dopo aver mangiato, si sia fatto mangiare.

Penso ad un altro testo, Il Pasto Sacro di Mario Bacchiega, sacro perché l’uomo si nutre della divinità. Uno spettro di cannibalismo è sopravvissuto nel cristianesimo, nel corpo di Cristo. Torniamo all’idea di indigestione capitalista e di consumismo contemporaneo, all’idea di “resto” e di “rifiuto” in Bataille, alla Grande Abbuffata. Gli immaginari attingono sempre a forze ancestrali e selvagge che, senza dubbio, raccontano qualcosa del nostro reale».

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